Friday, October 27, 2006

Ma com’è antidemocratica in Africa, la liberal Starbucks

ETIOPIAOXFAM DENUNCIA IL GIGANTE DEL CAFFÈ: BOICOTTA I PRODUTTORI LOCALI NEGANDO PROFITTI PER 70 MILIONI DI EURO
Ma com’è antidemocratica in Africa, la liberal Starbucks
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, venerdì 27 ottobre 2006

La notizia, almeno per gli amanti del caffè cool metropolitano (e democratico), è di quelle che stringono il cuore.
Starbucks avrebbe bloccato il tentativo degli agricoltori etiopi di proteggere la denominazione di origine dei loro chicchi di caffè più famosi – Sidamo e Harar – negando loro un potenziale profitto annuale di 47 milioni annui di sterline (circa 70 milioni di euro). L’accusa – per ora smentita – arriva dall’associazione umanitaria britannica Oxfam, e viene rilanciata dal Guardian.
Fosse confermata, davvero una brutta storia per l’icona americana del caffè globale, urbane ben educato, dodicimila punti vendita (ma progetti per quarantamila) diffusi a ogni incrocio delle città americane e di mezzo mondo (Italia per ora esclusa). Alla luce dei fatti, gli arredi in legno, i materiali dolci e l’utilizzo di carta riciclata, tornerebbero a essere quello che sono: semplici ed efficaci veicoli dei valori del brand, della marca (contenuti nel documento di Corporate Social Responsibility). Tutt’altra cosa, che il «rispetto per la natura e per il prossimo, solidarietà», fino ad oggi sventagliato contro l’icona rivale, la “cattiva” Wal-Mart.
Già, perchè l’impero creato nel 1987 da Howard Schultz, un signore di Brooklyn di 50 anni – che dopo un viaggio in Italia e una passeggiata per i bar milanesi del Corso Vittorio tornò a Seattle intenzionato a fondare una catena di coffee bar– negli ultimi tempi aveva assunto significati che trascendevano l’aroma del caffè.
Come quando, nella primavera del 2005, Starbucks lancia la campagna “The Way I See It” tappezzando gli inconfondibili bicchieroni di carta (riciclata) con frasi di scrittori, personaggi dello spettacolo e intellettuali.
Dalla romanziera di colore Alice Randall alla musicista afro Erykah Badu. E i clienti conservatori non la prendono troppo bene. Troppo liberal, protestano.
E nel 2004, all’indomani delle presidenziali che confermano George W. Bush – e l’immagine di un paese spaccato in due come una mela –, Martin Sieff sul the Globalist scrive «che la vera linea di demarcazione» passa per chi sceglie Wal-Mart piuttosto che Starbucks. Che il 2 novembre 2004, il 70% delle persone che vivono nel raggio di un miglio da un ipermercato Wal-Mart ha votato per Bush, mentre il 60% di coloro che vivono entro un miglio da un caffè Starbucks ha espresso la preferenza per Kerry. E che il «grande cuore del paese è veramente la terra della Wal- Mart. – continua Sieff – Una nazione dove una maggioranza schiacciante di elettori – in particolare il proletariato dei lavoratori bianchi – non si preoccupa se contribuisce ad alzare il deficit commerciale Usa, acquistando mercanzia “made in China”».
Di contro, «gli abitanti della nazione Starbucks stanno sul fronte opposto.
Professionisti di classe medio-alta».
Americani, «più preoccupati della reputazione degli Stati Uniti nel mondo », che, da consumatori (anche politici) potrebbero prendere non troppo bene lo scontro con un paese povero come l’Etiopia. Considerato che il profitto annuale del colosso Usa è pari a tre quarti del Pil di Addis Abeba (che ha fatto sapere di non essere intenzionata a mollare nella guerra del copyright).
Unica consolazione per Starbucks, se privata della dimensione ideale, che almeno cool per un po’ dovrebbe restare. Avendo siglato ai primi di ottobre un accordo con iTunes, il sito della Apple dedicato alla musica digitale, e stilato una propria playlist con contratti esclusivi con artisti (ed icone Dems) come Bob Dylan e Alanis Morissette. Ideali, per sorseggiare il Frappuccino “sinestetico”, una specie di frappè imbevibile, e lungo mezza giornata.
Così come vuole la politica del gruppo, tesa a creare «un terzo luogo, unico, tra casa e lavoro».

«Dati utili, ma il catastrofismo deresponsabilizza. Cambiare si può»

«Dati utili, ma il catastrofismo deresponsabilizza. Cambiare si può». I commenti di Realacci e Ferrante
di stefano baldolini
EUROPA QUOTIDIANO, mercoledi 25 ottobre 2006

Basta con i catastrofismi e rimbocchiamoci le maniche pensando al futuro. Dare una data sulla fine delle risorse è sempre un’operazione rischiosa. Il “Living Planet Report 2006” del Wwf suscita qualche perplessità tra le fila degli ambientalisti riformisti dell’Ulivo.
E trova sulla stessa linea, Ermete Realacci, presidente della commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della camera, e Francesco Ferrante, capogruppo dell’Ulivo in commissione ambiente al senato.
Per Realacci, «occorre concentarsi sulla speranza del futuro anziché perdersi dietro a vaticini catastrofici, necessari da un lato per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma che dall’altro finiscono per deresponsabilizzare.» «Le politiche ambientali – continua il presidente onorario di Legambiente –, a partire dal contenimento dei gas serra, sono sì essenziali per mantenere l’equilibrio del pianeta, così come evidenziato dal rapporto del Wwf, ma soprattutto dovrebbero rappresentare una straordinaria occasione per un’economia che sappia investire sul terreno dell’innovazione, della ricerca e conoscenza.» Realacci punta l’indice sulla qualità. «Questo è vero in tutto il mondo, ma è vero soprattutto in Italia, che oltre ad essere terreno adatto per innovazione, ricerca e conoscenza, può contare sulla qualità».
Qualità che così come «è il retroterra del successo del made in Italy, consentirebbe di produrre ricchezza e di rendere compatibile la nostra economia consumando meno energia e meno materie prime.» Con un occhio al futuro. «Non perdiamo di vista la progettualità – chiosa il deputato della Margherita – dire semplicemente che tra trent’anni servirà un altro pianeta, significa che tanto vale lasciar perdere ogni battaglia, e andare al mare con la fidanzata aspettando la fi- ne. Non mi sembra il caso…».
E proprio dal 2050, preconizzato nel rapporto, parte il senatore Francesco Ferrante: «Il Wwf fornisce sempre dati molto interessanti, ma sono sempre un po’ perplesso quando vedo con tanta nettezza de- finire una data di esaurimento delle risorse. Non credo che sia quello il punto. E ogni volta mi viene da citare la saga della fine del petrolio, e la celebre battuta di Sheikh Zaki Yamani, ministro saudita dell’Opec negli anni ’70 - «L’età della pietra non finì per mancanza di pietra, e l’età del petrolio finirà molto prima dell’esaurimento del petrolio – insomma, quello che vale per il petrolio vale in genere per le altre risorse naturali. Importante è capire che è sbagliato continuare con questo modello di sviluppo che affianca consumo di risorse e processi poco innovativi. E qui l’esempio dell’energia torna utile. La perdita di risorse va a braccetto con l’uso di tecnologie antiquate.» Abbandonati i catastrofismi, bisogna puntare sull’innovazione e farlo in maniera differente per aree del pianeta. «Puntando sulla dematerializzazione delle risorse nei paesi più ricchi, e nel trasferirimento di nuove tecnologie ai paesi in via di sviluppo.
A cui non si può chiedere di fermare la loro corsa, ma si può consigliare di continuare a correre in maniera diversa», chiude Ferrante.

