Saturday, August 26, 2006

«In Iraq una guerra senza fine a bassa intensità». Parla Thomas Ricks, autore del bestseller “Fiasco”

«In Iraq una guerra senza fine a bassa intensità». Parla Thomas Ricks, autore del bestseller “Fiasco”

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO SABATO 26 AGSTO 2006

Che la guerra in Iraq sia stata un disastro, non ci sono dubbi per Thomas E. Ricks, corrispondente dal Pentagono per il Washington Post e autore di “Fiasco: The American Military Adventure in Iraq”, salito recentemente in cima alla classifica dei saggi più venduti del New York Times.
Teoria di fondo del libro, basato su numerose interviste con ufficiali militari e su migliaia di documenti, è che non esistessero piani per il dopo-invasione e che siano stati commessi gravi errori nella strategia militare statunitense.
Mr Ricks, lei scrive che la decisione di George W. Bush di invadere l’Iraq nel 2003 è «una delle azioni più dissolute nella storia della politica estera americana», «il peggior piano della storia degli Stati Uniti», e che le conseguenze della scelta di Washington «non saranno chiare prima di decenni». Insomma, quanti “padri” ha la débacle irachena?
Di padri ne ha molti. L’amministrazione Bush ha fatto molti errori. Ma io credo che i problemi con l’Iraq siano sorti da un fallimento dell’intero sistema americano. Sia nella fase del conflitto sia nella gestione dell’occupazione. Il Congresso è stato a guardare, trascurando di porre le domande che avrebbero dovuto informare l’opinione pubblica e probabilmente rendere gli sforzi militari più efficaci.
Di chi è la responsabilità principale, del Pentagono o dei leader politici? Come l’occupazione ha finito per alimentare gli insorti?
Sono stati commessi enormi errori politici. Primo, hanno istituito una catena di comando confusa che non prevedeva alcuna figura a coordinamento degli azioni militari e civili, cosa che gli esperti di controinsurrezione dicono essere cruciale.
Inoltre, gli strateghi militari hanno teso a programmare per le circostanze più favorevoli, senza alcun piano di riserva. Poi, l’ambasciatore Paul Bremer appena giunto in Iraq ha preso due decisioni politiche che hanno di fatto permesso il reclutamento degli insorti: la dissoluzione del partito Baath e lo smembramento delle forze armate.
Nello stesso tempo, le truppe americane non erano sufficienti per chiudere la frontiera, un altro passaggio che si è rivelato decisivo per la mancata prevenzione della insurrezione.
Lei ha scritto che i «militari americani hanno dimenticato molte delle lezioni del Vietnam», che l’iniziativa era lasciata a «ufficiali creativi che hanno spesso inventato nuove tattiche e strategie sul campo». Come vanno le cose ora?
Le forza militari Usa hanno migliorato il loro lavoro.
Ora si muovono molto meglio di quanto facessero nel 2003 o nel 2004. La questione è se i cambiamenti in atto si dimostreranno essere troppo piccoli, e troppo in ritardo.
Negli ultimi tempi l’opinione pubblica mondiale ha concentrato il suo sguardo sulla guerra in Libano. Ma in Iraq si continua a combattere, ogni giorno muoiono numerosi iracheni. Cosa sta accadendo esattamente?
Sono stato in Iraq cinque volte. Ogni volta che ci tornavo, era peggio che la volta precedente. Una lezione che ho imparato è che le cose possono sempre andare peggio, e che nel futuro potrebbero ancora continuare a peggiorare.
È in corso una guerra civile?
Credo di sì. Credo ci sia una “guerra civile a bassa intensità”. In qualche modo penso che l’attuale politica Usa sia di prevenire che si degeneri in un guerra civile vera e propria, che potrebbe facilmente diventare un conflitto regionale.
L’Iraq sarà diviso in tre zone a base etnica? In regioni sunnite, sciite e curde? Potremmo trovarci di fronte a uno scenario paragonabile a quello che accadde nei Balcani?
Molte persone “intelligenti” stanno spingendo per arrivare a questo tipo di divisione. Il problema è che sarebbe una soluzione a breve termine che potrebbe dimostrare di essere un problema a lungo termine. Per esempio, probabilmente sorgerebbero controversie su chi dovrebbe controllare il petrolio. A quel punto la guerra civile sarebbe probabile. Ma non credo che si arriverà ad una istituzione di zone miste, come in Bosnia.
Condoleezza Rice recentemente ha dichiarato che la guerra in Iraq ha danneggiato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Ha auspicato un dialogo con i governi mediorientali...
Credo che il segretario di stato abbia ragione.
Il successo di Ned Lamont nelle scorse primarie democratiche in Connecticut è stato visto come un successo della fazione antiwar.
Pensa che se a novembre i Dems vinceranno le elezioni di medio termine, ci sarà un ritiro dall’Iraq?

L’Iraq sta diventando un problema sempre più crescente per colui che sarà il prossimo presidente.
Ma sarei sorpreso di vedere un Congresso a maggioranza democratica votare per un veloce ritiro delle truppe. Che invece, come sospetto, rimarranno in Iraq per un lungo, lungo tempo.

