Friday, September 29, 2006

Sette uomini per il dopo Annan. L’Asia la fa da padrona

ONU IERI A NEW YORK LA TERZA TORNATA DELLE “STRAW POLL”. NEI PRIMI DUE SCRUTINI PREVALEVA IL SUD COREANO BAN KI-MOON
Sette uomini per il dopo Annan. L’Asia la fa da padrona
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, venerdì 29 settembre 2006

Volete diventare segretario generale delle Nazioni Unite? Andate sul sito www.UNSGselection.org e rispondete al questionario che i promotori della campagna «per un processo di selezione più democratico » hanno preparato.
Bisogna dimostrare che nella propria vita si è lavorato all’insegna dell’«impegno per i principi dell’Onu », che si conosce il “Brahimi Report on Peacekeeping Operations” o i principi di diritto internazionale in grado di contemperare il diritto dei popoli con quello degli Stati. Bisogna illustrare le proprie proposte sui diritti umani, sviluppo, governance, giustizia internazionale, ambiente, ruolo delle ong e via dicendo, non trascurando naturalmente la riforma del Palazzo di Vetro.
In teoria la corsa è aperta a tutti. Un rapporto di un’apposita commissione del 1945, sintetizzato lo scorso giugno dal Consiglio di sicurezza, indica nove requisiti da rispettare, che vanno da generiche «capacità amministrative e gestionali» ad una non precisata «autorità morale» in linea con «l’indipendenza richiesta dall’articolo 100 della Carta Onu».
Formalmente dunque non c’è un profilo ideale per diventare l’ottavo segretario generale e successore di Kofi Annan, in carica dal 1997. E nemmeno un limite di tempo per presentarsi. Non è detto infatti che il candidato designato riesca ad uscire indenne dalle tornate dello “straw poll”, il giro di primarie a porte chiuse – il terzo solo ieri a New York – in corso in questi giorni al Consiglio di Sicurezza.
Per vincere infatti, bisogna ottenere almeno nove di quelli che il linguaggio tipico onusiano, un misto di umanità e burocrazia, ha definito «voti di incoraggiamento », e nessun «voto di scoraggiamento» da parte dei cinque membri permanenti. Ci si è impegnati a chiudere le procedure entro ottobre, ma, prima della ratifica all’Assemblea generale, le sorprese non sono escluse. Lunedì prossimo infatti i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza potrebbero mettere un veto e mandare all’aria l’intero processo, che, per criteri di rotazione, dovrebbe portare ad un segretario generale proveniente dall’Asia (l’ultimo, il birmano U Thant, ha finito il doppio mandato nel 1971).
Di qui, il senso delle candidature espresse, e il risultato dei primi due scrutini, che vede il ministro degli Esteri coreano Ban Ki-Moon, 62 anni, emergere come il grande favorito, avendo ottenuto 12 voti nella prima occasione e ben 14 su 15 nella seconda (con la Cina probabile paese a non aver espresso parere favorevole).
Accusato di essere «troppo debole», a causa dei suoi atteggiamenti troppo «soft», Ban ha dichiarato alla Associated Press di «disporre di una forza interiore» tipica della «gente dell’Asia».
E asiatici sono gli altri due battistrada.
L’indiano Shashi Tharoor, 50 anni, attuale sottosegretario generale Onu per le comunicazioni, diplomatico a cui non manca lo charme, e vincitore di premi letterari con la sua satira politica “The Great Indian Novel”, dovrebbe però risentire negativamente della rivalità regionale tra Nuova Delhi e Pechino. Dal suo ottimo sito personale (www.shashitharoor.com) diviso simmetricamente tra successi letterari e candidatura all’Onu, si definisce «un leader visionario » e un «figlio del Sud» capace di buone relazioni con il G-77, i cosiddetti paesi «non allineati ».
Dietro Tharoor, il primo ministro tailandese Surakiart Sathirathai, 48 anni, che, dopo il colpo di stato avvenuto recentemente nel suo paese, sembra aver perso le già poche possibilità di cui era accreditato nonostante l’appoggio ufficiale del blocco regionale dell’Asean, i dieci paesi dell’”Association of Southeast Asian Nations”.
Nutre poche speranze, invece, il principe Giordano Zeid Ral-Hussein, 42 anni, ambasciatore giordano alle Nazioni Unite e peacekeeper nei Balcani, che, fosse eletto, sarebbe il primo musulmano a ricoprire il ruolo di segretario generale. Così come ha poche chance il cingalese Jayantha Dhanapala, uno dei primi a farsi avanti, e considerato un insider (per dieci anni nell’organizzazione) ma sfavorito dall’età: a 67 anni, è oltre due anni sopra la soglia Onu per la pensione.
Non hanno partecipato ai primi due scrutini invece, gli ultimi due arrivati.
L’unica donna candidata proviene da un paese non asiatico. Vaira Vike- Freiberga, 68 anni, presidente della Lettonia, consulente di Annan per le riforme, che potrebbe godere – grazie al sostegno della guerra in Iraq – dell’appoggio della Casa Bianca e di una parte dei paesi Ue. All’impronta dell’efficienza, la sua risposta al New York Times, che in un pezzo titolato «Perché dovrei correre per le Nazioni Unite», ha posto due domande ai sette candidati: qual è stato l’ errore evitabile che l’Onu ha fatto negli scorsi cinque anni, e quale sarà la principale riforma che promuoverà da segretario generale.
«Per rendere le Nazioni Unite più efficaci, – ha detto l’esponente baltica – abbiamo bisogno di snellire il management, rendendolo più responsabile e trasparente».
«Solo ricreando un clima di fiducia nell’organizzazione possiamo fare delle Nazioni Unite lo strumento per indirizzare i problemi del nostro tempo», è stata la risposta del settimo ed ultimo candidato, l’afghano Ashraf Ghani, 57 anni, dottorato alla Columbia University. Ghani, dopo aver insegnato nelle migliori università americane, torna nel suo paese nel 2002, all’indomani della guerra ai Talebani per diventare ministro delle finanze del governo di transizione di Hamid Karzai. Vi rimane per due anni e mezzo e ottiene finanziamenti per più di 28 miliardi di dollari. Quando nel 2004, Karzai vince le elezioni, chiede di lasciare l’incarico e diventa rettore dell’università di Kabul. È considerato un esperto delle economie in via di sviluppo e della ricostruzioni postbelliche.
Ha lavorato come consulente delle Nazioni Unite e in diversi progetti della Banca mondiale in Cina, India e Russia. Intervistato al Financial Times, ha criticato il dibattito finora svolto, privo «di una chiara articolazione della visione, di un’analisi dei temi centrali e di un programma di cambiamento». Non è detto che non sia lui, l’outsider.

Wednesday, September 27, 2006

Juventus-Inter, è già rivincita

CALCIOPOLI  BORRELLI ALLA STAMPA: DA TELECOM UN FILONE NUOVO
Juventus-Inter, è già rivincita
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, mercoledì 27 settembre 2006

C’è aria di rivincita sull’asse Torino-Milano. La Juventus (e tutto ciò che rappresenta) non lo dice ma vorrebbe tanto la revoca dello scudetto dell’Inter (e a tutto ciò che rappresenta), e pure qualcosa in più. La Stampa dà fuoco alle polveri.
Intervista martedì scorso il capo ufficio indagini della Federcalcio, il dimissionario Francesco Saverio Borrelli, e gli fa dire che «da Telecom può nascere un filone nuovo per Calciopoli ».
Non bastano gli auspici del presidente di Lega calcio Antonio Matarrese, che ieri s’è affrettato a dichiarare «chiuso» il periodo delle intercettazioni.
In un clima di guerriglia, Massimo Moratti quasi esprime rammarico per non aver fatto pedinare l’arbitro De Santis, e aggiunge che alla luce della reazione «smodata, scomposta, di tutto un certo mondo, condannato, e di tutti quelli che gli stanno intorno, quasi gli dispiace» di non essere andato a fondo «due anni fa, quando avremmo risolto il problema». E non manca la “rivendicazione” del “mister”. Così Roberto Mancini dice che se De Santis «ha preso quattro anni di squalifica probabilmente c’era una ragione per farlo pedinare».
E la guerriglia calcistica manda in soffitta l’asse Torino-Milano, la regione policentrica, l’alleanza strategica, l’Alta velocità.
Lontani i tempi – era l’ottobre del 2004, a Cernobbio – quando allo stesso Tronchetti Provera («la volontà collettiva c’è, togliamo le rigidità») rispondeva Cesare Romiti («cominciamo dagli uomini, dagli atenei, dalla formazione»). Quando l’allora presidente della Telecom spiegava che servivano le infrastrutture per potenziare l’asse Mi-To su cui si muovevano già i Telecom Italia Labs, o i Pirelli Labs.
Ora è muro contro muro. E più di un’avvisaglia dell’apertura dell’ostilità, s’era avuta con la fusione San Paolo-Intesa. Ma quella era alta finanza, siamo pur sempre in Italia, e oggi che potrebbe riaprirsi il capitolo calcio, e un’inchiesta Figc sul caso Inter-De Santis, capisci che le cose si fanno serie. Con la capitale morale del paese che chiede “giustizia vera” contro la «clemenza cialtrona», di cui parlava Roberto Beccantini, sempre sulla Stampa all’indomani delle sentenze che spedirono la Juve in B, e di cui avrebbero beneficiato i moralizzatori dell’ultima ora (l’Inter) o i veri potenti (il Milan).
Tutto questo mentre Borrelli chiede conferme al ministro dello sport Melandri, al neo commissario Pancalli, e si prodiga in un botta e risposta con Matarrese. Mentre Luciano Moggi da Matrix, il programma di Mentana, attacca pesantemente Guido Rossi: «Milano, Inter, Telecom. Moratti, Rossi e Tronchetti Provera, sono soci delle stesse cose. Ha fatto quello che doveva fare ed è tornato alla casa madre».
Così se il senatore di An, Achille Totaro, chiede il blocco del campionato e presenta un’interrogazione parlamentare; se il tam tam delle radio romane inizia a lanciare il mantra dello scudetto che vedrebbe il campionato scorso tolto ai neroazzurri e assegnato ai giallorossi, viene da pensare se la «zona grigia» che ci sarebbe in Italia, quella paventata da Tronchetti nella prima conferenza stampa da ex presidente Telecom, non sia proprio quest’enorme campo di battaglia, infrastrutturato, ricco e sviluppato, sull’asse Torino-Milano.
Fosse davvero così, gli unici ad essere davvero contenti sarebbero i sindaci delle «terre di mezzo », preoccupati per il futuro del territorio tra i due poli, che rischiava di essere tagliato fuori.