Nel 2050 non basteranno due pianeti

Nel 2050 non basteranno due pianeti per i nostri consumi, denuncia il Wwf
Gli esperti che hanno redatto il “Living Planet Report 2006” denunciano un degrado degli ecosistemi naturali «senza precedenti nella storia della specie umana», un processo che diventerà irreversibile «se non si imboccherà la strada della sostenibilità dello sviluppo, integrando politiche economiche e ambientali».
di STEFANO BALDOLINI

EUROPA QUOTIDIANO, mercoledì 25 ottobre 2006

Un pianeta non basta, e nel 2050 ce ne vorranno almeno due, se continua l’attuale ritmo di consumo di risorse naturali: acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali. Gli ecosistemi naturali infatti si stanno degradando ad un ritmo «senza precedenti nella storia della specie umana». È quanto si legge nel “Living Planet Report 2006”, il rapporto del Wwf giunto alla sua sesta edizione.
Dopo due anni di studi gli esperti, che hanno analizzato lo stato naturale del pianeta ed il ritmo attuale di consumo delle risorse, indicano «che la popolazione umana entro il 2050 raggiungerà un ritmo di consumo pari a due volte la capacità della Terra». Fatto tanto più grave perché irreversibile, considerato che il nostro pianeta è un sistema biologico “chiuso”, ossia che non può interagire con l’ambiente esterno scambiando materia.
Il “Living Planet Report” «conferma anche una continua perdita di biodiversità, così come analizzato nelle precedenti edizioni ». In questo senso i grafici degli andamenti delle popolazioni delle specie viventi dimostrano «globalmente una pericolosa discesa ». Il rapporto dimostra che in 33 anni (dal 1970 al 2003) le popolazioni di vertebrati hanno subito un tracollo di almeno un terzo.
Questo mentre nello stesso tempo l’Impronta Ecologica dell’uomo – ovvero, “quanto pesa” la domanda di risorse naturali da parte delle attività umane – «è aumentata ad un punto tale che la Terra non è più capace di rigenerare ciò che viene consumato».
L’Impronta Ecologica dell’uomo (Ecological Footprint) è uno dei due indicatori compilati dai ricercatori per raffigurare lo “stato di salute” del pianeta.
L’altro, l’Indice del pianeta vivente (Living Planet Index) si basa sui trend di oltre 3600 distinte popolazioni di circa 1300 specie di vertebrati in tutto il mondo: 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. E negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%.
«Il rapporto tra i due indici» mostra «che la “nostra impronta” ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento». Nel report precedente (pubblicato nel 2004 e basato su dati del 2001) era del 21%. In particolare, «l’Impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera Impronta globale: il nostro ‘contributo’ di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003».
Come da tradizione, lo studio del Wwf stila una classifica tra i paesi. L’Italia «ha un’impronta ecologica (sui dati 2003) di 4,2 ettari globali pro capite con una biocapacità di un ettaro globale pro capite, dimostrando quindi un deficit ecologico di 3.1 ettaro globale pro capite». Nella classifica mondiale è al 29mo posto, non male in assoluto, ma in coda rispetto al resto dei paesi europei.
«È evidente», secondo il Wwf, «che anche l’Italia deve cambiare rotta al più presto e imboccare la strada della sostenibilità del proprio sviluppo, integrando le politiche economiche con quelle ambientali.
» «Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell’Impronta ecologica sono per difetto », ha spiegato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia, «è tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo. Il nostro futuro dipenderà da come impostiamo oggi la costruzione delle città, da come affrontiamo la pianificazione energetica, da come costruiamo le nostre abitazioni e da come tuteliamo e ripristiniamo la biodiversità».
Dal punto di vista globale, i paesi «con oltre un milione di abitanti con l’Impronta ecologica più vasta calcolata su un ettaro globale a persona, sono gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, la Finlandia, il Canada, il Kuwait, l’Australia, l’Estonia, la Svezia, la nuova Zelanda e la Norvegia». La Cina si pone a metà nella classifica mondiale, al 69mo posto, ma la sua crescita economica (che nel 2005 è stato del 10,2%) ed il rapido sviluppo economico che la caratterizza, insieme a India e gli altri giganti emergenti, «giocheranno un ruolo chiave nell’uso sostenibile delle risorse del pianeta nel futuro». Di qui la scelta di diffondere il “Living Planet Report” da Pechino.

Sunday, October 22, 2006

Ma la morte arriva prima della sentenza

PROCESSI DI OGGI
Ma la morte arriva prima della sentenza

di Stefano Baldolini
EUROPA QUOTIDIANO venerdì 20 ottobre 2006

Più che la giustizia è la morte il triste filo conduttore dei grandi processi ai protagonisti della storia recente.
Aspettando la cattura del generale Ratko Mladic e Radovan Karadzic, sono tutti morti i protagonisti del con- flitto nell’ex Jugoslavia, Slobodan Milosevic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic.
I giudici del Tribunale dell’Aja hanno potuto processare solo il primo dei tre che il 21 novembre 1995, in una base aerea dell’Ohio, firmavano soddisfatti i celebri accordi di Dayton ponendo fine a oltre tre anni di “macelleria” nel cuore dell’Europa.
Ed è la pena di morte ad essere evocata, peraltro senza troppi giri di parole, nell’altro grande processo in corso, quello a Saddam Hussein. Così, «A dio piacendo», ha detto solo qualche giorno fa il premier iracheno Nouri al Maliki, «il procedimento non durerà a lungo». Che poi i processi a carico dell’ex rais di Bagdad sono due. Il primo, per la strage nel villaggio sciita di Dujail, sta per arrivare a conclusione: il verdetto è atteso per il 5 novembre. Quello per la “campagna Anfal” contro i curdi, è invece appena iniziato ed è segnato dal boicottaggio dei legali di Saddam, che da oltre un mese hanno deciso di saltare le udienze per protesta contro ingerenze del governo nel dibattimento.
Nel processo che vede Saddam e il cugino Alì Hassal al Majid (“Alì il chimico”) incriminati per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, coerentemente con il carattere mediatico che lo caratterizza, non sono mancati i colpi di scena. Come quando, dopo esser stato espulso dall’aula per aver tentato di leggere un versetto del Corano, è stato lo stesso Saddam a chiedere giustizia.
«Quando l’accusa parla, il mondo ascolta; quando l’imputato parla, gli spegnete il microfono: è giusto?».