Riso amaro per l’Europa. Ma la Commissione non scherza

OGM  IL DIBATTITO DOPO LA DECISIONE DI BRUXELLES DI AUTORIZZARE L’IMPORT DEL SOLO PRODOTTO CERTIFICATO
Riso amaro per l’Europa. Ma la Commissione non scherza

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO venerdì 25 agosto 2005

Si configura come un fatto emblematico la decisione della Commissione europea di introdurre un sistema di certificazione per il riso importato dagli Stati Uniti al fine di evitare l’arrivo in Europa di organismi geneticamente modificati (Ogm) non autorizzati.
Era successo che le autorità statunitensi avevano individuato, in alcuni campioni di riso non Ogm, tracce di proteine transgeniche non autorizzate, ossia di riso LL601 prodotto dalla tedesca Bayer, che non doveva essere destinate al mercato americano.
Mercato, che al contrario di quello europeo (Bruxelles non autorizza riso Ogm né per le colture, né ad uso alimentare) prevede la circolazione di altri due tipi di riso, il LL62 e il LL06, sempre prodotti dalla Bayer.
La vicenda non incide su due dei tradizionali pilastri della questione Ogm, quello ambientale o sanitario, piuttosto pone dei problemi di tipo politico.
« È un caso politicamente interessante perché mette in evidenza la difficoltà di applicare la normativa anche quando funziona.
– dichiarano ad Europa fonti autorevoli della Commissione – E mette alla prova l’impianto normativo comunitario sugli Ogm.
Non tanto dal lato dei controlli, da un certo punto di vista le regole su base “iterativa” hanno funzionato, né da quello della tracciabilità, visto che sarebbe complesso risalire a come il riso è stato “inquinato”.
Il punto è quali debbano essere le risposte delle istituzioni in casi del genere.» E la risposta di Bruxelles, che dovrà passare quest’oggi al vaglio degli esperti del settore alimentare dei 25 paesi dell’Unione, prev e d e c h e a g l i stessi s t a t i memb r i spettino i controlli alle frontiere sulla certificazione, nonché il monitoraggio dei prodotti già sul mercato.
Questo, per sei mesi, passati i quali le procedure saranno riesaminate.
Intanto le decisioni non hanno incontrato il favore degli ambientalisti.
Per Greenpeace International si è trattata di «una risposta minima ad un serio problema di contaminazione».
Ma se il pericolo è stato escluso dalle autorità statunitensi, che parlano di rischio zero per la salute pubblica o l’ambiente, non sulla stessa linea è Bruxelles che non se la sente di condividere il punto di vista degli americani.
Anzi, non è un mistero che Bruxelles sia rimasta irritata dal ritardo della trasmissione delle informazioni, visto che la scoperta del riso “inquinato” nei supermercati Usa risalirebbe a tre settimane prima.
Della necessità di «non abbassare la guardia da parte delle autorità europee di fronte ai rischi di contaminazione che dimostrano la inadeguatezza del sistema americano a prevenire inquinamenti da Ogm», parla anche Luca Colombo del “Consiglio dei diritti genetici”, ascoltato da Europa.
«Si rifletta anche sulla opportunità di autorizzare la varietà di riso transgenico in attesa di approvazione », aggiunge.
Il riferimento è al fatto che l’”European Food Safety Authority” (Efsa) sta attualmente esaminando la possibilità di autorizzare un tipo di riso geneticamente modificato. Si tratta del Bayer LL 62, che contiene la stessa proteina trovata nel riso al centro delle polemiche.
Intanto sembrano destinate a calare le importazioni europee di riso americano.
Cosa non da poco, visto che gli Stati Uniti sono uno dei maggiori fornitori di riso dell’Unione, trecentomila tonnellate, di cui l’85 per cento a grano lungo, solo lo scorso anno. Altri grandi fornitori europei sono l’India, la Thainlandia e la Guyana.
Nel frattempo il Giappone, in linea con la sua tradizionale politica protezionista in campo alimentare, ha deciso di chiudere le frontiere al riso statunitense.

Friday, August 25, 2006

To Be a Shiite Now ....

To Be a Shiite Now ....
By: Mona Fayyad/ Professor at The Lebanese University

Beirut, August 8, 2006/Prof. Mona Fayyad - An Nahar Newspaper/--

We are going through a catastrophic and existential period that will
have long lasting impacts on our country and region for the next century; and since we are facing such a dangerous juncture I saw it fit to pose
some questions that one might pose within himself or in secret and wouldn't dare publicize, in fear of being accused of being a foreign agent or a traitor, or even a blasphemer. Confronting difficult questions and putting them out in public could help prevent us from falling to the precipice that has no return and could help leaders take the appropriate decisions in order to stop this hellish war whatever the cost may be.

What is the meaning of being Shiite - for the majority of Shiites at this point- and at this critical juncture ?

To be a Shiite, means that you entrust your fate to the wise and infallible leadership without daring to ask any question even if just as
a point of understanding.