Monday, September 25, 2006

Global warming, ecco il piano di Bush Ma Schwarzy si conferma più “green”

Global warming, ecco il piano di Bush Ma Schwarzy si conferma più “green”
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA, venerdi 22 luglio 2006

Non c’è solo Al Gore e il suo An Inconvenient Truth. A portare il tema del global warming al centro della scena politica americana, ora ci pensano i repubblicani.
Così dopo anni di critiche degli ambientalisti e tentativi di minimizzare da parte di Washington, alla fine arriva anche il piano strategico di George W. Bush sulla riduzione dei gas serra responsabili dei cambiamenti climatici. Si chiama “Climate Change Technology Program Strategic Plan”, consta di 244 pagine e ha visto un quadriennio di lavoro prima di essere diffuso dal dipartimento dell’energia americano.
Nel frattempo la California del suo “competitor” interno principale sul fronte ambientale, il governatore repubblicano Arnold Schwarzenegger, dichiara guerra a sei grandi compagnie automobilistiche troppo inquinanti, in quella che si annuncia allo stesso tempo come la battaglia legale per risarcimento danni più grande della storia, e una pietra miliare per le battaglie ecologiste.
Tutto questo mentre i temi ambientali tornano prepotentemente in agenda in vista delle elezioni di medio termine del prossimo novembre: secondo recenti sondaggi Zogby, la maggioranza degli americani ora pensa che il global warming sia un problema serio. Mentre, se rimane alta la soglia d’attenzione dell’elettorato democratico (l’87 per cento) è rilevante osservare che oggi anche il 56 per cento dei repubblicani considera la questione degna di attenzione.
Chi si aspetta un cambio di rotta dal documento emesso da- Washington rimarrà deluso, però. Sia i tre miliardi di dollari all’anno che verranno stanziati per la ricerca, che le strategie di medio e lungo termine ipotizzate, riflettono l’impostazione tradizionale dell’amministrazione Bush che ha sempre escluso il meccanismo di riduzione delle quote di emissioni (quello di Kyoto, per intendersi), e per evitare danni all’economia ha legato il contenimento del biossido di carbonio nell’atmosfera allo sviluppo di nuove tecnologie.
Come sono da considerarsi ortodosse, «la promozione o il rafforzamento di accordi internazionali», come l’“Asia Pacific Partnership on Clean development and Climate”, l’accordo presentato nel luglio del 2005 in Laos dai sei paesi che da soli emettono il 40 per cento dei gas serra mondiale (Usa, Australia, Giappone, Cina, India e Corea del Sud), e che in molti videro come atto di nascita di un vero e proprio cartello alternativo a Kyoto.
A fronte della linea tenuta da Bush, e avversata sia dagli ambientalisti che dagli esponenti del suo partito, c’è la partita in chiave liberal, per dirla con il New York Times, che si sta giocando in California.
Con il procuratore generale Bill Lockyer che fa causa a colossi del calibro di Ford, General Motors, Toyota, Honda, Chrysler e Nissan, che dovranno rispondere dei danni procurati all’ambiente e alla salute dei cittadini del più popoloso stato americano – e con i due milioni di vetture immatricolate ogni anno – del più importante mercato di auto degli Stati Uniti.
Aspettando il corso della giustizia, non si può non rilevare che l’episodio è solo l’ultima delle azioni intraprese dalla California per combattere gli effetti del surriscaldamento globale. Che a fine agosto – in un’importante votazione che vide i democratici a favore e i repubblicani contro – è stato approvato un piano per ridurre del 25 per cento entro il 2020 le emissioni provocate dalle industrie. Piano che in attesa di essere promulgato da Schwarzy, rimane il riferimento per gli altri stati americani che volessero seguire gli accordi di Kyoto, che l’amministrazione Bush non ha mai voluto ratificare.
«Sul global warming, guardate alla California, e non agli Stati Uniti», è il titolo significativo dell’intervento scritto dallo stesso Schwarzenegger per l’edizione speciale dell’Independent di ieri, quella disegnata dal suo amico Giorgio Armani.
Nell’articolo, oltre a richiamare la recente partnership sull’ambiente con Tony Blair, il governatore non manca di citare Winston Churchill: «Se siamo insieme, niente è impossibile».
Non si riferiva al presidente Bush.

«Il Pakistan ridotto in macerie se non collaborerà»

«Il Pakistan ridotto in macerie se non collaborerà». Musharraf rivela le minacce americane dopo l’11/9
Intervistato dalla Cbs, il presidente pachistano accusa Washington che avrebbe minacciato di riportare il Pakistan «all’età della pietra» se non avesse cooperato dopo l’11 settembre
di stefano baldolini
EUROPA, sabato 23 settembre 2006

L’asse Washington-Islamabad per ora tiene. Almeno a giudicare dalle battute a caldo dei rispettivi presidenti che si sono incontrati ieri alla Casa Bianca, sembrerebbe rientrata la crisi tra Pakistan e Stati Uniti. Ma i rapporti tra i due paesi non sono più quelli dei tempi della “War on Terror”.
A dare fuoco alle polveri, era stata un’intervista del programma «60 Minutes » della Cbs a Pervez Musharraf: all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush avrebbe minacciato di colpire il Pakistan e di riportarlo «all’età della pietra» se le autorità di Islamabad non avessero cooperato con Washington nella guerra al terrorismo. A lanciare il monito, sarebbe stato Richard Armitage, allora vice segretario di stato, incontrando il direttore dell’intelligence nazionale pachistana. Con il suo messaggio l’esponente dell’amministrazione Bush, recentemente coinvolto nel Plame Affair (sarebbe lui la fonte che rivelò a Bob Woodward l’identità Cia di Valerie Plame Wilson) fece pervenire alle autorità pachistane anche la richiesta di mettere a disposizione degli americani posti di confine e basi da utilizzare nella guerra contro i Taleban in Afghanistan. Tra le altre richieste, definite «assurde» da Musharraf, quella di eliminare ogni espressione di sostegno interno al terrorismo contro gli Stati Uniti. «Non possiamo impedire di esprimere opinioni», ha aggiunto il presidente pachistano.
Le parole che Armitage avrebbe pronunciato riecheggiano in modo sinistro un’altra celebre minaccia. «Vi ricacceremo all’età della pietra», disse all’allora ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz, il segretario di stato di Bush padre, James Baker. Era, quello del gennaio del 1991 a Ginevra, l’ultimo incontro prima della guerra del Golfo.
E l’intervista rilasciata alla Cbs è solo l’ultimo di una lunga serie di “sgarbi” reciproci.
Se Osama bin Laden venisse localizzato in Pakistan, gli Stati Uniti non esiterebbero a catturarlo o ucciderlo, aveva dichiarato solo qualche ora prima il presidente Bush alla Cnn. Parole accolte con freddezza da Musharraf, a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, che ribadiva che il Pakistan è un territorio sovrano. Quanto alla cattura o all’uccisione di bin Laden in territorio pachistano, aggiungeva: «Preferiremmo farlo da noi». Che l’aria fosse cambiata lo testimoniavano anche i media americani.
«Pakistan: alleato o nemico?», si chiedeva il Los Angeles Times lo scorso 5 settembre, invitando senza mezzi termini l’amministrazione a mollare il regime militare di Musharraf al suo destino. E, in vista delle presidenziali fissate per il prossimo anno, se non fosse il caso di sostenere l’alleanza dei due ex leader in esilio, Benazir Bhutto e Nawaz Sharif. L’indice è puntato anche contro l’ingente aiuto economico – pari a 3,6 miliardi di dollari, senza contare i 900 milioni in aiuti militari, e l’impegno di Washigton a posticipare la riscossione del debito di 15,5 miliardi – concesso al regime dall’11 settembre.
Tutta un’altra storia rispetto all’”età della pietra” di cui ha parlato Musharraf.
Suscitando le perplessità della Casa Bianca – che si è affrettata a smentire attraverso il suo portavoce Tony Snow – e quelle di Bush, che dopo l’incontro di ieri ha detto di essere «rimasto sbigottito» dalla crudezza della minaccia riportata da Musharraf. La cui replica a proposito ha sorpreso tutti: «Ho un libro in uscita il prossimo 25 settembre. Non posso commentare su questa questione perché violerei gli obblighi con l’editore Simon & Schuster», ha detto il generale. Si tratterebbe di "In the Line of Fire: A Memoir", che racconta la guerra al terrorismo vista dal suo punto di vista. La sua battuta è stata salutata con una sonora risata dal presidente Bush. «È una risposta da manuale », ha detto.
Allentando la tensione, in attesa del nuovo colloquio ancora a Washington, la settimana prossima, allargato al presidente afghano Hamid Karzai.