Friday, October 20, 2006

Metrò, fuga dall'ultimo vagone

MAssimo Lugli sulla Repubblica

Un sottosegretario mortale

Il MAnifesto su Vernetti e la moratoria sulla pena di morte

Così iniziò la favola del Pibe de oro

La sorpresa del cuneo

IL COMMENTO
La sorpresa del cuneo
di MASSIMO GIANNINI
LA Repubblica

DAL CILINDRO magico della Legge Finanziaria esce ogni giorno una sorpresa nuova. Sparisce l'imposta di successione, travestita da tassa di registro, e poi ricompare. Compare l'esenzione del bollo per le auto ecologiche, accoppiata alla stangata sui Suv, e poi sparisce. Si materializzano massicce assunzioni di precari nella scuola, e poi svaporano col taglio di 50 mila insegnanti. Dire che c'è confusione, a questo punto, è un puro eufemismo.

Ma tra le mirabilie più sgradevoli della manovra, per il vasto e già scontento pubblico dei contribuenti, ce n'è una finora mediaticamente poco nota, anche se politicamente dolorosa. Il famoso "cuneo fiscale", sul quale Prodi ha felicemente scommesso durante la campagna elettorale. Solo ora, a poco più di due settimane dal varo della Finanziaria, il sindacato si sta rendendo conto che, della promessa riduzione dell'odiato "cuneo", gli oltre 18 milioni di lavoratori dipendenti non intascheranno un solo euro.

Certamente non una novità imprevista: nascosta tra le pieghe dei testi approvati c'era scritta fin dall'inizio. Ma sicuramente una verità amara: nel dibattito pubblico è stata taciuta, molti italiani non l'hanno ancora capita, Epifani, Bonanni e Angeletti avranno molte difficoltà a farla digerire alla loro "base". Secondo il programma dell'Unione, l'abbattimento degli oneri tributari, sociali e contributivi (che generano l'enorme differenza tra la retribuzione lorda che le imprese pagano per ciascun lavoratore e lo stipendio netto che quest'ultimo incassa in busta paga) doveva essere di 5 punti in un solo anno. Sarà invece (e almeno questo è noto) spalmato in due tranche (a febbraio e a luglio 2007) e sarà diviso tra le imprese (che beneficeranno del 60% della riduzione totale) e i lavoratori (ai quali andrà il restante 40%).

Il vantaggio per il sistema industriale è chiaro, ed è stato ampiamente spiegato dal governo. Le imprese, attraverso l'introduzione di nuove deduzioni dalla base imponibile dell'Irap connesse con il costo del lavoro, risparmieranno 2,5 miliardi di euro nel 2007 e 4,4 miliardi di euro nel 2008. Il corto-circuito, mediatico e fiscale, riguarda invece i lavoratori. In cosa si traduce, concretamente, la riduzione del cuneo fiscale per i dipendenti? La Finanziaria non l'ha indicato, il governo non l'ha spiegato, Cgil-Cisl-Uil non l'hanno chiarito. Per un motivo semplice, quanto impopolare: per i lavoratori dipendenti i benefici del cuneo coincidono (e non si aggiungono) con la riforma dell'Irpef varata da Visco. La riduzione degli oneri sociali e fiscali in busta paga, cioè, viene interamente assorbita dalla rimodulazione delle aliquote, dalla trasformazione delle deduzioni in detrazioni e dall'aumento degli assegni familiari, già previste dal governo come piatto forte dell'operazione di "redistribuzione del reddito a favore dei ceti medio-bassi".

Poco importa che questa presunta o pretesa "manovra neo-keynesiana" sia già stata equamente contestata da destra e da sinistra, che non comporti significativi sconti d'imposta dai 40 mila euro di reddito in su, e che anche per le fasce di reddito più basse contenga patenti anomalie e stupefacenti disparità di trattamento. Sia tra settori di lavoro (per esempio impiegati o operai), sia tra tipologie di famiglia (per esempio single e nuclei con figli). Resta il fatto che proprio questa riforma, presentata con tutt'altro "titolo", è la palingenetica "riduzione del cuneo". Lo si capisce, indirettamente, non dalla Finanziaria, ma solo dalla Relazione previsionale e programmatica che l'accompagna, come meritoriamente si è accorto solo il Manifesto di qualche giorno fa: "La riduzione del carico fiscale sui lavoratori - si legge a pagina 28 - viene realizzata nell'ambito di un più ampio intervento di riforma Irpef che interessa non solo i lavoratori dipendenti, ma tutti i contribuenti".

Dunque, chi spera in una "manna" fiscale con le buste paga del prossimo anno resterà deluso. Quello che gli spetterà è già contenuto nella nuova Irpef rimodulata. In molti casi si tratterà di un risparmio di qualche decina di euro al mese. In qualche caso si tratterà di un aggravio di qualche centinaio di euro al mese. Il danno, per tutti, è che non c'è nient'altro da risparmiare. La beffa, per molti, è che con la riduzione del cuneo c'è addirittura da perdere, invece di guadagnare. Forse questo paradosso già basta a spiegare i silenzi di Palazzo Chigi, insieme al cupio dissolvi del sindacato.

È l'ennesimo equivoco di questa manovra, sulla quale Prodi e la sua squadra palesano vistose carenze di comunicazione mediatica, ma anche pericolosi deficit di gestione politica. Il centrodestra non può alzare il dito: in cinque anni, e con una maggioranza parlamentare di 138 seggi, Berlusconi premier ha imposto sulle sue Finanziarie ben otto voti di fiducia. Ma la fiducia appena annunciata anche dal governo Prodi, che dovrebbe essere decisa oggi alla Camera e non solo al Senato, è un pessimo segnale. Per la maggioranza, molto più che per l'opposizione, se è vero che sulla manovra licenziata da Palazzo Chigi il 29 settembre già pendono la bellezza di 254 richieste di modifica avanzate dagli stessi ministri che l'avevano approvata nemmeno venti giorni fa. Non può essere un caso che l'ultima rilevazione effettuata ieri dall'Ipr per Repubblica. it fotografa un tracollo di consensi per l'esecutivo unionista. Non si governa con i sondaggi, come pretendeva di fare il Cavaliere. Ma non si governa neanche con l'improvvisazione, come sa bene anche il Professore.