To be a Shiite means that watch the Al Manar channel, or New TV or NBN, exclusively and that you enjoy their inspirational songs and their exclusive news and that you look with enmity to all other channels because they are either "American" or "Zionist", as long as they refer to Israeli forces by their name and do not call them the "forces of the enemy" , and do not have enough eulogies and is only broadcasting information.

To be a Shiite means that you do not question the meaning of victory. Is it the victory of armies while keeping soldiers - flush with weapons- alive while destroying all of what is built and the killing of the human beings that worked hard to build it up a nd constitute the true protection to the fighter himself?

To be a Shiite means that you do not question the meaning of resistance and pride, is it the fleeing from bombing and their stacking up on the tile floors of schools and their dust?

To be a Shiite is to contribute to the creation of a Lebanese "Karbala 2" as the Iraqi "Karbala 1" did not perform its role as needed in
building up the Arabs and carrying them on to victory over the enemy.

To be a Shiite is to be a hero that does not hurt nor complain, and does not have psychological crises, and accepts sacrificing himself and his country and everything that was accomplished so that he can teach Israel a lesson, and expose its craziness and ensure its defeat as was indicated to us by the Syrian Minister on the LBC station that Israel is the loser with "accentuation on the punctuation of letters". You see it is now hated more than ever before and it is indicted by most of the nations of the world...Now that they see for sure - and the lesson is still proceeding- the extent of its savagery and folly. When you are Shiite, you have to accept this logic, and even praise it, admiring its eloquence, its wisdom and its global role in spreading the legal education and the enactment international treaties and its role on a popular level in resistance and liberation. Did 'nt we see for sure through this war on us, that "Syria is the cornerstone in this region"? These are the very words of the minister himself. Of course all this destruction was necessary in order to ensure with concrete evidence the validity of this reasoning be cause of the level of our objective thinking we only work with evidence and empirical experimentation.

To be Shiite is to accept that your country be destroyed in front of your very eyes- with no surprise- and that it comes tumbling down on your head and that your family be displaced and dispersed and becomes "a refugee" at the four corners of the nation and the world, and that you accept standing up to the enemy with no complaints as long as there is a fighter out there with a rocket that he can launch at northern Israel and maybe even at its south without asking about the "why" ? or about the timing? or about the usefulness of the end result?

To be a Shiite is to accept that you sacrifice all as long as you have someone that will compensate you with money, and that someone will look over you as you rebuild what he destroyed. What is your problem with that? You see we are a people of heroes that know nothing but sacrifice and we can absorb mental shocks and the death of loved ones and the humiliation of displacement and the destruction of the infrastructure of the state - since its is a weak, corrupt and follower state- is it not enough to have on our side a strong country that we work to support its foundations in confronting the unjust American might and the American Israeli war machine from hell? That machine that whose meekness we have to prove as well as its inability to inflict any harm to the fighters of "Hizbollah" or its ability to limit their military capabilities and we will prove that at any price.

To be a Shiite is to keep silent and not to ask what is the purpose of liberating a country. Is it to destroy it all over again and to make
it possible for it to be occupied once more? and not to ask about the leadership role: is it to preserve its military power and its men flush
with arms without any care or concern for the normal human being? Being a Shiite means that you can only thank the Hizb for its heroism and sacrifice , it is not your role to contribute to "weakening" it or to "break its word" or to make him know when to back down or compromise to preserve his victory on the one hand and to preserve the Lebanese nation and its openness as well as its development on the other hand!! That means never to question whether pride takes precedence over the lives of others and whether stones take precedence over arms.

To be a Shiite means to confer to the leader of the resistance his role as a loyal hero to the cause of the Arab nation in its entirety, not
whether you like it or not, but whether that nation likes it or nor. You only have to hear the popular praise of the masses, that was
preceded by the praise the masses heaped on their loyal hero Abdel Nasir and is still shedding tears for its other hero of Saddam Hussein. And the masses are still able to heap praise on any hero that tickles its dreams and its feelings so that it can sleep tight at night. (You can here review the literature of the educated in the Safir newspaper and the Hayat). Or to recover its lost dignity under the boots of rulers like Saddam as long as we and only we pay the price until your real awakening. But the question is to what degree can we rely on these incapable masses, that are enslaved by their rulers to liberate itself without even thinking about reconsidering this Jihadist and revolutionary plan !! Is it empowered? Is it it wise enough? Has it prepared the ground for that? Does it have the tools for resistance and fighting other than the arms of zeal and emotion and oratory? If you are a Shiite you are not to ask this leadership how the ground work was prepared to absorb this indiscriminate war and its "potential"consequences. Where are the hospitals, the ambulances, never mind the shelters. These are the responsibilities of a state- That was never consulted in declaring war- so that it can be blamed for its weakness and lack of wit. You see the state is only needed when it is called upon to heal wounds, but the wise and existential decisions are not within its realm.

To be a Shiite means to incapacitate your mind and leave it to Sayyed Khamene'i to guide you and to decide for you what he wants for arms to "Hizbollah" and he imposes on you the meaning of a victory that has little difference from suicide.