Il generale “occidentale” che non deve nulla ai punjabi

RITRATTO DI MUSHARRAF AL POTERE DAL 1999 DOPO IL GOLPE NON VIOLENTO, È CONSIDERATO UN LEADER MODERATO DALL’OCCIDENTE
Il generale “occidentale” che non deve nulla ai punjabi
di STEFANO BALDOLINI
Europa, sabato 23 settembre 2006

Pervez Musharraf sale alla ribalta della cronaca nell’ottobre del 1999, quando, con un colpo di stato non violento, destituisce il primo ministro Nawaz Sharif, che era salito al potere nel 1997, dopo la deposizione di Benazir Bhutto ad opera del presidente Farooq Leghari. Nel giugno del 2001 si auto-nomina presidente del Pakistan, senza abbandonare l’uniforme militare, sulle orme del generale Zia ul-Haq.
Secondo di tre figli, nato a Delhi nell’agosto del 1943, proviene da una famiglia middle class (il padre lavora per il ministero degli esteri) che emigra in Pakistan, a Karachi, durante la divisione del sub continente indiano.
Seguendo il padre, passa la gioventù in Turchia, ad Ankara, dal 1949 al 1956. Nel 1958 il diploma al Saint Patrick’s High School di Karachi, poi gli studi al Forman Christian College di Lahore.
Pur non appartenendo alla famiglia punjabi, da cui discende generalmente la classe dirigente del Pakistan, Musharraf, che inizia la carriera nelle forze armate nel 1964, scala le vette politico-militari del paese.
Durante gli anni in cui Benazir Bhutto è primo ministro del Pakistan, viene nominato alla guida del settore operativo dell’esercito.
Nel 1998 il capo delle forze armate Jehangir Karamat si dimette e Musharraf ne prende il posto. Secondo diversi osservatori, alla base della promozione, proprio il fatto che Musharraf non apparteneva alla classe dominante, cosa che gli avrebbe impedito di costituire un proprio blocco di potere.
Poi nell’ottobre del 1999, il colpo di stato, per difendersi dal complotto di Nawaz Sharif, dal quale era diviso da profondi contrasti dopo la scelta di quest’ultimo di adottare una linea di dialogo con l’India durante la crisi del Kashmir nel 1998. Il primo esponente di spicco pachistano a portare le truppe nel settore amministrato da Delhi, intervistato dalla Bbc, definirà la crisi un «grande successo» per Islamabad.
Salito al potere, Musharraf cerca di frenare l’ascesa dei gruppi islamici integralisti e taglia gli aiuti all’Afghanistan, nel tentativo di dare un’impronta più laica rispetto ai suoi predecessori. Tra le sue proposte anche la modifica della legge sulla blasfemia; tuttavia, in seguito alle forti pressioni dei fondamentalisti, lascia cadere quest’ultimo progetto, creando fra le minoranze non musulmane forte disappunto.
Intanto Musharraf legittima il colpo di stato prendendo l’impegno dinanzi alla Corte suprema di indire libere elezioni nell’ o t t o b r e del 2002, che si svolgono senza che nessun partito riesca ad ottenere la maggioranza.
Dopo l’11 settembre, stretto tra l’appoggio agli Stati Uniti e i numerosi gruppi islamici che minacciano di scatenare un’ondata di violenza, Islamabad sceglie di appoggiare Washington, intimando ai Talebani, nascosti e rifugiati sulle montagne afgane, la consegna di Osama Bin Laden.
Considerato un leader moderato dai governi occidentali, fortemente contrario all’idea di scontro di civiltà, conia il termine “moderazione illuminata” come base teorica della sue politiche.
Anche la sua condotta di vita può essere considerata relativamente liberal per gli standard pachistani: sua moglie ha lavorato all’International Labour Organization (l’Ilo) e vanta amicizie con esponenti liberali del paese, sua figlia è architetto.
I suoi legami con gli Stati Uniti sono rafforzati dal fatto che due parenti stretti di Musharraf, che parla un inglese fluente, vivono lì: suo fratello, medico, a Chicago e suo figlio, laureato ad Harvard, a Boston, dove dirige una compagnia high-tech.

Wednesday, September 20, 2006

For Governors in G.O.P. Slots, a Liberal Turn

September 20, 2006
For Governors in G.O.P. Slots, a Liberal Turn
By JENNIFER STEINHAUER
Nytimes

LOS ANGELES, Sept. 19 — Here are the things that Gov. Arnold Schwarzenegger will be bragging about on the campaign trail: an initiative to lower greenhouse gases with the onus on big companies, a $1 increase in the state’s minimum wage and a program to open up access to prescription drugs.

Mr. Schwarzenegger, who six months ago fashioned himself a Republican reformer bent on hobbling entrenched Democratic institutions, is not just tolerating positions generally associated with liberal candidates. Rather, he is using them as the centerpiece of his re-election campaign, marking the first time in a generation that a Republican governor here has clung to the left during a re-election fight.

The strategy is not unique to Mr. Schwarzenegger’s campaign. Across the nation’s 36 races for governor, Republican candidates in states heavy with moderate or Democratic voters are playing up their liberal positions on issues including stem cell research, abortion and the environment, while remaining true to their party’s platform on taxes and streamlining government.

In Massachusetts, Lt. Gov. Kerry Healey, who is seeking to fill the seat that will be vacated by Gov. Mitt Romney, has openly split with Mr. Romney on abortion rights and stem cell research; her views are shared by the Republican candidate for governor in Illinois, Judy Baar Topinka, who also supports civil unions for same-sex couples.

In Maryland, the Republican incumbent, Robert L. Ehrlich Jr., is pushing for increasing state aid for programs for the disabled and imposing tighter restrictions on coal-fired plants; the Republican governor of Hawaii, Linda Lingle, opposes the death penalty. In Connecticut, Gov. M. Jodi Rell also parts ways with the Republican Party on civil unions and financing for stem cell research.

Governing Republican and campaigning Democratic is not a new technique; George E. Pataki, the New York governor, has made a career winning elections as a Republican in a mostly Democratic state. But political experts say that the strategy is particularly pervasive this year, as Republicans seek to distance themselves from an unpopular president and to respond to what is widely recognized as polarization fatigue among many voters.

“The conservative side of Republican party has been so dominant in recent years that we haven’t seen a lot of this phenomenon at work until this year,” said Bruce E. Cain, the director of the Institute of Governmental Studies at the University of California, Berkeley.

Now, Mr. Cain said, the easiest way for Republicans to “stay competitive is to take deviations from the standard G.O.P. lines.”

In many ways, the strategy reflects the dynamics of local contests, in which voters are willing to overlook the party affiliation of a candidate if they believe he stands with them on one or two important issues, or pushes through policies that are inherently nonpartisan and that will improve their daily lives.

“The ideology that binds Republican governors is getting things done for their constituents,” said Philip A. Musser, the executive director of the Republican Governors Association. “From the broadest perspective, voters in these races go into the booth caring less if governor is pro life or pro choice and more about whether he is going to reduce their property taxes or make their life easier at the D.M.V.”

Unlike other campaign seasons, when a popular president has been an asset to local politicians, many candidates this year are trying to distance themselves from President Bush, either by staking out ground in contrast to him or, as is the case with Mr. Schwarzenegger, treating the president like a communicable disease.

Democratic candidates across the country have responded by constantly reminding voters of their opponents’ conservative leanings, wherever they exist, and trying to tie them as much as possible to the White House.

In recent months, Mr. Schwarzenegger has gone out of his way to point out where he differs with the president — stem cell research and the role of large companies in creating heat-trapping gases like carbon dioxide — and to openly criticize the White House order to police the Mexican border with National Guard troops.

When Mr. Bush visited California last spring, the governor made sure they were scarcely seen together.

On the legislative front, after a humiliating defeat last year of his ballot initiatives designed to take power from nurses and teachers, Mr. Schwarzenegger leapt in the opposite direction this summer.

With the Legislature, he signed off on laws imposing the country’s most stringent controls on carbon-dioxide emissions, raising the minimum wage $1 — after vetoing a similar measure twice before — and helping low-income Medicare beneficiaries to pay for prescriptions.

His campaign tour bus is painted green, along with the vaguely preservationist phrase “Protecting the California Dream,” as his slogan.

His campaign manager, Steve Schmidt, suggested that this was business as usual for Mr. Schwarzenegger, who, he said, “doesn’t rule out ideas just because they came from someone from another party.’’

“In every poll across the country what voters say they yearn for is politicians in both parties to stop fighting,’’ Mr. Schmidt said, “The one person in the country who is doing that is Governor Schwarzenegger.”

The Democrat who wants to unseat the governor, Phil Angelides, has spent the better part of the last few months trying to remind voters that Mr. Schwarzenegger is a Republican through and through, who supported the war in Iraq, the president who ordered it and many right-of-center policies.

“Two months of pretending to be a Democrat doesn’t make him a Democrat,” said Amanda Crumley, the communications director for the Angelides campaign, with a certain amount of fury in her voice. “Just like he has done for the last three years, if he is re-elected, which he won’t be, he will continue to govern like the Bush Republican that he is.”

While Mr. Schwarzenegger’s behavior may seem like pure survival tactics in the deep woods of one of the nation’s bluest states, other recent Republican governors in California have sought to accentuate their conservative leanings.

Pete Wilson, who was governor for most of the 1990’s, supported a ban barring state services for illegal immigrants, capitalizing on anger over illegal immigration to win re-election, and his predecessor, George Deukmejian, won the ardor of suburban voters by presenting himself as tough as nails on crime.

Each state race has its own quirks and circumstances, but the song remains the same in many of them. In the Republican primary in Illinois, Ms. Baar Topinka, the state treasurer, was criticized by opponents for her support of same-sex unions. She nonetheless prevailed in that race.

In some states, however, it is a matter of survival.

Mr. Ehrlich of Maryland has not had much success with his legislature, and he talks openly about his more liberal positions.

“He is a centrist Republican running in a state with heavy Democratic majority,” said James G. Gimpel, a professor at the University of Maryland. “So the reality of re-election suggests that he has to do that. There aren’t enough Republicans to elect him in this state even if they all turned out.”