(19 ottobre 2006)

Governo diviso su Kyoto

Governo diviso su Kyoto

Wednesday, October 18, 2006

Superuomini e neoprimitivi

Superuomini e neoprimitivi: due tribù fra 100 mila anni
Studio inglese. Alti e intelligenti o bassi e poco dotati: le razze del futuro
Corriere

Studio della Lse

Briatore scende in campo? «In Italia evaderei le tasse, se mi annoio però...»
L'Unità

Monday, October 16, 2006

Il global warming è affare di tutti. Il grande business si organizza

Il global warming è affare di tutti. Il grande business si organizza
Diffuso a Oslo il “Global Framework for Climate Risk Disclosure”, le linee guida che le compagnie dovrebbero seguire per attrarre i grandi investitori, preoccupati dalla poca trasparenza in termini di governance ambientale. Nel 2009 per le imprese “green”, opportunità pari a 17 miliardi di dollari, cinque solo in Europa.
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, venerdi 13 ottobre 2006

Le imprese devono fare la loro parte, e tenere in maggiore considerazione i rischi a lungo termine del global warming, avrebbero solo da guadagnarci.
L’invito arriva da Oslo, dove nei giorni scorsi è stato diffuso il “Global Framework for Climate Risk Disclosure”, uno stringato – appena nove pagine – ma importante documento con le linee guida che le compagnie dovrebbero seguire per rivelare il «quadro d’insieme passato, presente e futuro delle emissioni di gas serra» e «permettere di analizzare i rischi e le opportunità » connesse al problema. La novità è che questa volta a lanciare l’iniziativa, non sono le associazioni ambientaliste, ma quattordici dei maggiori investitori mondiali, con migliaia di miliardi di dollari a disposizione per finanziare progetti ed iniziative per ridurre le emissioni dei gas serra. Si va da soggetti istituzionali, come i fondi pensione britannici, australiani e americani (il “California Public Employees Retirement System” per esempio), o legati a organizzazioni internazionali come l’“Environment Programme’s Finance Initiative” delle Nazioni Unite.
In sostanza i grandi investitori sono preoccupati che le compagnie concentrino la loro attenzione sui profitti immediati, e sottovalutino i rischi a lungo termine connessi all’inquinamento.
Ma non solo. Non sono molte le imprese che diffondono, volontariamente o meno, dati sul loro comportamento in relazione al global warming: quanti gas serra emettono, che tipo di cicli produttivi utilizzano etc.. E tale reticenza finisce per spaventare gli investitori che hanno bisogno di conoscere quanto stanno rischiando o meno. Per farsi un’idea, a stilare rapporti esaustivi sul rischio climatico, sarebbero meno di una dozzina tra le cinquecento imprese citate nelle classifiche del magazine Usa, Fortune. Le cose andrebbero un po’ meglio in Europa.
E anche se negli stessi Stati Uniti la situazione sta migliorando (secondo il gruppo ambientalista “Friends of the Earth”, dal 2000 al 2005, le imprese americane “responsabili” in termini ambientali sarebbero raddoppiate), c’è ancora molto lavoro da fare.
Di qui, la necessità del “Framework” di Oslo che, lanciato dalla partnership creata nel maggio del 2005 alle Nazioni Unite, è disponibile all’indirizzo web www.ceres.org e individua quattro elementi chiave da rispettare: la misurazione delle emissioni di gas serra attuali e previsti, durante i processi industriali delle compagnie; analisi strategiche del rischio climatico e gestione delle emissioni; stima dei rischi concreti connessi ai cambiamenti climatici; analisi del rischio in relazione alle regolamentazioni di emissioni emergenti negli Stati Uniti, Europa, e in eventuali altri paesi. Il climate change presenta «una serie di rischi concreti per il business e opportunità che gli investitori devono prendere in considerazione», dichiara Peter Scales, presidente dell’“Institutional Investors Group on Climate Change” che gestisce investimenti europei per più di duemila miliardi di euro. «Oggi più che mai gli investitori riconoscono che i cambiamenti climatici sono una seria business issue, e pretendono maggiore trasparenza», rincara Mindy Lubber, presidente della Ceres, il network Usa fondato nel 1989 dall’allora inedita collaborazione di gruppi ambientalisti e investitori istituzionali, sull’onda emotiva del disastro ambientale provocato dalla petroliera Exxon Valdez, incagliatasi nello stretto di Prince William, in Alaska. Incidente che diciassette anni dopo, continua a far sentire i suoi effetti economici: il governo statunitense ha chiesto alla compagnia petrolifera un’integrazione del dieci per cento dei costi di bonifica. Altri 92 milioni di dollari, oltre ai 900 milioni concordati nel 1991.
Seguire le attività della Ceres può essere illuminante per conoscere la storia recente della cosiddetta governance ambientale.
Nel 1997 il network lancia la “Global Reporting Initiative” (Gri), che è di fatto considerata l’attuale standard internazionale per calcolare la performance economica, sociale ed ambientale delle corporation (circa 700 quelle che oggi si attengono alle sue linee guida). La Gri dal 2002 è un’istituzione indipendente, e sostenitrice a sua volta del “Framework” di Oslo. Un’altra creatura della Ceres, è l’americana ”Investor Network on Climate Risk” (Incr), inventata insieme a dieci investitori istituzionali nel novembre del 2003 durante l’“Institutional Investor Summit on Climate Risk” alle Nazioni Unite. La Incr oggi raggruppa una cinquantina di soggetti istituzionali e gestisce fondi per più di tremila miliardi di dollari. Sul suo sito, www.incr.com, lo scorso 21 settembre veniva annunciata l’avvenuta allocazione – nei passati diciotto mesi – di un miliardo di dollari in tecnologie pulite come motori ad idrogeno, energia alternativa e rinnovabile, materiali all’avanguardia; per il 2009 prevedeva opportunità d’investimento per diciassette miliardi di dollari, di cui dieci in Nord America, cinque in Europa e due nel resto del mondo. Conseguenza non trascurabile: per ogni 100 milioni di dollari investiti, 2700 nuovi posti di lavoro.