To be a Shiite means to defend the meddling of the Iranian minister in Lebanese state affairs without even trying to care for appearances.
Maybe he came to "warn" the ministers of Hizbollah that "they did not agree" to the 7 point plan especially the point about the multinational force so that the door of the resistance would not be shut, and we remain a country exploited and abused after it was proven that the Shebaa Farms are Syrian and would be dealt with in accordance to Resolution 242 and that there is no concensus on that point. And in that he is warning them about their putting their Lebanese belonging ahead of their following to Iran. They have to, in spite of their noses, put the Iranian nuclear program and the interest of the state of Iran ahead of the interest of their state, and ahead of the preservation of the lives of the Lebanese or their possessions, whether these Lebanese are Shiite or otherwise, but especially if they were Shiites. Isn't it a priority to make Iran a regional Shiite super power ? What is the problem with sacrificing a country called Lebanon ? or the Shiites of this "Lebanon"?

And in this tense mood if you are a Shiite you have to listen to your Shiite speaker who is disturbed and angry and who wants to turn the world on top of the 14th of March, and who wants to forbid the deployment of multinational forces. And you hear him distribute labels of foreign servitude, treason, Americanism and Zionism left and right, without raising your lip. You have to absorb his anger and agree with all his opinions of which we have shared but a small sample. This is what takes you as far as possible from thinking who the heck you are? are you a Lebanese citizen? Is you being a Shiite means that you have to give priority to Iran over Lebanon? Do you have the freedom to have your own opinions? the freedom of expression? Is it possible to think calmly and to ask where are we going with this nation, the institutions of this state, with plurality, with the coexistence that we have to defend now?

If you are a Shiite and you dare write such writings and such think such thinking, then you must be a foreign agent and a traitor, in favor of partition and absorption of Palestinians. You must be with the Zionist and Israeli projects, and you defend the state, with its corruption and favoritism, and you support the American biased policies, and you accept its short sightedness, and its support for the terrorism of the Zionist state, and its failure to give the Palestinians their state like all other creatures of god, with the excuse of supporting the terrorism of "Hamas". And that means you support Israel itself and its satanic war machine and its extreme savagery and you justify its killing, its occupation, its folly and you are lucky if you are not accused to be the one destroying the houses on peoples' heads and the dismemberment of children's corpses and their scattering on the heaps of debris by raising your voice.

Did I forget any of the symphony? If I did, please excuse me because I cannot miss any of the news shows any more, I have to go see who is being displaced and whose house is being destroyed at the moment that is if he manages to survive.

Mona Fayyad is a Professor at The Lebanese University
 

Thursday, August 24, 2006

Uno spot planetario gratuito, ma l’Adidas non è grata a Fidel

L’accostamento tra una grande marca globale e un capo politico controverso come il líder máximo
Uno spot planetario gratuito, ma l’Adidas non è grata a Fidel