Report: World farm trade could grow by US$47 billion under radical reforms

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Ap

More major American companies than ever extend benefits to gays

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The Advocate

I colletti bianchi? non sanno l'inglese

Il sole 24 ore / Sist. Univ. Pi

Usa, manager-docenti alle università. Le aziende decidono i corsi

Massimo Gaggi sul Corriere /Sistema Univ Pisa

Muratori, cottimo e stress

Muratori, cottimo e stress
la cocaina invade i cantieri
PAOLO BERIZZI sulla Rep

The denial industry

For years, a network of fake citizens' groups and bogus scientific bodies has been claiming that science of global warming is inconclusive. They set back action on climate change by a decade. But who funded them? Exxon's involvement is well known, but not the strange role of Big Tobacco. In the first of three extracts from his new book, George Monbiot tells a bizarre and shocking new story
19 sept
The Guardian

Tuesday, September 19, 2006

La Banca Mondiale? pensi alla crescita

Duello Ue Usa, Corriere

Gore Unveils Global-Warming Plan

Gore Unveils Global-Warming Plan
Cutting Emissions, Restructuring Industry and Farming Urged

By Michael Powell
Washington Post Staff Writer
Tuesday, September 19, 2006; A02

NEW YORK, Sept. 18 -- Former vice president Al Gore laid out his prescription for an ailing and overheated planet Monday, urging a series of steps from freezing carbon dioxide emissions to revamping the auto industry, factories and farms.

Gore proposed a Carbon Neutral Mortgage Association ("Connie Mae," to echo the familiar Fannie Mae) devoted to helping homeowners retrofit and build energy-efficient homes. He urged creation of an "electranet," which would let homeowners and business owners buy and sell surplus electricity.

"This is not a political issue. This is a moral issue -- it affects the survival of human civilization," Gore said in an hour-long speech at the New York University School of Law. "Put simply, it is wrong to destroy the habitability of our planet and ruin the prospects of every generation that follows ours."

Gore was one of the first U.S. politicians to raise an alarm about the dangers of global warming. He produced a critically well-received documentary movie, "An Inconvenient Truth," that chronicles his warnings that Earth is hurtling toward a vastly warmer future. Gore's speech was in part an effort to move beyond jeremiads and put the emphasis on remedies.

He took a veiled shot at the Bush administration: "The debate over solutions has been slow to begin in earnest . . . because some of our leaders still find it more convenient to deny the reality of the crisis." But he saluted a Republican, California Gov. Arnold Schwarzenegger, for helping to push through sharp reductions in carbon emissions.

Gore noted that few politicians of any party are willing to step into the "no politician zone" of tough steps needed to address global warming.

Gore cautioned against looking for a "silver bullet" policy reform that would address global warming, a view many scientists share.

"There are things that you can do today and in the midterm, and things to tend to in the long term," said Gavin A. Schmidt, a climate scientist at the NASA Goddard Institute for Space Studies. "You have to think on all the scales at once, and even that will only help you avoid the worst scenarios."

A spokeswoman for the President's Council on Environmental Quality said Monday that the Bush administration has committed $29 billion to climate research and programs and has reduced greenhouse gas intensity. That is not, however, the same matter as reducing total carbon emissions, which continue to rise.

Gore touched on nuclear power as a palliative for global warming but made it clear that this is at best a partial solution. Nuclear power inevitably raises questions of nuclear arms proliferation, he said.

And he warned against thinking that the recent drop in oil prices offers much help: "Our current ridiculous dependence on oil endangers not only our national security, but also our economic security."

Palermo, pagati per contare i tombini

ATTILIO BOLZONI sulla rep

Il pontefice e il teologo erudito

Bernardo Valli sulla Rep

Monday, September 18, 2006

In Politics, Aim for the Heart, Not the Head

In Politics, Aim for the Heart, Not the Head

By Shankar Vedantam
Washington Post Staff Writer
Monday, September 18, 2006; A02

In 1935, researchers from Columbia University fanned out around the city of Allentown, Pa., and handed out leaflets ahead of local and state elections. What residents did not know was that they were part of an experiment in political persuasion -- an experiment whose results came to mind last week as Adrian M. Fenty stormed to victory in the District's Democratic primary.

Researchers first divided Allentown into sections. Five thousand campaign leaflets in some wards asked residents to answer a series of questions about policy matters. For example, it asked them whether they thought all children should have access to higher education irrespective of income, whether banks should be run on a nonprofit basis like schools and whether workers ought to have more say in running their workplaces.

Another set of 5,000 campaign leaflets went to a different set of wards. These leaflets contained a heartfelt letter -- supposedly from the young people of Allentown -- which said that with "Dad working only part-time on little pay, and Mother trying to make last year's coat and dress look in season," the future for young people in the city looked bleak.

The researchers looked at how many voters in the two sections they could persuade to vote for the Socialist Party, rather than the Republicans or Democrats. (The Socialist Party was chosen because it had no chance of winning the elections.)

What the researchers wanted to study was the contrast between rational and emotional appeals in political persuasion. The questionnaire's appeal was rational. It asked people who wanted a more egalitarian society to vote their views on policy matters. The letter's appeal was emotional: "We beg you in the name of those early memories and spring-time hopes to support the Socialist ticket in the coming elections!" it said. When the election was over, the Socialist vote increased by 35 percent over the previous election in the sections of the city that received the rational appeal. In the sections that received the emotional appeal, the Socialist vote increased by 50 percent.

Given the enormous proliferation of policy questions today, surfing the emotional wave nowadays may be even more important than it was in 1935. George E. Marcus, president of the International Society of Political Psychology, said modern research confirms that unless political ads evoke emotional responses, they don't have much effect. Voters, he explained, need to be emotionally primed in some way before they will pay attention.

The research is of importance to politicians for obvious reasons -- and partly explains the enduring attraction of negative advertising -- but it is also important to voters, because it suggests that the reason candidates seem appealing often has little to do with their ideas. Political campaigns are won and lost at a more emotional and subtle level.

The District's Democratic mayoral primary, for instance, turned on which candidate seemed freshest and most energetic. By that measure, Fenty, 35, bested a field of same-old, same-old insiders, including his nearest rival, Linda W. Cropp, 58.

But why should that issue have been the one that voters cared about? Why not maturity and experience, in which case Cropp may have looked like the natural winner?

The success of the Fenty campaign, several political psychologists said, was in making energy the central emotive issue in the campaign. Once it was the top item on the agenda, Fenty had to win. (Besides being amid a whirlwind of activity, the candidate made sure he said the words "energy" and "energized" every chance he got. Reporters followed Fenty's lead, attaching the adjective "energetic" to news reports about his campaign.)

The Fenty machine essentially took advantage of what the Allentown study found: It is comparatively difficult to persuade anyone to change their mind on an issue. What works much better, because it influences people at an emotional and subtle level, is to get people to focus on a different issue -- the one where the candidate is the strongest.

"The agenda-setting effect is what we are talking about," said Nicholas A. Valentino, a political psychologist at the University of Michigan at Ann Arbor. "The ability of a candidate not to tell people how to feel about an issue, but which issue they should focus on -- that is the struggle of most modern campaign managers."

"Campaigns have been much more successful at shifting people's attentions to different issues rather than shifting people's positions," he added.

A political scientist who lives in the District, Lee Sigelman, pointed out that as Fenty put the question of energy at the top of the agenda, Cropp tried to strike back with ads painting Fenty as inexperienced.

But it was too late. As many politicians before her have realized, no one notices when the first nimble candidate changes the agenda. It's always the candidates who come late to the agenda wars who look like they are trying to manipulate voters.

Friday, September 15, 2006

Pochi stranieri nei nostri atenei. Per la scuola italiana si spende tanto e male

L’OCSE E L’ITALIA  PERMANE IL GAP IN QUALITÀ ED EQUITÀ TRA IL NOSTRO SISTEMA E QUELLO DEGLI ALTRI PAESI. LE DONNE RICEVONO PIÙ ISTRUZIONE DEGLI UOMINI
Pochi stranieri nei nostri atenei. Per la scuola italiana si spende tanto e male
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano venerdì 15 settembre 2006