Wednesday, October 11, 2006

"Nucleare di Pyongyang? Ban Ki Moon è una garanzia"

di Stefano Baldolini
Europa quotidiano di mercoledì 11 ottobre 2006

(rassegna Camera)

Monday, October 09, 2006

Web use overtakes newspapers

Web use overtakes newspapers

By Andrew Edgecliffe-Johnson in London

Published: October 8 2006 22:19 | Last updated: October 8 2006 22:19

The time European consumers spend online has, for the first time, overtaken the hours they devote to newspapers and magazines, a study revealed.

But the growth of new media is expanding total media consumption rather than simply cannibalising print and television.

Print consumption has re-mained static at three hours a week in the past two years, as time spent online has doubled from two to four hours. Viewers are also spending more time watching television, up from 10 hours to 12 a week.

The Jupiter Research survey of more than 5,000 people in the UK, France, Germany, Italy and Spain shows that Europeans’ use of the internet is still behind the rates seen in the US. A similar study by Jupiter of US habits found that Americans now spend 14 hours a week online – as much time as they spend watching television – and just three hours reading print.

However, the rapid spread of fast broadband internet connections in Europe is likely to accelerate the trend. The average time spent online by broadband customers in Europe was seven hours a week, compared with two hours for those with dial-up connections.

In France, where 79 per cent of online households have broadband connections, the typical user is online for five hours a week, compared with only three hours a week in Germany, which has a broadband penetration rate of 42 per cent.

“The fact that internet consumption has passed print consumption is an important landmark for the establishment of the internet in Europe,” said Mark Mulligan, research director at Jupiter. “This shift in the balance of power will increasingly shape content distribution strategies, advertising spend allocation and communication strategies.”

By far most of the time Europeans spent online was devoted to e-mail and search activities. Entertainment content such as music and video still accounted for only 22 per cent of online activity.

The research found “a very clear new media/old media generational divide”, Mr Mulligan said. Under-25s now spend six hours a week online, half the time they spend watching television but three times the hours they devote to print. Those aged 15-24 are almost twice as likely as the average consumer “to consume music and video content online. Their habits are going to change the face of the web as they become more mainstream,” Mr Mulligan said.
Financial Times

«Dico sì a colpire i clienti delle prostitute»

«Dico sì a colpire i clienti delle prostitute»
Amato: non sono interessato alla privacy di squallidi maschi a caccia di ragazze a pagamento «Molti italiani sfruttano gli immigrati, ne fanno una fonte di reddito. L'Ucoii? Non è illegale»

