Friday, October 27, 2006

Ma com’è antidemocratica in Africa, la liberal Starbucks

ETIOPIAOXFAM DENUNCIA IL GIGANTE DEL CAFFÈ: BOICOTTA I PRODUTTORI LOCALI NEGANDO PROFITTI PER 70 MILIONI DI EURO
Ma com’è antidemocratica in Africa, la liberal Starbucks
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, venerdì 27 ottobre 2006

La notizia, almeno per gli amanti del caffè cool metropolitano (e democratico), è di quelle che stringono il cuore.
Starbucks avrebbe bloccato il tentativo degli agricoltori etiopi di proteggere la denominazione di origine dei loro chicchi di caffè più famosi – Sidamo e Harar – negando loro un potenziale profitto annuale di 47 milioni annui di sterline (circa 70 milioni di euro). L’accusa – per ora smentita – arriva dall’associazione umanitaria britannica Oxfam, e viene rilanciata dal Guardian.
Fosse confermata, davvero una brutta storia per l’icona americana del caffè globale, urbane ben educato, dodicimila punti vendita (ma progetti per quarantamila) diffusi a ogni incrocio delle città americane e di mezzo mondo (Italia per ora esclusa). Alla luce dei fatti, gli arredi in legno, i materiali dolci e l’utilizzo di carta riciclata, tornerebbero a essere quello che sono: semplici ed efficaci veicoli dei valori del brand, della marca (contenuti nel documento di Corporate Social Responsibility). Tutt’altra cosa, che il «rispetto per la natura e per il prossimo, solidarietà», fino ad oggi sventagliato contro l’icona rivale, la “cattiva” Wal-Mart.
Già, perchè l’impero creato nel 1987 da Howard Schultz, un signore di Brooklyn di 50 anni – che dopo un viaggio in Italia e una passeggiata per i bar milanesi del Corso Vittorio tornò a Seattle intenzionato a fondare una catena di coffee bar– negli ultimi tempi aveva assunto significati che trascendevano l’aroma del caffè.
Come quando, nella primavera del 2005, Starbucks lancia la campagna “The Way I See It” tappezzando gli inconfondibili bicchieroni di carta (riciclata) con frasi di scrittori, personaggi dello spettacolo e intellettuali.
Dalla romanziera di colore Alice Randall alla musicista afro Erykah Badu. E i clienti conservatori non la prendono troppo bene. Troppo liberal, protestano.
E nel 2004, all’indomani delle presidenziali che confermano George W. Bush – e l’immagine di un paese spaccato in due come una mela –, Martin Sieff sul the Globalist scrive «che la vera linea di demarcazione» passa per chi sceglie Wal-Mart piuttosto che Starbucks. Che il 2 novembre 2004, il 70% delle persone che vivono nel raggio di un miglio da un ipermercato Wal-Mart ha votato per Bush, mentre il 60% di coloro che vivono entro un miglio da un caffè Starbucks ha espresso la preferenza per Kerry. E che il «grande cuore del paese è veramente la terra della Wal- Mart. – continua Sieff – Una nazione dove una maggioranza schiacciante di elettori – in particolare il proletariato dei lavoratori bianchi – non si preoccupa se contribuisce ad alzare il deficit commerciale Usa, acquistando mercanzia “made in China”».
Di contro, «gli abitanti della nazione Starbucks stanno sul fronte opposto.
Professionisti di classe medio-alta».
Americani, «più preoccupati della reputazione degli Stati Uniti nel mondo », che, da consumatori (anche politici) potrebbero prendere non troppo bene lo scontro con un paese povero come l’Etiopia. Considerato che il profitto annuale del colosso Usa è pari a tre quarti del Pil di Addis Abeba (che ha fatto sapere di non essere intenzionata a mollare nella guerra del copyright).
Unica consolazione per Starbucks, se privata della dimensione ideale, che almeno cool per un po’ dovrebbe restare. Avendo siglato ai primi di ottobre un accordo con iTunes, il sito della Apple dedicato alla musica digitale, e stilato una propria playlist con contratti esclusivi con artisti (ed icone Dems) come Bob Dylan e Alanis Morissette. Ideali, per sorseggiare il Frappuccino “sinestetico”, una specie di frappè imbevibile, e lungo mezza giornata.
Così come vuole la politica del gruppo, tesa a creare «un terzo luogo, unico, tra casa e lavoro».

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