L’Italia non attrae gli studenti stranieri, che si iscrivono a fatica nelle nostre università. Cresce il numero degli adulti con una preparazione scolastica di base, le donne superano gli uomini in numero di ore d’istruzione ricevuta, ma rimane un gap significativo con gli altri paesi in termini di qualità ed equità del nostro sistema scolastico. E soprattutto, per l’istruzione in Italia, si spende, tanto, e male. Questi a grandi linee, i dati del rapporto Ocse “Education at a Glance 2006”, letto dal nostro punto di vista.
Ma andiamo con ordine.
Dal punto di vista della mobilità degli studenti universitari, l’Italia è uno dei paesi meno internazionalizzati. Solo il 2% degli studenti di tutto il mondo viene in Italia per studiare nei nostri atenei.
Peggio solo la Malaysia, l’Austria, la Svizzera e la Svezia, fermi all’1%. E’ un dato che fa riflettere se confrontato con la tendenza dei 30 paesi Ocse, (è raddoppiato dal ’95 il numero di iscritti fuori dal loro paese d’origine) e non migliora di molto le cose sapere che dal 2000 al 2004, il numero di immatricolazioni di studenti stranieri è cresciuto del 63%.
Altrettanto interessanti i dati che dovrebbero riguardare l’attuale classe dirigente e, di riflesso, chi ragiona in termini di ricambio generazionale. In media gli adulti italiani hanno ricevuto appena più di dieci anni d’istruzione, il quarto peggior risultato tra i paesi Ocse. Solo il 28% di chi oggi ha tra 55 e 64 anni, ha ottenuto un diploma di istruzione superiore, parametro considerato decisivo per raggiungere il successo nelle economie moderne. Diploma, che in compenso, è posseduto dal 64% di chi oggi ha tra i 25 e i 34 anni . In questo senso, solo Grecia, Irlanda, Corea del Sud e Spagna hanno fatto meglio nel periodo considerato.
Impulso a tale dinamica è stata data dalle donne. In linea con la tendenza dei paesi Ocse. In Italia il cosiddetto gender gap – la differenza di genere – nei tassi di conseguimento di un diploma sta invertendo la rotta. Così le donne tra i 45 ai 54 anni hanno oltre un anno in meno di studio che i loro coetanei, mentre quelle tra 25 e 34 hanno ricevuto sei mesi in più d’istruzione.
Ma le note positive sembranofermarsi qui. E il numero di coloro che raggiungono il diploma di istruzione superiore rimane molto sotto la media Ocse. E a giudicare dal programma PISA, i quindicenni italiani sono tra i peggiori in matematica, superati solo da Grecia, Messico e Turchia.
E se sorprende meno, e in senso assoluto e relativo agli altri paesi, che gli studenti provenienti da aree disagiate abbiano meno successo scolastico, decisamente più interessante è il dato che riguarda le qualità delle scuole. Con la forbice tra istituti che si è drammaticamente divaricata (più di dieci punti percentuali) solo nel triennio 2000-2003. Dato preoccupante perché dimostra l’incapacità del sistema scolastico italiano di fornire un’istruzione equivalente su tutto il territorio di propria competenza, e alimenta diversi esiti paradossali. Che c’è più differenza tra scuole nello stesso paese che tra diversi paesi, per esempio.
O che è più grande il divario tra le scuole italiane, che non tra la media dei risultati degli studenti italiani e quella degli studenti degli altri paesi.
Quel che è peggio, come si legge nel rapporto, è che le cattive prestazioni del nostro paese «non possono essere legate a bassi investimenti». Tutt’altro. Così la spesa annua dell’Italia per la scuola primaria e secondaria è molto al di sopra della media Ocse – rispettivamente, 7,366 dollari contro i 5,450, e 7,938 contro 6,962 – e la spesa per studente è cresciuta del 10% tra il 1995 e il 2004. Per coprire l’arco di tempo che va dalla primaria alla secondaria, l’Italia investe 100,437 dollari per studente, la settima cifra più alta dopo paesi come Danimarca, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Svizzera e Stati Uniti, e più del 30 per cento della media Ocse (77,204 dollari).
Dunque, messe così le cose, dov’è che il sistema non funziona? I simboli dell’inefficienza sono due parametri, entrambi sopra la media: il numero di docenti (10.7 studenti per insegnante, il più basso dei paesi Ocse), e le ore d’insegnamento (8mila ore programmate per gli studenti tra i 7 e i 14 anni, secondi solo ad Australia e Paesi Bassi). Questo mentre gli stipendi degli insegnanti continuano ad essere sotto gli standard Ocse (il 20% in meno per la primaria e secondaria) e crescono lentamente: ci vogliono 35 anni per un insegnante italiano a raggiungere il massimo, 24 anni negli altri paesi. E in parte i bassi stipendi sono compensati da una media bassa di numero d’ore d’insegnamento (726 e 594 contro 805 e 704, rispettivamente nella primaria e secondaria inferiore) In contrasto con tale dinamica, de- finita generosamente «non molto chiara » dai relatori del rapporto, c’è poi una certezza: si investe poco nell’università.
Con lo 0,9 per cento del Pil destinato alla scuola terziaria, siamo i soli – insieme alla Slovacchia – sotto l’un per cento. Il tutto a fronte di un contesto demografi- co che dovrebbe essere favorevole perché caratterizzato da un calo della popolazione in età da università. Infine un dato in controtendenza. Con il 27,9% del finanziamento dell’università proveniente da privati, sopra la media (23,6%) l’Italia è uno dei leader della relativa classi fica, dietro Polonia e Regno Unito. E in termini di crescita, nel 1995 era al 17,1%, seconda sola all’Australia.

Wednesday, September 13, 2006

Profitti privati e perdite pubbliche

Massimo Giannini sulla Repubblica

La Spoon River dei polacchi in Italia

Foschini e Pleuteri sulla Repubblica

Blair come Ulisse

Riotta sul Corriere "Blair e Clinton natural"

l'11 settembre ci ha fuso il cervello

Marco D'Eramo sul Manifesto

Tronchetti, 5 anni di spezzatino

Tuesday, September 12, 2006

Roads to Nowhere

I ragazzi dell'alcopop

Telefonia senza pace

Telefonia senza pace
Dal sogno spezzato al patto con i media
Danilo Taino sul Corriere

Monday, September 11, 2006

Tra ecologia ed economia

La Repubblica

Tra ecologia ed economia
JEAN PAUL FITOUSSI
06-09-2006

Parlare di sistema economico è in realtà inesatto: l´economia non è infatti un sistema chiuso e autonomo, regolabile in base a leggi indipendenti dal diritto, dall´etica, dalla politica o dal sociale. Perciò una riflessione sull´economia ha senso soltanto quando è integrata. I problemi economici più appassionanti sono generalmente quelli di frontiera, a contatto con le discipline confinanti. Per meglio comprendere questa verità si veda l´esempio della questione ecologica, ove i processi economici si presentano naturalmente, se così si può dire, in quanto partecipi di uno scambio reciproco con l´ambiente circostante. Questo scambio ha la particolarità di non essere regolato dalle leggi atemporali della meccanica, bensì da quelle della termodinamica, e segnatamente dell´entropia. Nata da un saggio di Sadi Carnot (1824), la termodinamica stabilisce che nell´universo la quantità di energia libera (suscettibile di essere trasformata in lavoro meccanico) decresce col tempo. Si tratta dunque di una legge di evoluzione temporale, che ci rinvia alla finitezza del mondo, lasciando però indeterminato il momento in cui sopraggiungerà la «morte del calore», per usare la bella espressione usata nelle prime formulazioni di questa teoria. Su impulso di Nicolas Georgescu-Roegen (1907- 1994), autore di studi pionieristici sui rapporti tra i processi economici e la fisica, numerosi ricercatori, soprattutto negli anni 70, hanno tentato di formulare, senza troppo successo, una teoria "entropica" dell´economia e della società. Di fatto, lo stesso Georgescu-Roegen non riteneva utile, e neppure auspicabile tentare di costruire una metateoria in un campo caratterizzato da incertezza così fondamentali: «L´evidenza millenaria della costante unidirezionalità della vita può bastare come prova della sua irreversibilità per le menti comuni, ma non per la scienza… Nel fornire la prova, valida secondo il codice di procedura scientifica ufficiale, dell´esistenza di processi irreversibili anche nel campo della fisica, la termodinamica classica ha riconciliato lo stato della scienza col buon senso». L´importante è comprendere come il processo economico, che non può essere autonomo, produca conseguenze irreversibili in ragione delle sue molteplici interazioni con la natura. Attingendo agli stock di risorse naturali non rinnovabili (petrolio, materie prime ecc.) noi degradiamo, o modifichiamo qualitativamente il patrimonio ambientale (terreni agricoli, acqua, risorse marittime) al quale imponiamo un ritmo di sfruttamento superiore alla sua capacità di rigenerarsi. La legge dell´entropia ci ricorda l´esistenza di una freccia del tempo, e ci avverte che stiamo agendo in modo da lasciare alle generazioni future un patrimonio naturale impoverito, e senza dubbio meno atto a soddisfare i loro bisogni di quello che noi stessi abbiamo ereditato. Ma non basta: lo sfruttamento degli stock di risorse non rinnovabili ha sganciato il ritmo economico (la crescita) dal ritmo ecologico, contribuendo così al degrado del patrimonio, e in particolare della biosfera, col rischio di suscitare cambiamenti irreversibili nell´evoluzione climatica. Il problema è di grande rilevanza, e non può avere soluzioni politiche semplici. In nome di quale principio, ad esempio, potremmo chiedere alla Cina o all´India di limitare il loro dinamismo economico per ridurre i rispettivi prelievi di risorse naturali del pianeta? Il nostro minor dinamismo non è infatti dovuto a un´autolimitazione volontaria, bensì al nostro livello di vita molto più elevato, così come alla nostra incapacità di risolvere gli squilibri economici al nostro interno. Non possiamo imporre il ritmo ecologico a chi è più povero, quando noi abbiamo potuto arricchirci per il fatto stesso di essercene liberati! Per motivi analoghi, la decrescita o la stagnazione non sarebbero una soluzione neppure all´interno dei paesi sviluppati, dato che comporterebbero sia l´accettazione delle disuguaglianze esistenti, sia al contrario l´imposizione di un regime di redistribuzione tendente a una ripartizione omogenea delle risorse: nel primo caso un insostenibile cinismo, nell´altro l´utopia totalitaria. Ma fortunatamente la nostra evoluzione non è governata solo dalla legge dell´entropia: ne esiste un´altra, meno tangibile ma altrettanto determinante, legata all´aumento della conoscenza. Lo sviluppo dell´umanità è dunque contrassegnato da due irreversibilità, una felice e l´altra nefasta: l´accumulo del sapere e del progresso tecnologico da un lato, e dall´altro il decremento degli stock di risorse non rinnovabili e la degenerazione, irreversibile anch´essa, di parte delle ricchezze ambientali. Per queste ragioni, il tempo dell´economia è inesorabilmente orientato: entropico per le risorse, e storico per le istituzioni preposte alla produzione, all´organizzazione e alla diffusione delle conoscenze. Le prospettive d´evoluzione del sistema sono in gran parte legate allo spazio lasciato libero tra questi due processi dinamici, paragonabile alla distanza che separa le due lame di una forbice. Si può quindi perseguire un livello di crescita forte quanto si vuole (col corrispondente prelievo dagli stock delle risorse), a condizione di disporre di un livello di conoscenza sufficiente ad assicurare la perennità del sistema. Ora, la natura come la conoscenza sono beni pubblici, che in quanto tali esigono l´intervento dello Stato per essere «prodotti» in quantità sufficiente. Perciò la sola via d´uscita dal problema della finitezza del nostro mondo sta nel tentare di mantenere divaricate le lame della forbice, investendo nell´istruzione e nella ricerca – in particolare sulle energie rinnovabili, ma anche in relazione a tutto ciò che potrebbe ridurre il contenuto energetico del nostro livello di vita, e inoltre nella tutela dell´ambiente, inventando nuovi mezzi per rallentare il processo di decremento delle risorse naturali. Ma l´ambiente – si afferma – è un bene pubblico mondiale, e non servirebbe a nulla imporsi delle costrizioni il cui solo effetto sarebbe quello di consentire agli altri di accrescere la loro potenza. C´è però un errore in questo ragionamento. Difatti la soluzione del problema ecologico, se concepita attraverso il dominio di due processi dinamici, potrebbe senz´altro rivelarsi un acceleratore della crescita. L´Unione europea, regione ricca come poche e concretamente a metà strada tra la nazione e il mondo, potrebbe aggiudicarsi un vantaggio determinante in questo campo se riuscisse a trovare la soluzione (relativa) del problema della sua dipendenza energetica, combinando una politica di approvvigionamenti meglio centralizzata col deciso sviluppo della ricerca di nuove fonti energetiche, il consolidamento della sua posizioni di punta nel nucleare e la garanzia di norme ambientali tanto intelligenti da tener conto della sua diversità. (Traduzione di Elisabetta Horvat)

io schiavo in puglia

l'inchiesta di gatti sull'espresso

«Discontinuità con Brown? Neppure nella politica estera»