ROMA — Semaforo rosso. Macchine in fila. Una vecchia zingara traballante tende la mano. Tutti la scacciano con fare infastidito. Solo una signora, impietosita, abbassa il finestrino per porgerle una moneta. Scatta il verde. Gli altri automobilisti chiedono strada suonando irosi i clacson. Un giovane sgomma con la sua rombante vettura e affianca l'incauta elemosiniera coprendola di insulti.
Al racconto di questa scena, Giuliano Amato sorride: «Tutti noi tendiamo all'intolleranza quando siamo in strada. L'automobilista è sempre un essere umano sull'orlo di una crisi di nervi». Una battuta e il ministro dell'Interno torna subito serio. «Certo, c'è un'ostilità nei confronti di alcune categorie di immigrati. Che nel caso dei Rom per la verità non sono neppure tali. Sono una minoranza apolide».
Non immigrano perché non emigrano?
«È così. Si muovono e rappresentano un problema davvero speciale di cui l'Italia ancora non si è fatta carico, così come l'Europa ritiene che si debba fare. Per la nostra coscienza sono il caso più difficile. Dobbiamo saper tutelare i loro diritti come minoranza non territoriale e dobbiamo difenderci dall'attività criminale di alcuni di loro senza cancellare una cosa in nome dell'altra».
Finora siamo di fronte ad un fallimento.
«Dipende. Di recente ho visitato il campo nomadi della borgata Gordiani, che si è auto-diviso in due parti. Quelli che sono principalmente dediti al furto e quelli che sono persone perbene e aspirano ad integrarsi. Il parroco, allo scopo di dare un'identità a queste persone, ha caricato il proprio stato civile di 450 nomi che risultano conviventi con lui».
Ma chi lava i vetri ai semafori o pretende l'elemosina non fa che alimentare l'intolleranza.
«Ci sono i ragazzini che lo fanno timidamente, ci sono quelli che lo fanno in modo aggressivo. Quasi tutti sono sfruttati. Ma ricordiamoci che tanti sono sfruttati anche da italiani. Buona parte della nostra edilizia vive di lavoro nero immigrato. Costano molto meno. Si denuncia la loro presenza nel cantiere solo quando hanno un incidente, per evitare guai. E sono i più fortunati. Altri ricevono una somma cash purché spariscano. E non voglio generalizzare il caso di quelli che vengono gettati dal camion dopo aver avuto un incidente e vengono trovati morti. È una storia complicata. Non c'è un bianco e un nero. Non ci siamo solo noi italiani virtuosi, disturbati nella nostra vita quotidiana da persone che sgradevolmente ci si sono inserite. Ci sono anche diversi di noi che di questa sgradevolezza fanno la fonte del proprio reddito. Il principale incentivo all'immigrazione clandestina non sono i semafori ma il lavoro nero».
Poi però c'è Torino, tossic park, gli spacciatori in corteo, i sassi contro la polizia.
«E allora sa come rispondo? Consumiamo meno droga e ci sarà meno offerta. All'eroina, consumo del giovane privo di identità che sprofonda nell'isolamento della siringa, si viene sempre più sostituendo la cocaina che è la droga non dei poveracci ma di coloro che passano un weekend a tutta birra oppure si caricano prima di un incontro importante sniffando un po' di polvere bianca».
Lei è un socialista, un riformista, e quindi indica come rimuovere le cause dei mali sociali. Ma in attesa gli effetti sono devastanti...
«Ma quale attesa! Ci mancherebbe altro. Le forze dell'ordine combattono quotidianamente».
Ma intanto si arriva a costruire i muri come quello di Padova.
«Questo è un altro capitolo, rappresentato dalle politiche urbaniste che debbono accompagnare l'inserimento delle comunità di immigrati e dovrebbero prevenire il fenomeno banlieu, dove le forze dell'ordine possono solo spegnere gli incendi. Si tratta di decongestionare questo eccesso di presenze. Vuole che le dica una cosa socialista?».
Prego.
«Questi fenomeni li crea l'ingordigia di alcuni proprietari di immobili i quali all'affitto di una famiglia preferiscono sei studenti o ancora meglio sedici immigrati che vengono messi a centimetri quadrati, realizzando un profitto fuori di misura. Via Anelli è figlia di questo. Due bravi sindaci, una di centrodestra prima e uno di centrosinistra poi, si sono adoprati per decongestionare le due concentrazioni etniche che si sono formate. Ma se non si fa in tempo, prima le forze dell'ordine debbono sbrogliare la matassa, poi ci si mette un muro per evitare che si riaggrovigli».
Il muro per il momento sta lì.
«Verrà tolto quando l'operazione di decongestionamento sarà completata. Non vediamo l'Italia all'ombra di quel muro. Nella maggior parte delle nostre città le comunità di immigrati vivono in realtà sufficientemente integrate. I fenomeni sono diversi. A Milano c'è un'insofferenza verso gli immigrati che è legata all'intensità del mercato del lavoro nero, figlio della ricchezza della città, e al conseguente fatto che la criminalità di extracomunitari supera di gran lunga la media nazionale. Al contrario, a Napoli il tasso di criminalità è prevalentemente locale».
A Napoli gli scippi e le rapine sono opera dei guaglioni. Ma che intendete fare per l'emergenza criminalità nel capoluogo partenopeo?
«Un lavoro di pubblica sicurezza che è fondamentale per garantire una visibile presenza delle forze dell'ordine. C'è già il più alto concentrato di poliziotti».
Forse non bastano.
«Non è questo il punto. Come hanno fatto gli americani ad Harlem o a sud di Washington Square, dove un tempo non si poteva neppure entrare, va creata una vita sana dove ora c'è degrado. Io sto riducendo da venti a dieci i commissariati in città, in modo da togliere gli uomini dagli uffici e raddoppiare le pattuglie in strada, ma la cosa più utile che sto facendo è dare il via alla cittadella della polizia. Cambierà un quartiere, creerà attività che poi ne genereranno altre in un circuito virtuoso».
Tornando all'immigrazione, un'inchiesta del Corriere ha evidenziato che stanno nascendo nuovi ghetti. È il caso del quartiere Braida, a Sassuolo.
«Il sindaco è stato da me una settimana fa. Anche lì si lavora al decongestionamento».
Ma l'Italia si deve adattare a tanta immigrazione?
«Secoli fa, a Venezia unMoro dominava. Poi siamo diventati tendenzialmente bianchi e cristiani, con qualche ebreo che abbiamo vergognosamente ritenuto di troppo. Ora il mondo entra anche da noi. La viviamo come un'invasione intollerabile, come qualcosa che deve finire. Tendiamo a difendercene invece di affrontarla come fecero gli italiani dei tempi delle repubbliche marinare. Non è una risposta da ministro dell'Interno ma è l'unica che si possa dare. E allora uno deve dire: forza italiani, guardate al futuro. E non abbiate paura degli immigrati, chiedete a me di difendervi dai criminali».
Entro ottobre lei presenterà il disegno di legge che modificherà la Bossi-Fini. Sarà scontro con l'opposizione?
«Vorrei che su un tema epocale come questo le forze politiche avessero delle linee guida condivise. Spero che vinca la ragione ma temo che lo sfruttamento dell'emotività e le pregiudiziali ideologiche possano prevalere».
Qual è la più grossa differenza tra il suo progetto e la legge attuale?
«Il mio progetto dovrà aiutarci a tenere distinti con maggior rigore gli immigrati regolari da quelli clandestini e dovrà evitare ai primi le inutili vessazioni alle quali l'attuale legge in più casi li assoggetta».
Legata all'immigrazione clandestina, c'è la prostituzione. Strade di periferia invase da nigeriane e ragazze dell'Est. In un trionfo dell'ipocrisia del quale a farne le spese sono solo le schiave del sesso. Ma non sarebbe il caso o di riaprire le case chiuse o di punire anche i clienti?
«Non ho alcuna obiezione a prendersela con i clienti. Quando si cita la privacy a difesa di uno squallido maschio che gira per la Salaria alla ricerca di ragazze dalle quali ottenere a pagamento ciò che non sa ottenere altrimenti, beh, della sua privacy mi interessa ben poco».
Islam. Lei è accusato di essere un tollerante buonista.
«È la cosa che mi diverte di più. Io sono tollerante nei confronti di tutte le religioni. Chi è intollerante nei confronti dell'Islam è uno sciagurato al quale conviene leggere i vangeli ed apprendere il significato dei valori cristiani. Sono anche uno dei pochi che ha denunciato le scuse fatte per paura che rischiano di sostituire il dialogo tra le religioni. Continuo a ritenere che dobbiamo fare non la guerra alle religioni ma la guerra all'estremismo. Non la guerra ad Allah ma a chi fa perdurare un oscurantismo dogmatico nell'Islam. In passato il rapporto tra fede e ragione è stato offuscato anche dalla cristianità. Anche noi abbiamo fatto guerre sante e l'odio verso gli ebrei, accusati di aver ucciso Cristo, ha portato la cristianità a perseguitare altri così come oggi dei folli, in nome di Allah, perseguitano i cristiani».
Ma l'Ucoii non è un'organizzazione estremista, quasi da mettere fuorilegge?
«Non ci risultano ragioni per metterla fuori legge, ma è certo che tende non all'integrazione, ma alla preservazione di una identità separata che è quella su cui fa leva il fondamentalismo. In ogni caso non coincide con la Consulta islamica e rappresenta in essa una posizione minoritaria. La Consulta, e non l'Ucoii, ha offerto una cena islamica nel corso del Ramadan, sulla base di una decisione presa in passato, che prevede anche l'offerta di una cena cristiana da parte nostra in prossimità del Natale».
Lei è tra coloro che puntano tutto sull'Islam moderato. Non crede che alla fine bisognerà comunque prendere la spada contro la scimitarra?
«Il mondo islamico ha dentro di sé delle tensioni irrazionali ed estremiste forti. Non si può prevenire il trionfo del fanatismo islamico ricreando un fanatismo cristiano. Occidente svegliati, è un qualcosa che anch'io mi sento di dire. Ma non per riorganizzare la crociata. L'Occidente è anche gli Stati Uniti, che sono quello che sono — tanti estremisti nostrani amici dell'America lo dimenticano — perché hanno integrato e integrano le etnie e le religioni più diverse e che oggi sembrano una babele di lingue, ma contano già sul ritorno al dominio dell'inglese fra alcuni anni, proprio grazie all'integrazione delle nuove generazioni. L'Occidente è quello che è perché ha saputo essere la casa dei cristiani, ma anche degli altri. L'Occidente non è quello che alzava la croce contro la scimitarra, né è quello che metteva al rogo chi rifiutava la sua fede».
Ma ci sono pericoli di terrorismo in Italia?
«Non ci sono segnali accentuati. Ma chi deve farlo, tiene gli occhi aperti».
Per tornare ai semafori, lei si fa lavare il vetro?
«Ora ho la macchina blindata e non si avvicina nessuno. Prima, se il parabrezza non era sporco, dicevo di no. Se era sporco, me lo facevo pulire. Non era elemosina ma la remunerazione di un lavoro».
Marco Cianca
08 ottobre 2006
Corriere

Wal-Mart Voters

Wal-Mart Voters
The GOP-leaning retailer is encouraging employees to vote. Will that help the Democrats?
By Daniel Gross
Posted Friday, Oct. 6, 2006, at 4:50 PM ET

Last Friday, Wal-Mart announced it was starting a campaign to encourage its 1.3 million associates to register to vote and participate in the electoral process. Wal-Mart is hiring politicos from the left (Charles Baker) and right (Terry Nelson) to help, and the company is providing workers with voter-registration and education materials.