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO MERCOLEDI 23 AGOSTO 2006

La foto di un convalescente Fidel Castro in tuta Adidas bianca e strisce rossoblù fa il giro del mondo.
Drudge Report, il blog che portò a un passo dall’impeachment Bill Clinton (affare Lewinski) si domanda se sia un fotomontaggio o meno. Gli esuli anticastristi dalla Florida auspicano il ritocco, e che il líder máximo versi in condizioni più drammatiche.
Attendendo nuove sul suo destino, resta quell’immagine che vale più di mille bollettini medici: il simbolo dell’anticapitalismo è ancora vivo e veste Adidas.
In tempi di democrazia “emozionale”, per dirla col professor Sartori, non è una cosa da poco.
Perché può darsi, come dichiara al New York Times il capo relazioni esterne dell’Adidas, che il fatto in sé «non sia né negativo, né positivo», che la casa tedesca sia semplicemente «uno sport brand» che fa «prodotti per gli atleti, non per i leader politici». Ma poiché non stiamo parlando del golfista Tiger Woods o di Zinédine Zidane, la questione si pone.
Dunque, politica e brand sono compatibili? È un abbraccio mortifero o una fruttuosa sinergia? Un personaggio come Castro, per sua natura polarizzante, è un bene o un male, per una marca, che in teoria dovrebbe essere più unificante possibile? Guardando la vicenda, sembrerebbe di essere in piena eterogenesi dei fini.
Con i brand, ossia le marche, i simboli o i disegni con cui si identificano i prodotti, che hanno preso a vivere di vita propria, al di là delle intenzioni dei loro creatori.
Lo stesso New York Times scrive che quella foto è «una prova che le big companies hanno perso il controllo dei loro brand».
Non sarebbe il primo caso.
Nel 1994 la Ford impennò le vendite del 25 per cento. Era successo che O.J. Simpson alla guida di un modello Bronco fece impazzire in diretta tv i poliziotti americani per le freeway di San Diego. E per evitare sorprese, nel 2004, durante la corsa alla Casa Bianca di John F. Kerry, gli amministratori della Heinz, la compagnia che produce il ketchup di proprietà della moglie, dovettero scrivere a cinquanta radio e televisioni per ribadire che non avrebbero finanziato i democratici, dopo aver ricevuto minacce di boicottaggio.
Insomma, chi lavora nel marketing sa che l’accostamento tra politica e business è pericoloso. Dunque, il punto è un altro.
Oggi i consumatori soffrono di quella che si chiama “Constant Partial Attention”, vale a dire dell’impossibilità di concentrarsi su un concetto. Ottenere la loro attenzione è difficilissimo, se guadagni un pezzetto della loro mente e del loro cuore hai avuto successo. La parola chiave è “mind share”. Per conquistare un frammento della mente di un consumatore serve un’emozione forte. Di qui gli spot iPod con gli U2, la tennista Sharapova che è la regina dei prodotti di bellezza negli Usa, o la pubblicità Adidas con Platini, Zidane e compagnia, che giocano nelle favelas brasiliane.
Castro allora non più come icona politica, troppo divisiva, ma come eccellente “acceleratore della memoria”, in grado di guadagnare “mind share”, spazio nella mente sempre più parcellizzata.
Ottimo testimonial, involontario o meno, per mercati dominati dai consumatori emergenti, Sudamerica o Asia. Difficile sarebbe ritentare l’esperimento con leader del “primo mondo” come Bush o Blair.
Poi le cose si complicano quando si salta di scala, quando si prova a vendere l’immagine di un intero paese. Di fallimento del «brand Usa» parlava Naomi Klein, nel 2002.
L’autrice del fortunato “No logo” ammoniva ad usare i principi del marketing per imporre un prodotto politico.
«Quando i brand manager trasferiscono le loro abilità dalle corporation al mondo politico, inevitabilmente portano un certo fanatismo», scriveva sul Los Angeles Times alludendo alla tendenza a ricercare l’uniformità dei pareri piuttosto che una dinamica dialettica .
I fatti in qualche modo le hanno dato ragione. Lo scorso febbraio ricerche di settore riportavano che tra i primi tre brand più amati dai teenager di tutto il mondo non c’era una compagnia americana. Ma la Sony (Giappone), la Nokia (Finlandia) e la stessa Adidas. La Nike, prima delle big companies a stelle e strisce, si piazzava solo quarta. Cancellati decenni di dominio incontrastato. A pesare, pare, le scelte di politica estera ed ambientale dell’amministrazione Bush, guerra in Iraq e global warming.
Così da un lato cresce il disincanto dei giovani consumatori del pianeta verso il sogno americano, per tradizione esportato attraverso marchi celebri come Coca Cola, Walt Disney o McDonald’s. Dall’altro fiorisce uno strano ed inedito nazionalismo che dovrebbe fare a schiaffi con lo stesso carattere globale delle multinazionali.
E in termini di rapporti di forza tra business e politica, il quadro è ribaltabile.
In questi giorni per esempio i democratici americani hanno lanciato una campagna durissima contro Wal-Mart, la catena a basso costo e tutela minima dei lavoratori, accusata di desertificare il tessuto socio-economico di intere regioni. In questo caso è il business che si fa simbolo politico.
E Wal-Mart diventa l’immagine che condensa, nelle intenzioni degli spin doctor, il peggio della politica dei repubblicani. Un logo chiaro contro cui mobilitare e convogliare l’elettorato dem.
In ogni caso, a fare la fortuna di una campagna elettorale, o di marketing, è il fattore tempo.
Nel 2002 quando Castro indossò lo stesso giacchetto Adidas bianco a strisce rossblù su un campo da baseball, e si fece fotografare accanto al suo “best friend”, l’ex presidente americano Jimmy Carter, la cosa non suscitò lo stesso scalpore. Ma se si fosse prestata maggiore attenzione allo slogan della stessa casa d’abbigliamento tedesca – “Impossible is Nothing” – c’era da aspettarselo che il meglio doveva ancora venire.
Ora attendiamo i riscontri delle vendite di sneakers Adidas nel Venezuela dell’amico Chávez.

Wednesday, August 23, 2006

Come si racconta un conflitto. Arabi più informati degli americani?

MEDIA  NETWORK COME AL-JAZEERA HANNO MESSO AL BANDO L’USO DI UNA RETORICA “POLARIZZANTE”
Come si racconta un conflitto. Arabi più informati degli americani?