INTERVISTA PER IL POLITOLOGO COLIN HAY, L’AVVENTURA IRACHENA RISCHIA DI OSCURARE I SUCCESSI DOMESTICI
«Discontinuità con Brown? Neppure nella politica estera»
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano venerdi 8 settembre 20006

Colin Hay, politologo e docente all’università di Birmingham, nutre pochi dubbi. Tony Blair sarà ricordato più per la guerra in Iraq che per la sua politica di liberalizzazioni, o per il rinnovamento del Labour. E quello del premier è un tentativo di allungare i tempi della transizione.
Ieri l’ennesimo capitolo della cosiddetta exit strategy di Tony Blair. Come giudica questa fase?
È evidente che stiamo assistendo al superamento di Tony Blair. E il suo è senza dubbio il tentativo di rimandare il più possibile il passaggio di consegne. Questo per due motivi, per consentire un’eredità politica, e per poter lasciare un ricordo positivo nella storia.
Ma tra scandali, guerra in Iraq, atteggiamento troppo defilato in Libano, il suo governo non se la sta passando troppo bene. Così non gli rimane che durare il più possibile, e in questo senso fare tutto quello che è nelle sue possibilità per restare al potere aspettando un momento più favorevole per lasciare. È triste doverlo ammettere. Ma la mia opinione è che Blair sarà ricordato nei libri di storia soprattutto negativamente a causa degli errori compiuti in politica estera. E a questo punto non gli rimane che fronteggiare la leadership montante nel partito che mira alla sua successione o annunciare le sue dimissioni.
Che era quello che sembrava volesse fare.
Come gestirà la transizione?
Penso che abbia già perso la capacità di gestire il processo. L’unica cosa che può ancora fare è controllare gli effetti che tale transizione provocherà, minimizzare i danni. È per questo che non ha fornito la data delle dimissioni.
Dichiarare una scadenza significherebbe perdere la capacità di fare politica e lasciare che il suo governo diventi una “lame duck”, un’“anatra zoppa” capace solo di trascinarsi fino alla fi- ne del suo mandato. Il problema però è un altro. Che sia se si dimette tra dodici mesi, sia se lo fa prima, il suo governo è già un’”anatra zoppa”.
Qual è l’eredità del blairismo?
È una buona domanda. Per molti aspetti, diversamente da altri governi, Blair ha costruito la sua fortuna su un lascito politico. Ciònonostante sarà probabilmente ricordato per come ha provato a spiegare l’uso di determinati strumenti nella lotta al terrorismo, piuttosto che per come ha gestito – e bene – le risorse a disposizione.
Questa probabilmente non era l’intenzione reale di Blair, ma è il modo in cui le cose si sono sviluppate.
Non sono sicuro che questo governo e il blairismo in generale saranno ricordati per ciò che hanno fatto nella politica interna. O meglio sarà probabilmente ricordato un primo periodo di relativo sostegno della crescita economica, una fase senza particolari problemi, ma non molto più fortunata di altre.
Ma se il blairismo, oltre che politica interna, è stato anche politica estera, e soprattutto un allineamento con la politica degli Stati Uniti, allora stiamo parlando di un’eredità che ha isolato il paese dal resto della comunità internazionale.
A proposito, con il passaggio di consegne, cambieranno le relazioni con gli Stati Uniti?
Questo è un punto interessante. La maggior parte dell’opinione pubblica pensa che Gordon Brown sarà il nuovo leader del Partito laburista e che le cose cambieranno. Ma dobbiamo ricordare però che nel 1997 era Brown – piuttosto che Blair – ad essere percepito c o m e l’ « a m i c o americano ». Che la linea economica seguita da Brown è sempre stata molto vicina a quella di Washington e che Brown stessi ha passato molto tempo negli Stati Uniti.
Insomma l’idea che l’avvento di Gordon Brown coinciderà con un cambio significativo nella politica estera di Londra rispetto a Washington è poco realistica.
Penso anche che la linea Blair possa cambiare, ma che in quel caso – considerato lo spostamento di Bush su posizionipiù internazionaliste, meno unilaterale – debba fare di più, smarcarsi in maniera più evidente. La prossimità con Bush ha portato la politica estera di Blair in un’area decisamente troppo poco popolare.
Comunque in assoluto, dal futuro, mi aspetto maggiore continuità piuttosto che una rottura nella politica estera.
Gli intellettuali palestinesi hanno dichiarato Blair «persona non grata». Non vogliono che si rechi nei Territori occupati. Contestano il suo attendismo nella guerra tra Gerusalemme e Hezbollah e il suo “appiattimento” su Israele.
Penso che sia un’applicazione di quanto affermato prima, nel caso specifico del Medio Oriente. Io credo che Blair abbia atteso a prendere posizione sul cessate il fuoco in Libano nella speranza che ci potesse essere un’evolversi della situazione positiva in ogni caso, un ritiro degli israeliani.
Ma poi è stato preso in contropiede dalla piega che ha preso la situazione, dall’entrata in campo della diplomazia e dalla posizione di Parigi in dialettica con Washington, e di riflesso con Londra.

«Aspettando la fase due, Al Qaeda fa sapere che è ancora viva»

TERRORISMO  L’ANALISI DI SAJJAN GOHEL, ESPERTO DI SICUREZZA INTERNAZIONALE DELLA ASIA-PACIFIC FOUNDATION DI LONDRA
«Aspettando la fase due, Al Qaeda fa sapere che è ancora viva»
di STEFANO BALDOLINI
Europa di sabato 9 settembre 2001

«L’ultimo video di Al Qaeda diffuso da Al Jazeera mette in luce una dimensione interessante. Per la prima volta sono mostrati membri chiave dell’organizzazione nell’atto di pianificare l’attentato alle Twins Towers ». Parola di Sajjan Gohel, direttore della sicurezza internazionale per la Asia-Pacific Foundation, con sede a Londra. «Quello che Al Qaeda ha fatto è portare i suoi membri indietro nel tempo, e vicino ai suoi uomini chiave », dice l’esperto di terrorismo. Con un solo obiettivo. «Ricordare al mondo che è ancora viva, tuttora attiva. Che i suoi key-leaders non sono stati catturati.
Che ha la capacità di controllare l’agenda». E a dimostrare quanto ritenga importante la propaganda, il fatto che «solo quest’anno ci siano stati ben 17 messaggi di al Qaeda».
Solo qualche giorno prima George W. Bush aveva ammesso l’esistenza delle carceri segrete Cia per i terroristi.
Una manna per i dietrologhi.
«Certamente – sostiene Gohel – è da sottolineare che il presidente Bush ha parlato esplicitamente di membri di Al Qaeda trasferiti a Guantanamo Bay con voli militari segreti». E che uno di questi è lo stesso Ramzi Bin Al Shibh comparso nel video. Il fatto che questi siano stati arrestati senza dubbio è un punto a favore dell’amministrazione.
Interessante però «che Al Qaeda abbia deciso di mostrarli in un video di propaganda».
Ai molti che si domandano perché nessuno dei leader – né Osama, né Al Zawahiri – abbia fatto dichiarazioni, Gohel risponde che fa parte del gioco.
Che è «parte della strategia mediatica adottata, dosare le apparizioni per catturare il massimo dell’attenzione mondiale ». D’altronde non è un caso se quest’anno i cinque messaggi di Osama bin Laden siano stati tutti audio.
«L’ultima volta che abbiamo visto Osama è stato nell’ottobre del 2004, a ridosso delle presidenziali americane.
Non sarei sorpreso se lo stesso Osama bin Laden decidesse di apparire in video nell’anniversario dell’11 settembre ».
Già l’11 settembre, lunedì fanno cinque anni, naturale chiedersi come stia andando la “War on Terror”. «Il problema – fa Gohel – è che non si combatte su un campo di battaglia convenzionale. La stessa Al Qaeda è un gruppo composito. E nonostante i leader arrestati o spariti, il terrorismo è proliferato, diversi gruppi in giro per il mondo continuano ad autofinanziarsi, ad auto-organizzarsi, a nutrirsi dell’ideologia qaedista. Così non si tratta di attaccare un gruppo ma diverse centinaia che hanno avuto “luce verde” di operare indipendentemente ». E il problema più grande è che non riusciamo a contrastare la fase del reclutamento, i cosiddetti breeding ground, i famigerati “campi di coltura”. E, «per ogni terrorista catturato, ce ne sono almeno cinque pronti ad entrare nell’organizzazione».
Poi c’è l’incubo della «stage two», la fase due. Ossia il «processo che Osama ha individuato per il futuro» del terrorismo internazionale. «Quella che il leader oggi vuole, – fa Gohel, senza nascondere la preoccupazione – è gente pronta ad usare il banner di Al Qaeda indipendentemente».
Nella stage two non servirà più andare nei campi d’addestramento in Afghanistan o in Pakistan. L’obiettivo è «reclutare i membri nella società europea, come è accaduto in Gran Bretagna, come potrebbe accadere in Italia ». Una new generation di terroristi «nati ed educati in Europa, con tutti gli skillsoccidentali, passaporto dell’Ue, possibilità di viaggiare. Questo è il tipo di persona che oggi Al Qaeda vuole reclutare. Molto pericoloso, perché come abbiamo visto in parte a Madrid o a Londra, si tratta di un nemico invisibile ».
Aspettando la “fase due”, rimane il problema di alcuni paesi, come il Pakistan, dove i terroristi continuano a proliferare.
«Il Pakistan è il “campo di coltura” del terrorismo, ma anche la fi- nishing school, l’ultimo stadio del processo, la tappa finale nella rotta del terrorismo internazionale. Dove gli aspiranti terroristi vengono reclutati, ma anche dove arrivano per perfezionarsi, imparare a usare l’esplosivo, giusti ficare con l’ideologia le loro intenzioni di colpire Usa ed Europa. Purtroppo il regime militare di Musharraf non è stato in grado di fronteggiare tale situazione così come l’Occidente si attendeva».
Gli ultimi attentati in India – solo ieri contro una moschea, lo scorso luglio in apertura del G8 di Mosca treni fatti saltare a Mumbai – fanno pensare ad un movimento del terrorismo verso Oriente. Ma Gohel sembra escludere che si tratti di un nuovo fronte. «L’Asia – Pakistan o Indonesia su tutti – sono da tempo al centro di attacchi terroristici. Gruppi locali sono per tradizione molto attivi, ma l’opinione pubblica occidentale non ha mai prestato molta attenzione a ciò che accadeva dall’altra parte del mondo».
Torniamo dunque alle responsabilità della comunità internazionale.
Qui Gohel non concede molti alibi.
«Dall’11 settembre si sta lavorando meglio in termini di condivisione di intelligence, di informazioni. Ma occorre che i governi mettano da parte la burocrazia e diventino più efficaci.
I paesi Ue per primi dovrebbero sviluppare politiche coordinate tra tutti e 25 i membri. E ovviamente è importante che vengano risolte le vicende in Iraq e Afghanistan». Insomma, non c’è dubbio, da quel maledetto martedì di sole newyorchese, «si stia cooperando di più», ma «non è ancora abbastanza».