Critics will assume that this is yet another attempt by Wal-Mart to stack the deck in favor of its favorite political party: the GOP. As the Center for Responsive Politics noted, Wal-Mart has given more than $1 million in federal campaign donations in this cycle, with 71 percent going to Republicans. And Wal-Mart itself is a lot like the contemporary Republican Party—strong in the South, Midwest, Sunbelt, and Great Plains, weak in the cities and coastal areas, and steadfastly hostile to organized labor. The company has also been less than subtle in letting employees know what it thinks about certain politicians. As the Financial Times noted, "In August, Wal-Mart distributed a letter to its employees in Iowa and three other states, highlighting what it said were inaccuracies in criticism by Gov. Tom Vilsack, as well as Sens. Evan Bayh of Indiana and Joseph Biden of Delaware and New Mexico's Gov. Bill Richardson." (Democrats, all.) Wal-Mart also promised employees it would "keep you informed about what these political candidates are saying about your company while on the campaign trail."

But with Wal-Mart, the politico-economic issues are never as simple as they seem, as former Kerry adviser Jason Furman has argued. It is safe to assume that most senior officers of the company are Republicans, although their numbers now include top flack Leslie Dach, a former Democratic political operative. But what about its vast army of associates? If Wal-Mart encourages them to vote and brings some marginal voters to the ballot box in the process, it could be doing Democrats a huge favor.

Wal-Mart's diversity data shows that the company's workforce, and in particular its vast army of sales associates, looks an awful lot like the Democratic base.

It is disproportionately African-American. African-Americans are about 11 percent of the American population and vote overwhelmingly for Democrats. According to this CNN exit poll, they went for Kerry by an 88-11 margin in 2004. But African-Americans constitute nearly 17 percent of Wal-Mart's employees and 18 percent of sales workers. Encouraging more middle- and lower-income African-Americans to vote in states like Arkansas, Oklahoma, and Mississippi would almost certainly be a net positive for Democratic candidates.

We know, as well, that women tend to vote disproportionately for Democrats. In 2004, according to CNN, women (and working women) voted for Kerry by a 51-48 margin. Women are substantially overrepresented in Wal-Mart's workforce. About 60 percent of all employees are women. And three-quarters of its sales workers are female—a higher proportion than at other retailers. All things being equal, more women voting will boost Democratic candidates.

Finally, Wal-Mart's workforce is disproportionately composed of lower-income workers. Barbara Ehrenreich says Wal-Mart's mean wage is $9.68 an hour, which comes out to about $20,000 a year on a full-time basis. In 2004, again according to CNN, those with incomes under $15,000 voted for John Kerry by a 63-36 margin, and those with incomes in the $15,000-$30,000 range voted for Kerry by a 57-42 margin. More lower-income Americans, many of whom are women and African-American, voting would benefit Democratic candidates.

Now, if Wal-Mart's workers all suffer from false consciousness and, a la Thomas Frank's Kansans, reliably vote against their own economic interests, then Wal-Mart's efforts to get them to the polls could help Republicans. But if the African-American, female, and low-wage workers who toil at Wal-Mart tend to vote the way other African-American, female, and low-wage workers who toil elsewhere tend to vote, then Wal-Mart's efforts will be a boon to Democrats.

Another possibility is that by encouraging employees to vote and making it clear which party it generally supports, Wal-Mart is unduly pressuring its employees to vote for Republicans. But unless Wal-Mart goons accompany associates into the ballot box, it's hard to see how that would work. Wal-Mart employees may not have been successful in organizing unions, but they don't simply take whatever the company dishes out without resisting. Lots of them show the ultimate form of resistance to pressure from their employer: Every year, about 40 percent of them quit.

Slate

Smoke and mirrors

«È la solita politica italiana Anche l'Unione fa trucchi»
L'«Economist»: Padoa-Schioppa piegato dall'ala sinistra

ROMA — Smoke and mirrors: fumo e specchi, in italiano diremmo specchietti per le allodole. Con questo titolo l'autorevole settimanale inglese The Economist boccia la manovra del governo Prodi. «Coloro che avevano sperato che il governo di centrosinistra di Romano Prodi — comincia l'articolo — avrebbe messo fine al gioco delle tre carte sui conti pubblici così caro al governo di centrodestra di Silvio Berlusconi devono essere rimasti delusi da questa prima Finanziaria». Il trucco più grande contenuto nella manovra, secondo l'Economist, è quello sul trasferimento di parte del Tfr (i futuri accantonamenti per la liquidazione) dalle aziende all'Inps: considerare questo flusso di denaro come un'entrata anziché un debito verso i lavoratori è «imperdonabile». E ciò non è certo il tipo di operazioni da aspettarsi «da un ex membro dell'esecutivo della banca centrale europea » come Tommaso Padoa- Schioppa. Ma questo dimostra quanto il ministro dell'Economia, prosegue il settimanale, si sia dovuto «piegare per placare le richieste dell'ala sinistra» della coalizione. Sotto tiro anche la manovra fiscale, che potrebbe frenare la crescita, e che difficilmente potrà avvantaggiare il 90% dei contribuenti come dice il governo, perché Regioni e Comuni, osserva l'Economist, aumenteranno le loro imposte.
Il giudizio della testata inglese, molto ascoltata dalla comunità finanziaria internazionale, è di quelli che fanno male. Oggi come ieri. Non a caso le frequenti bocciature subite da Berlusconi provocarono dure polemiche tra lo stesso ex premier e l'Economist mentre l'opposizione rilanciava soddisfatta le accuse del settimanale. Ora il centrosinistra reagisce perlopiù sforzandosi di fare buon viso a cattivo gioco. Ma c'è anche chi, come il ministro dell'Ambiente, il verde Alfonso Pecoraro Scanio, riesce a ricondurre pur sempre al centrodestra la responsabilità delle critiche: «Premesso che l'Economist non è mai stato benevolo coi governi italiani, con Berlusconi la credibilità del nostro Paese è peggiorata. E quindi è inevitabile che anche i nostri atti vengano letti con un pregiudizio negativo». «Noi — rivendica Alfonso Gianni (Rifondazione), sottosegretario allo Sviluppo — quando il centrosinistra applaudiva l'Economist per le critiche a Berlusconi eravamo gli unici a sostenere che il settimanale lo attaccava da destra. E quindi oggi non ci stupiamo». Per Marco Rizzo (Pdci) il settimanale ha ragione sul fisco, «perché alla fine un operaio di Mirafiori con moglie e due figli a carico ci rimette», ma ha torto sulla richiesta di maggior rigore: «La gente è già infuriata così». Chi invece vuole correre in edicola e fare incetta di copie è Maurizio Gasparri (An). «Ci incartiamo Prodi, che quando stava all'opposizione imbracciava l'Economist contro di noi, al punto che noi avevamo ribattezzato il settimanale Ecomunist ». «Ora invece — aggiunge Maurizio Sacconi (FI) — tutta la stampa anglosassone ha capito che questo governo è egemonizzato dalla sinistra radicale».
Enrico Marro
08 ottobre 2006
Corriere