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO 22 AGOSTO 2006

Parte da un paradosso Lawrence Pintak, ex corrispondente dal Medio Oriente della Cbs, oggi direttore dell’Adham Center for Electronic Journalism all’American University del Cairo.
Che sul conflitto tra Israele ed Hezbollah, il mondo arabo sia più informato del popolo americano.
Che la copertura mediatica dei grandi network arabi, unita a quella dei media occidentali, entrambi accessibili via satellite, garantisca una molteplicità di punti di vista, uno “spettro” di prospettive, sconosciuto ai cittadini degli Stati Uniti, della democrazia più avanzata del mondo. Non è una cosa da poco. Ma andiamo con ordine.
Come è stata raccontata la seconda guerra libanese dai media arabi?
La cosa interessante è che emittenti come Al-Jazeera o Al-Arabiya hanno messo al bando l’uso di una retorica “polarizzante”. Proibendo parole come “strage”, “terroristi”, “aggressioni”. L’hanno fatto per evitare di essere strumentalizzate, per apparire neutrali nella copertura del conflitto. Ma anche perché era conseguenza della loro politica editoriale. Inizialmente, infatti, i paesi del Golfo erano critici verso Hezbollah ed erano interessati a non alimentare il conflitto. Poi, con il progredire della guerra, le cose sono un po’ cambiate ma in generale, comunque, hanno offerto una copertura equilibrata.
In una recente intervento alla Nbc lei ha parlato di uno “spettro dei media” arabi a fronte di un “ghetto informativo” americano: cosa voleva dire? Che i popoli arabi sono più liberi degli americani?
Non arrivo a dire che sono più liberi, ma è vero che hanno maggior accesso a punti di vista differenti rispetto al pubblico americano. Qui al Cairo, per esempio dalla mia tv, posso vedere tutti i canali arabi, tutti i canali europei e tutti gli americani.
Ossia posso avere uno spaccato più esteso della vicenda. In America tu non vedi altre prospettive che quella americana.
Certo, nei media arabi, Israele rimane il “bad guy”, il cattivo. Però si tenta di riportare la complessità della regione, della politica libanese. Questo non avviene per esempio nei canali nazionali americani.
Un esempio della carenza del dettaglio è la mancata differenziazione degli obiettivi sunniti da quelli sciiti. Per l’americano medio, Osama bin Laden, sunnita, ha lo stesso obiettivo di un Nasrallah, sciita. Lo stesso conflitto libanese è visto come una guerra tra Israele e i musulmani, senza nessuna differenziazione. Tutto ciò non può non avere ripercussioni nella percezione generale della politica estera di Washington.
A Cana muoiono civili arabi per mano d’Israele. In Iraq arabi sunniti vengono uccisi da arabi sciiti. I due fatti vengono raccontati alla stessa maniera dai media locali? Decisamente no. Perché in un certo senso ciò che accade in Libano, o in Palestina, è visto dalla prospettiva araba come un conflitto “bianchi contro neri”: gli israeliani sono i cattivi e via dicendo.
In Iraq invece le cose sono più complicate, perché le vicende arabe, musulmane, s’intrecciano dal punto di vista emozionale. Quello che in alcuni momenti emerge è la rabbia verso gli americani che non riescono a chiudere la partita irachena, ma non si può parlare di una narrazione semplificata.
Lei era inviato nella prima guerra del Libano, nel 1982. Al-Jazeera nasce nel 1996, quattordici anni dopo. Quali sono le differenze tra la copertura mediatica di allora e quella odierna?
Ce ne sono da entrambe le parti. Quella attuale americana è molto più semplicistica, ed “urlata”. I canali all news, con la loro programmazione 24 ore su 24, costringono di fatto a una banalizzazione del racconto, a una caduta negli stereotipi e a un abuso di retorica. Allora avevamo più tempo per riportare una storia, per approfondirla, per pensare con attenzione a cosa dire, alle ricadute del linguaggio usato. D’altra parte, però, anche lo scenario dei media arabi è radicalmente cambiato. Allora le emittenti erano controllate e manipolate dai governi, non si poteva parlare di libera informazione.
Anche la guerra in Libano ha visto i giornalisti sotto tiro. Lei ha invocato una legge internazione che metta al bando gli attacchi contro i media.
È vero. Sono stati distrutti torri di trasmissione tv e attaccati convogli di giornalisti nel sud del Libano.
Sono due fatti emblematici: i giornalisti sono diventati degli obiettivi militari. Chiedevo un gesto simbolico, non intendevo una procedura formale. Ma qualcosa bisogna fare. Si presume che durante un conflitto i giornalisti possano fare il proprio lavoro e siano indipendenti, non un’arma o un obiettivo militare.
Cosa dicono i media arabi della missione Onu?
Sono molto scettici. Sono rimasti scottati dalla presenza insignificante della missione Unifil nel sud del paese.
Un ultimo punto: come hanno raccontato della passeggiata del nostro ministro degli esteri D’Alema, a braccetto con il deputato di Hezbollah per le macerie di Beirut? Non ne ho sentito parlare. Quando è accaduto? Circa una settimana fa. Davvero non ne ha sentito parlare? Qui in Italia ha fatto molto scalpore.
No, davvero. Non ne sapevo niente. Non mi sembra ne abbia parlato nessuno.