Wednesday, September 06, 2006

«Il parlamento dell’uomo e la crisi del Libano»

NAZIONI UNITE Parla lo storico Paul Kennedy, autore del saggio “The Parliament of Man”
«Il parlamento dell’uomo e la crisi del Libano»
«Abbiamo bisogno di organizzazioni come le Nazioni Unite proprio per missioni di peacekeeping come quella in Libano. Ma sono altrettanto convinto che non dovrei essere così ottimista. Eppure il mondo non ha alternative»
di STEFANO BALDOLINI
Europa sabato 2 settembre 2006

Paul Kennedy conosce bene come funzionano le Nazioni Unite. A metà degli anni ’90, incaricato dall’allora segretario generale Onu Boutros Boutros –Ghali, il docente di storia a Yale contribuì a redarre il rapporto “The United Nations in its Second Half–Century”, preparato per il cinquantenario del Palazzo di vetro. Oggi, undici anni dopo, dà alle stampe “The Parliament of Man: The Past, Present and Future of the United Nations” (pubblicato dalla Random House di New York, in Italia la prossima primavera edito da Garzanti).
Con la missione dei caschi blu in Libano e nonostante l’ennesimo tentativo fallito, lo scorso autunno, di riformare il Palazzo di vetro, le Nazioni Unite sono tornate centrali. Europaprova a fare un punto sull’organizzazione internazionale più importante e più controversa.
Che idea si è fatto dell’Unifil? Cosa rappresenta per l’Onu, l’ultima chance o l’inizio di una nuova fase?
Credo che noi abbiamo bisogno di organizzazioni come l’Onu esattamente per missioni di peacekeepingcome quella in Libano. Ma sono altrettanto convinto che non dovrei essere così ottimista. Comunque, la Unifil, dal punto di vista tecnico, è un classico caso di missione Onu di peacekeeping su mandato del Consiglio di sicurezza. Nè più nè meno di quanto è avvenuto in passato per l’Africa occidentale, per la Cambogia, per Timor Est… Si tratta dunque dell’esito di un processo tradizionale. Questo dimostra che il Consiglio di sicurezza può far passare qualsiasi risoluzione, sia di peacekeeping che di peace enforcing, ma che allo stesso tempo è profondamente dipendente dalla volontà degli stati membri di inviare le truppe o meno. Se l’Italia non avesse dato la disponibilità a fornire le truppe, la missione non sarebbe stata messa in piedi. Ora ogni cosa dipenderà dalla reale volontà dei paesi di inviare le truppe e da quella dei belligeranti di rispettare il cessate il fuoco. Ma la domanda che uno dovrebbe farsi è: se non avessimo avuto le Nazioni Unite, quale alternativa avremmo avuto a disposizione? Non mi sembra che ce ne siano molte.
Lei parla della necessità di una forza militare Onu pari a centomila unità, di un servizio di intelligence sganciato dai governi…
Qui ci sono tre cose da dire. Primo. Esiste già nella Carta del 1945 un organismo chiamato Military Staff Committee che però non ha una funzione molto attiva.
Forse andrebbe rivisto. In alternativa ogni operazione deve essere gestita dall’ufficio del Segretario generale e dal Consiglio di sicurezza.
Si pensi che in questi giorni Londra e Washington hanno lavorato per inviare ben 22mila uomini in Sudan. C’è dunque bisogno di qualche organismo che programmi e gestisca il tutto. Secondo.
Quando passa una risoluzione per una nuova operazione, c’è il problema di reperire le truppe. La mia proposta non è di un esercito permanente, ma di individuare la disponibilità massima di truppe Onu che, quando necessario, verrebbero attivate dai maggiori contributor. Così per esempio India, Brasile, Gran Bretagna, Italia... dovrebbero addestrare diecimila uomini e averli già pronti per le operazioni di polizia internazionale. Sarebbe un esercito in stand-by decisivo per portare le truppe nelle aree di crisi molto velocemente. E qui arriviamo al terzo punto.
Ossia alla capacità di intervenire quando una crisi è nella prima fase. Prendiamo il Congo. Allora ong come Oxfam o Amnesty International, sapevano che nel paese la guerra civile stava scoppiando, ma si è perso tempo. Occorre sviluppare un sistema di intelligence legato al Consiglio di sicurezza che possa prevenire future catastrofi.
Negli ultimi tempi non stiamo correndo il rischio di una militarizzazione delle Nazioni Unite?
È vero, la dimensione militare sta prevalendo su quella non militare e politica, a cui la Carta dava molta attenzione. Ma se stiamo trascurando altri temi, quelli economico sociali o quelli ambientali, è perché il momento è obiettivamente dif- ficile. I conflitti in corso sono molto seri.
Per arrivare alla risoluzione sul Libano, Israele, Stati Uniti e resto della comunità internazionale hanno negoziato giorno e notte, e così è stato per il Darfur, la risoluzione successiva.
Perché le Nazioni Unite dovrebbero essere riformate?
Bisogna ricordare che con il termine riforma s’intendono diverse cose. Per i conservatori americani come il senatore Jesse Helms, riforma dell’Onu signi fica taglio della burocrazia, dei posti di lavoro e riduzione delle dimensioni. Questa è una visione negativa della riforma. Altri vedono la riforma come un miglioramento dell’intelligence, della preparazione delle truppe di peacekeeping, del coordinamento tra le diverse agenzie. Questo è un altro livello ancora. Ma la riforma su cui tutti si concentrano è quella del Consiglio di sicurezza e del potere di veto dei membri permanenti. Non è realistico avere uno schema che corrisponde a com’era il mondo nel 1945. Di qui la richiesta di introdurre nuovi membri permanenti per rispettare il reale equilibrio di potenza del 2006, e il conseguente gioco dei veti incrociati.
Ogni paese designato, India, Giappone, Brasile… ha un rivale regionale con buoni motivi per pretendere il suo posto.
Perché i tentativi di riforma sono falliti?
Nessuno vuole sostenere che le Nazioni Unite siano perfette. La stessa Carta è frutto di un compromesso.
I due organismi principali esprimono due diverse concezioni. Se l’Assemblea generale è il “Parlamento dell’uomo”, il Consiglio di sicurezza è uno specchio dell’equilibrio delle potenze. Di riflesso le Nazioni unite non lavorano bene quando esistono veti, ma funzionano solo quando esiste cooperazione, quando si arriva ad un compromesso. Anche quello sul Libano è stato un compromesso. Il problema è che per fare una riforma del Consiglio occorre una modifica della Carta costituzionale.
Dunque l’unanimità dei cinque membri permanenti più il voto favorevole di due terzi dell’Assemblea generale.
E questo è estremamente arduo da ottenere.
Qual è la sua proposta di riforma del Consigliodi Sicurezza? Dopo il successo della diplomazia in Libano, aumentano le quotazioni italiane per un seggio?
Non trovo realistico e nemmeno auspicabile che da qui a breve possano venire aggiunti nuovi seggi permanenti.
Forse l’unica candidatura veramente forte è quella dell’India. Per motivi demografici, e perchè è uno dei maggiori contributor. Mentre per rendere più rappresentativo il consiglio porterei a diciotto i membri a rotazione, fermi a dieci dal 1965. Poi abolirei il limite massimo di due anni per i non permanenti.
Se un paese opera bene, e gli viene riconosciuto, perché non dargli un’altra possibilità?
Il titolo del suo libro «The Parliament of Man…» è un verso di Lord Afred Tennyson. Perché ha scelto un poeta, e non un politico?
Il senso del titolo, e anche del mio libro, è che quella di una federazione politica mondiale è una nobile visione, che noi dovremmo sostenere con tutte le forze. Poi come ho scritto in una breve nota introduttiva, circa un secolo dopo esser stati scritti, i versi di Tennyson conobbero un ammiratore d’eccezione: un giovane senatore del Missouri, che si chiamava Henry Truman, e che più tardi da presidente degli Stati Uniti presiederà la conferenza di San Francisco, nel 1945, quando il Parliament of Manvenne istituito.

