Monday, October 16, 2006

Il global warming è affare di tutti. Il grande business si organizza

Il global warming è affare di tutti. Il grande business si organizza
Diffuso a Oslo il “Global Framework for Climate Risk Disclosure”, le linee guida che le compagnie dovrebbero seguire per attrarre i grandi investitori, preoccupati dalla poca trasparenza in termini di governance ambientale. Nel 2009 per le imprese “green”, opportunità pari a 17 miliardi di dollari, cinque solo in Europa.
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, venerdi 13 ottobre 2006

Le imprese devono fare la loro parte, e tenere in maggiore considerazione i rischi a lungo termine del global warming, avrebbero solo da guadagnarci.
L’invito arriva da Oslo, dove nei giorni scorsi è stato diffuso il “Global Framework for Climate Risk Disclosure”, uno stringato – appena nove pagine – ma importante documento con le linee guida che le compagnie dovrebbero seguire per rivelare il «quadro d’insieme passato, presente e futuro delle emissioni di gas serra» e «permettere di analizzare i rischi e le opportunità » connesse al problema. La novità è che questa volta a lanciare l’iniziativa, non sono le associazioni ambientaliste, ma quattordici dei maggiori investitori mondiali, con migliaia di miliardi di dollari a disposizione per finanziare progetti ed iniziative per ridurre le emissioni dei gas serra. Si va da soggetti istituzionali, come i fondi pensione britannici, australiani e americani (il “California Public Employees Retirement System” per esempio), o legati a organizzazioni internazionali come l’“Environment Programme’s Finance Initiative” delle Nazioni Unite.
In sostanza i grandi investitori sono preoccupati che le compagnie concentrino la loro attenzione sui profitti immediati, e sottovalutino i rischi a lungo termine connessi all’inquinamento.
Ma non solo. Non sono molte le imprese che diffondono, volontariamente o meno, dati sul loro comportamento in relazione al global warming: quanti gas serra emettono, che tipo di cicli produttivi utilizzano etc.. E tale reticenza finisce per spaventare gli investitori che hanno bisogno di conoscere quanto stanno rischiando o meno. Per farsi un’idea, a stilare rapporti esaustivi sul rischio climatico, sarebbero meno di una dozzina tra le cinquecento imprese citate nelle classifiche del magazine Usa, Fortune. Le cose andrebbero un po’ meglio in Europa.
E anche se negli stessi Stati Uniti la situazione sta migliorando (secondo il gruppo ambientalista “Friends of the Earth”, dal 2000 al 2005, le imprese americane “responsabili” in termini ambientali sarebbero raddoppiate), c’è ancora molto lavoro da fare.
Di qui, la necessità del “Framework” di Oslo che, lanciato dalla partnership creata nel maggio del 2005 alle Nazioni Unite, è disponibile all’indirizzo web www.ceres.org e individua quattro elementi chiave da rispettare: la misurazione delle emissioni di gas serra attuali e previsti, durante i processi industriali delle compagnie; analisi strategiche del rischio climatico e gestione delle emissioni; stima dei rischi concreti connessi ai cambiamenti climatici; analisi del rischio in relazione alle regolamentazioni di emissioni emergenti negli Stati Uniti, Europa, e in eventuali altri paesi. Il climate change presenta «una serie di rischi concreti per il business e opportunità che gli investitori devono prendere in considerazione», dichiara Peter Scales, presidente dell’“Institutional Investors Group on Climate Change” che gestisce investimenti europei per più di duemila miliardi di euro. «Oggi più che mai gli investitori riconoscono che i cambiamenti climatici sono una seria business issue, e pretendono maggiore trasparenza», rincara Mindy Lubber, presidente della Ceres, il network Usa fondato nel 1989 dall’allora inedita collaborazione di gruppi ambientalisti e investitori istituzionali, sull’onda emotiva del disastro ambientale provocato dalla petroliera Exxon Valdez, incagliatasi nello stretto di Prince William, in Alaska. Incidente che diciassette anni dopo, continua a far sentire i suoi effetti economici: il governo statunitense ha chiesto alla compagnia petrolifera un’integrazione del dieci per cento dei costi di bonifica. Altri 92 milioni di dollari, oltre ai 900 milioni concordati nel 1991.
Seguire le attività della Ceres può essere illuminante per conoscere la storia recente della cosiddetta governance ambientale.
Nel 1997 il network lancia la “Global Reporting Initiative” (Gri), che è di fatto considerata l’attuale standard internazionale per calcolare la performance economica, sociale ed ambientale delle corporation (circa 700 quelle che oggi si attengono alle sue linee guida). La Gri dal 2002 è un’istituzione indipendente, e sostenitrice a sua volta del “Framework” di Oslo. Un’altra creatura della Ceres, è l’americana ”Investor Network on Climate Risk” (Incr), inventata insieme a dieci investitori istituzionali nel novembre del 2003 durante l’“Institutional Investor Summit on Climate Risk” alle Nazioni Unite. La Incr oggi raggruppa una cinquantina di soggetti istituzionali e gestisce fondi per più di tremila miliardi di dollari. Sul suo sito, www.incr.com, lo scorso 21 settembre veniva annunciata l’avvenuta allocazione – nei passati diciotto mesi – di un miliardo di dollari in tecnologie pulite come motori ad idrogeno, energia alternativa e rinnovabile, materiali all’avanguardia; per il 2009 prevedeva opportunità d’investimento per diciassette miliardi di dollari, di cui dieci in Nord America, cinque in Europa e due nel resto del mondo. Conseguenza non trascurabile: per ogni 100 milioni di dollari investiti, 2700 nuovi posti di lavoro.

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