Saturday, August 19, 2006

Quarantanove pronti a partire. In teoria

GLI ALTRI  INCERTEZZA IN MOLTI PAESI. ZAPATERO: «UNA MISSIONE COMPLICATA»
Quarantanove pronti a partire. In teoria

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO SABATO 19 AGOSTO 2006

Corre forte la politica italiana, ma è ancora da definire la composizione finale della forza internazionale destinata a sorvegliare la fragile tregua tra Israele ed Hezbollah. Forza che dovrà essere «robusta, ben armata» ma «non offensiva», per dirla con il vice segretario generale delle Nazioni Unite, Mark Malloch Brown. Sono quarantanove i paesi che si sono detti «teoricamente pronti» a fornire uomini all’Unifil, a supporto dei 15mila militari libanesi che si stanno dispiegando nel sud del paese, dove per la prossima settimana è prevista una visita di Kofi Annan.
Intanto, in attesa della diffusione delle ormai celebri regole d’ingaggio inviate ieri alle cancellerie, mentre si aspettano le prossime mosse della Francia, Israele prova a mettere il veto alla presenza di peacekeepers appartenenti a paesi che non ne riconoscono il diritto all’esistenza. Il riferimento è all’Indonesia, alla Malaysia e al Brunei, paesi musulmani che non hanno rapporti diplomatici con Gerusalemme. Naturalmente dell’ipotesi gli interessati non vogliono sentire parlare. «Andremo in territorio libanese, non in territorio israeliano», ha commentato il ministro degli esteri malese Syed Hamid Albar. Tanto più che Indonesia e Malaysia, che presiede l’Organizzazione della conferenza islamica, dovrebbero inviare contingenti tutt’altro che trascurabili, ma pari a circa 1000 soldati a testa.
In generale il contingente più numeroso dovrebbe essere quello della Turchia, forte di una posizione logistica decisiva.
Si parla di ben 5000 uomini, ma Ankara prende tempo e chiede maggiore chiarezza. Non sono poche le gatte da pelare per il governo Erdogan, sulle prime addirittura in ballottaggio con Parigi per la guida della missione (almeno secondo gli auspici del dipartimento di stato americano riportati dal Washington Post). Per molti turchi infatti la presenza in una forza di pace finirebbe per avvallare di fatto le politiche israeliane.
Inoltre la crisi libanese non può non intrecciarsi con la questione curda, che, tra scontri con i militanti del Pkk e voci di possibili operazioni militari turche nell’Iraq del nord, dalla primavera scorsa è tornata rovente. A complicare la situazione, peraltro già abbastanza confusa, c’è la comunità armena libanese che in queste ore si dice allarmata da un eventuale invio di truppe di Ankara.
A fronte di una Turchia decisamente coinvolta, nessun soldato tedesco invece sarà impiegato nella missione. Dopo il no del cancelliere Angela Merkel, in attesa del pronunciamento del parlamento, è il ministro degli esteri Frank Walter Steimeier a ribadirlo. Così la Germania invierà in Libano solo «una robusta forza navale, per controllare la fornitura di armi al Libano via mare». Nel paese il dibattito s’è incentrato sulla opportunità o meno di inviare soldati che si sarebbero potuti trovare ad aprire il fuoco contro militari israeliani, risvegliando i fantasmi della seconda guerra mondiale.
Restando in Europa – che dovrebbe vedere almeno dodici paesi disponibili a contribuire al contingente militare – il primo ministro spagnolo José Luis Zapatero sta cercando di ottenere il più ampio sostegno delle forze politiche per quella che il suo ministro della difesa ha definito «una delle missioni più complicate in una delle zone più complicate del pianeta». Stretto tra il Partito Popolare e Izquierda Unida, sarà lo stesso Zapatero a dover riferire in parlamento entro il 25 luglio prossimo. Secondo fonti governative il contingente sarà di circa 700 soldati. Mentre la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, già ampliamente esposti in Afghanistan e Iraq, dovrebbero limitarsi a operazioni di supporto.
Intanto solo ieri lo stesso Malloch Brown ha rivolto un appello urgente ai paesi europei affinché forniscano in tempi brevi le truppe necessarie.