Roma chiama Teheran. C’è una logica?

PARLA BIJAN ZARMANDILI
Roma chiama Teheran. C’è una logica?

di STEFANO BALDOLINI
Europa di 1 settembre 2006

Per Bijan Zarmandili, iraniano a Roma dal 1960, analista di Limes e autore di “La grande casa di Monirrieh” (Feltrinelli, 2004), la scelta della Farnesina di imbarcarsi nell’avventura iraniana è coerente con la politica estera sin qui seguita dal governo Prodi.
Teheran è un «passaggio chiave del nuovo Medio Oriente, più della stessa questione palestinese». Dunque è logico entrare nella partita del nucleare iraniano, tanto più che Teheran stesso vedrebbe di buon occhio un nostro impegno. Il punto è capire le reali motivazioni di tale, eventuale, bendisposizione.
Il governo italiano sembra intenzionato a dire la sua nella vicenda iraniana. Massimo D’Alema ha parlato di «energia atomica legittima se destinata a scopi paci- fici» e di un’«offerta negoziale vera» da sottoporre a Teheran.
Massimo D’Alema e Romano Prodi si sono resi conto che la chiave di qualsiasi politica che possa avere un lungo respiro è l’Iran. Può suonare paradossale, ma il problema iraniano ha più consistenza nella sostanza della crisi israelo–palestinese.
Perché l’Italia vuole entrare nel gruppo di contatto, nel cosiddetto 5+1?
Bisogna partire da un dato di fatto, durante il governo Berlusconi si è fatta una politica sbagliata, l’Italia ha perso tempo. È vero invece che con Lamberto Dini alla Farnesina era stato avviato un “dialogo critico” con l’Iran.
Che erano stati individuati molti interlocutori potenziali, nonché avviati importanti scambi commerciali. Ma sarebbe riduttivo leggere la vicenda in un una chiave puramente economica. Il punto è strategico. Si è raggiunta la consapevolezza che nessuna politica di un paese europeo verso il Medio Oriente ha un respiro sufficientemente ampio se non tiene conto dell’Iran. Basta guardare al recente conflitto libanese. Per la prima volta la guerra tra Gerusalemme e Hezbollah non è solo una guerra tra arabi e israeliani, ma un vero e proprio conflitto per l’egemonia regionale.
Perché l’Italia dovrebbe avere successo dove gli altri hanno fallito?
L’Italia non si pone il problema se avrà successo o meno. La questione è se essere dentro o no. Dunque il prossimo sforzo dovrebbe essere quello di far rientrare l’Italia nella dialettica in atto. Poi va considerato che con l’avvento di Condoleezza Rice si è aperto uno scenario multilaterale che favorisce iniziative inedite fino a poco tempo fa. In soldoni potrebbe accadere la stessa cosa che è accaduta nella vicenda libanese tra Italia e Francia. Se alla luce di una risoluzione, di fronte ad un eventuale veto, una eventuale proposta italiana viene comunque accettata, allora è chiaro che si sarà trattato di un successo diplomatico. Ma per ora si tratta di entrare nella partita.
E l’Iran perchè dovrebbe essere favorevole ad un ingresso dell’Italia? Non sarà che Teheran è interessata perché considera Roma un interlocutore più malleabile?
Gli iraniani pensano che una partecipazione italiana possa rafforzare la possibilità di un distacco dall’America.
Non suona esattamente come un requisito positivo...
Ma non bisogna fraintendere. Il fatto è che per comprendere la posizione iraniana bisogna ricostruire le diverse fasi della recente politica estera di Teheran. Con Mahmoud Ahmadinejad che chiude all’Europa dopo gli anni di dialogo del riformista Mohammad Khatami perchè nel momento decisivo l’Europa non lascia gli Stati Uniti. Quindi Ahmadinejad si affida a Russia e Cina, che però si rivelano poco affidabili... E ora a Teheran interessa che una parte dell’Europa prema sugli Stati Uniti perché non ci sia un attacco militare, perché ci sia un prolungamento del processo diplomatico. Di questo bisogna tenere conto.

«Avanti Italia, ma con giudizio»

LA MISSIONE IN LIBANO Il professor John Harper commenta gli elogi del “New York Times” al nostro paese
«Avanti Italia, ma con giudizio»
Per il docente del Johns Hopkins Center, il nuovo corso della Farnesina non allontanerà Roma da Washington. Tutt’altro. E il “multilateralismo effettivo” di Prodi e D’Alema ha riportato l’Europa al centro del palcoscenico.
di STEFANO BALDOLINI
Europa 31 agosto 2006

È un vero e proprio endorsement quello del New York Times, che ieri ha rotto ogni indugio e auspicato un «ripensamento » del ruolo di secondo piano che era stato riservato finora all’Italia sulla scena internazionale. Anzi, visti i risultati della diplomazia nella vicenda libanese, il quotidiano liberal ha auspicato che l’Italia partecipi anche ai negoziati con l’Iran sul nucleare. Emblematico il titolo dell’editoriale di Roger Cohen, «L’Italia moderna segna un punto per entrare nella top league». A completare il quadro decisamente positivo, un lungo servizio, a partire dalla prima pagina, che evoca un nuovo corso per il nostro paese.
John Harper, docente di “American Foreign Policy and Europan Studies” al Johns Hopkins Center di Bologna, interpellato da Europa, tende a frenare l’entusiasmo.
«Nel governo di centro sinistra del premier Romano Prodi non c’è niente che sia di seconda classe », sostiene Cohen sul New York Times. Insomma, l’Italia è in serie A?
Forse è un po’ prematuro questo giudizio.
Sembra che Roger Cohen sia stato “folgorato” (ride, ndr). Certo questo articolo è sicuramente un segnale interessante, ma ad oggi non mi sembra di aver letto sulla stampa estera altri commenti simili. D’altronde la missione è appena cominciata, sarebbe sbagliato parlare ora di successo.
L’editorialista riconosce in particolare l’abilità italiana nell’«avvicinare ancora di più gli interessi americani ed europei», di fare da ponte meglio che Blair.
Questo è vero. Quando il New York Times mi ha chiesto se questo nuovo corso della politica italiana poteva causare dei problemi nelle relazioni tra Usa e Italia, io ho risposto di no. Mi sembra anzi che possa essere benvenuto dal dipartimento di stato e dall’opinione pubblica americana.
Diplomatici americani avrebbero parlato di “multilateralismo effettivo” che l’Italia sta portando avanti...
L’epoca in cui gli Usa agiscono unilateralmente o insieme con un gruppo di partner che seguono ciecamente, cioè Blair, Berlusconi, Aznar, etc...
è un’epoca finita. Già da parecchio tempo gli Stati Uniti, con la Condoleezza Rice, hanno provato a cambiare rotta, a coinvolgere anche altri paesi. Anche perché la rotta seguita prima non stava esattamente funzionando.
Mi sembra che l’Italia mettendosi in testa a questo processo stia facendo un favore a Washington. Assumendosi questa responsabilità, sia politico-diplomatica che tecnico–militarein un momento in cui nè gli Stati Uniti nè la Francia erano capaci di svolgere questo ruolo. Per una serie di circostanze l’Italia se non un attore idealeè un attore idoneoin un momento di grande necessità. Nessuno aspettava questa occasione, è capitata e l’Italia si è messa davanti, secondo me facendo benissimo.
Questo naturalmente non vuol dire che tutto andrà bene, ma che ci sono dei grossi rischi.
A proposito di rischi, secondo lei come potrebbe reagire l’opinione pubblica italiana alle prime difficoltà, in caso di vittime per esempio?
A me sembra che se paragonata a quella irachena, questa missione goda di un appoggio più solido, più ampio, riconosciuto.
Naturalmente il caso dell’Iraq era più controverso, ma di fronte alle perdite avute a Nassiriya per esempio, l’opinione pubblica italiana ha dato prova di aver nervi solidi. Non è stata presa dal panico. Penso che in questo senso il paese sia molto maturato. Ecco, forse quello che non le viene riconosciuto in questo momento è che da un punto di vista tecnico–militare ha una grande esperienza, che ha professionisti in grado di gestire scenari come il sud del Libano.
Esattamente il contrario di quello che ha sostenuto la New Republic che ha scagliato un durissimo attacco sostenendo l’inadeguatezza degli italiani, la loro incapacità ad organizzare alcunchè.
L’Italia ha gestito benissimo l’operazione Alba insieme con la Francia in Albania, nel ’95, e credo che anche in Kosovo non abbia fatto una brutta figura, anzi.
Poi è stata presente in Bosnia. Qui si fa un salto di qualità, ovviamente, la missione è più delicata, ma i militari sono preparati.
Sempre secondo il New york Times, l’Italia ha «coinvolto direttamente e in prima linea l’Europa nella ricerca della pace e della sicurezza in Medio Oriente».
Questa guerra inaspettata è un’occasione per l’Europa da cogliere per far ripartire una qualche forma di politica estera comune. Forse la mia è una visione troppo ottimistica, però qualcosa di positivo può venir fuori anche da questa situazione.
Per esempio se il modello funziona, se questa forza aiuta davvero a stabilizzare il Libano del Sud, e Israele prende fiducia nell’Europa, chissà che lo stesso modello non possa essere applicato nella striscia di Gaza.
A questo punto, Roma può avere un ruolo nei negoziati sul nucleare iraniano?
Io non so come l’Italia potrebbe contribuire su questo punto, nè se sarebbe una cosa conveniente per il governo Prodi.
Fosse per me, concentrerei le energie in Libano.
Dopo molto tempo truppe americane ed europee sono ad appena centinaia di km nel Medio Oriente, il Times scrive che tale circostanza «può aiutare le due sponde dell’Atlantico a guardarsi negli occhi».
Non è che mi convinca molto quest’immagine.
Il fatto è che le truppe americane stanno cercando disperatamente una strategia per uscire dall’Iraq, mentre gli europei stanno arrivando. Ma in circostanze completamente diverse.