Thursday, October 05, 2006

L’incubo di altre Columbine. E Bush convoca una conferenza

SANGUE NELLE SCUOLE USASALGONO A CINQUE LE VITTIME DELL’ASSALTO ALLA SCUOLA AMISH DI NICKELS MINE. NEL PAESE CRESCE LA PAURA
L’incubo di altre Columbine. E Bush convoca una conferenza
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano mercoledi 4 ottobre 2006

George W. Bush vuole convocare una conferenza per discutere il problema della violenza nelle scuole.
La decisione è stata presa dopo l’assalto di lunedì scorso alla scuola Amish di Nickels Mine in Pennsylvania, che è costata la vita a cinque studentesse più quella dell’assalitore, un conducente di furgoni per la consegna del latte, animato da un non precisato risentimento per fatti accaduti vent’anni fa.
L’obiettivo, hanno spiegato alla Casa Bianca, sarà quello di determinare la natura del problema e le azioni che il governo federale potrà adottare per aiutare le comunità a prevenire episodi del genere. La conferenza è ancora in fase di preparazione, e non è stata ancora decisa una data precisa.
Vi stanno lavorando il ministro dell’istruzione, il ministro della giustizia ed il consigliere per la politica interna, che coinvolgeranno anche l’associazione nazionale studenti e genitori, e i sindacati degli insegnanti.
Intanto nel paese cresce la paura.
La strage in Pennsylvania è il terzo fatto di sangue registrato negli Stati Uniti in pochi giorni. Solo venerdì scorso nel Wisconsin un ragazzo di 15 anni ha sparato ed ucciso il preside del suo liceo, mentre due giorni prima un uomo è entrato in una scuola del Colorado, ha preso in ostaggio un gruppo di ragazzine, le ha aggredite sessualmente e poi ha ucciso una studentessa prima di suicidarsi. Inevitabile poi tornare al 20 aprile 1999, alla Columbine Hig School, quando due studenti, dopo aver acquistato sul web un fucile-semiautomatico, entrarono a scuola e uccisero tredici compagni, ne ferirono molti altri, e infine si tolsero la vita.
Allora si parlò dell’influenza dell’heavy metal, di “cattivi maestri” come la rock starMarylin Manson, e le indagini successive portarono alla luce le simpatie neonazi dei due killer.
Oggi, alla luce degli attacchi recenti – alcuni condotti da allievi, altri da adulti – il quadro è complesso. Varia il movente, ma il filo conduttore resta quello denunciato da Michael Moore nel suo documentario “Bowling for Columbine”: la relativa facilità con cui i killer hanno reperito le armi. Un gioco da ragazzi in un paese in cui c’è più di un’arma da fuoco per cittadino (stime Fbi), esistono 250 mila rivenditori autorizzati, e una pistola può essere acquistata anche in un grande magazzino per soli quindici dollari.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ogni tre ore un bambino muore sotto i colpi di un’arma da fuoco.
Solo nel 2003, secondo il rapporto del movimento per i diritti dei bambini in America, il Children’s Defense Fund, sono rimasti uccisi in 2867, tra bambini e adolescenti americani. E secondo il ministero della giustizia, tra il 1976 e il 2000, il 14 per cento delle vittime di arma da fuoco sono state ad opera di familiari, il 37,7 per cento di conoscenti, e appena il 15 per cento di sconosciuti.
La questione è nota. La principale responsabile della proliferazione di armi e fucili è la National Rifle Association (Nra), l’organizzazione di produttori fondata a New York nel 1871 col nome di American Rifle Association, vicina al Partito repubblicano, e protetta dal Secondo emendamento della Costituzione che garantisce ai cittadini il diritto di armarsi. Con oltre quattro milioni di membri, più del triplo dal 1978, la battaglia della Nra parte nel 1968 quando gli Stati Uniti si dotarono della prima legge sul controllo delle armi da fuoco, il “Gun Control Act”, e raggiunge il culmine nel 1986 con il “Firearms Owners’ Protection Act”, firmato dal presidente Reagan.
Per farsi un’idea della sua in- fluenza, basta tornare allo scorso 7 luglio quando la forte pressione della Nra sulla delegazione degli Stati Uniti – maggior produttore ed esportatore mondiale di "small arms" – ha portato praticamente al fallimento la Conferenza mondiale dell’Onu sulle armi leggere e di piccolo calibro.
Naturalmente la parte del leone, la fa tra le mura domestiche. Come nel novembre del 2004, quando San Francisco approvò due referendum per mettere al bando le armi da fuoco (oltre a vietare ai reclutatori delle forze armate l’accesso alle scuole pubbliche) e la Nra annunciò subito di fare ricorso: secondo la costituzione californiana, infatti, i provvedimenti sulle armi possono essere adottati solo a livello statale e non dalle singole città.
Sempre lunedì scorso, nelle stesse ore della strage nella comunità Amish della Pennsylvania, l’Istitute for Legislative Action (il gruppo di lobbying della Nra, creato nel 1975), ringraziava senza mezzi termini Arnold Schwarzenegger per essersi opposto alle proposte di legge di due esponenti democratici:« California Governor Stands Up for Gun Owners’ Rights!», campeggiava sul sito www.NRAILA.org.

Wednesday, October 04, 2006

Il far west che brucia i cuori delle città

Il far west che brucia i cuori delle città
(edmondo berselli - la rep)