Thursday, August 17, 2006

L’emergenza mondiale dell’acqua non risparmia neanche i paesi ricchi

L’emergenza mondiale dell’acqua non risparmia neanche i paesi ricchi
L’allarme, lanciato dal Wwf nel rapporto “Rich countries, Poor water”, arriva alla vigilia della “Settimana mondiale dell’acqua” indetta dal 20 al 26 agosto. Per l’International Water Management Institute l’uso delle risorse idriche è aumentato di 6 volte negli ultimi 100 anni e dovrebbe raddoppiare entro il 2050.
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO 17 AGOSTO 2006
Anche i paesi ricchi sono toccati dalla crisi mondiale dell’acqua.
L’allarme, lanciato dal Wwf, che ha diffuso il rapporto “Rich countries, Poor water”, arriva alla vigilia della “Settimana mondiale dell’acqua” indetta dal 20 al 26 agosto a Stoccolma.
Secondo l’organizzazione ecologista, il fenomeno ha assunto dimensioni globali e non risparmia nessuno. «La ricchezza economica non si traduce in abbondanza d’acqua – commenta Jamie Pittock, del Wwf – scarsezza e inquinamento stanno diventando sempre più comuni, e la responsabilità di affrontare il problema grava sia sulle nazioni ricche sia su quelle povere». Molteplici e di diversa natura, le cause. Dai cambiamenti climatici alla siccità, dalla scomparsa delle zone umide alla cattiva gestione delle risorse. O la carenza di infrastrutture idriche a fronte di una domanda ormai fuori controllo.
Così ad essere coinvolti, oltre a paesi come la Spagna e l’Australia (il continente più arido del pianeta), sono anche aree per tradizione meno sensibili al problema, come alcune zona della Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone.
«La vecchia retorica dell’equazione Africa uguale siccità – dichiara Michele Candotti, segretario generale del Wwf Italia – è ora largamente ma tristemente superata dai dati che provengono da Australia, America, Europa e anche dall’Italia.
La recente crisi idrica del bacino del Po, ed i danni subiti da cittadini ed agricoltori, devono farci riflettere ed imporre un’attenzione ed un senso d’urgenza senza precedenti nella gestione dei bacini fluviali e del territorio».
E se in Australia a preoccupare è la salinizzazione delle falde e dei terreni, o in vaste zone degli Stati Uniti si fa un uso d’acqua che supera di molto la soglia di sostenibilià, nei paesi mediterranei la crisi è invece acuita dal turismo di massa e dal boom delle tecniche d’irrigazione usate in agricoltura.
«I paesi ricchi – si legge nel rapporto – devono attuare cambiamenti drastici nelle loro politiche se vogliono evitare la crisi che sta riguardando le nazioni più povere». Il Wwf propone diverse strategie: bilanciare i consumi con la tutela dell’ambiente; cambiare radicalmente l’atteggiamento verso la “protezione” dell’acqua; riparare le infrastrutture obsolete; preservare i bacini idrici; aumentare i prezzi agli agricoltori; diminuire la contaminazione; studiare di più i sistemi idrici.
Le politiche dovrebbero partire dalle città del “primo mondo” sotto accusa, come Houston o Sidney, dove il consumo di acqua è nettamente superiore al ritmo di ricostruzione delle riserve, o come Londra dove la cattiva rete di distribuzione porta alla dispersione dell’equivalente di trecento piscine olimpiche al giorno. D’altra parte nelle previsioni dei demografi entro il prossimo anno la maggioranza della popolazione mondiale andrà a vivere nelle aree urbane, dunque il ruolo delle metropoli (e delle megalopoli) sarà sempre più determinante.
Tutto questo mentre l’emergenza già c’è.
Secondo le Nazioni Unite, più di un miliardo di persone non hanno accesso all’acqua, mentre due miliardi e seicento milioni subiscono conseguenze sanitarie legate ad un «peggioramento della qualità» (Un Water Development Report).
Naturalmente la maggior parte vive nei paesi più poveri.
Secondo l’International Water Management Institute, organizzazione con sede in Sri Lanka finanziata dai centri internazionali di ricerca delle compagnie agricole, la carenza d’acqua sta aumentando più velocemente del previsto. Globalmente l’uso delle risorse idriche è aumentato di sei volte negli ultimi cento anni e dovrebbe raddoppiare ancora entro il 2050. L’agricoltura e le tecniche impiegate, inciderebbero dell’80 per cento. «Bisogna reinventare l’irrigazione», dichiara Frank Rijsberman, direttore generale dell’Iwmi.
Così la mancanza di acqua in Asia e Australia, che affliggerebbe un miliardo e mezzo di persone, sarebbe provocata da un eccessivo uso dell’acqua dei fiumi. In Africa, dove l’acqua ci sarebbe pure, il problema è che mancano le infrastrutture per portarla alla popolazione.
Un altro punto su cui lavorare è il prezzo dell’acqua stessa.
In questo senso, il Wwf suggerisce che i paesi ricchi paghino di più la risorsa necessaria per la propria agricoltura.
Secondo l’Iwmi, la crescita della domanda conseguente ad un probabile miglioramento della qualità della vita di paesi come Cina e India, dovrebbe portare ad un aumento del prezzo dell’acqua imbottigliata (già ai livelli di quello del petrolio).
Solo agendo sui prezzi si dovrebbe poter soddisfare l’incremento della richiesta di cibo sulla Terra, stimato al 5o per cento nei prossimi venti anni.

La lotta al terrorismo deve necessariamente bloccare gli aeroporti?

David Frum sul Foglio ribalta il problema.
Le agenzie governative agiscono sulla base del presupposto che chiunque potrebbe essere un terrorista, e che la minaccia non può in alcun modo essere prevista. Ma questo è un presupposto falso e ingannevole. E la domanda che i viaggiatori si potrebbero fare, mentre aspettano ore in coda, è questa: che prezzo siamo disposti a pagare come indivisui e come società per tenere in piedi una menzogna?

Thursday, August 10, 2006

Se l’Europa è equivicina, l’America è amica d’Israele senza se e senza ma

USAI SONDAGGI MOSTRANO CHE LA MAGGIOR PARTE DEGLI AMERICANI APPOGGIA LE POLITICHE DI TEL AVIV IN MEDIO ORIENTE. PIÙ TIEPIDI GLI EUROPEI
Se l’Europa è equivicina, l’America è amica d’Israele senza se e senza ma

di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, giovedì 10 agosto 2006

Nonostante il deciso riavvicinamento degli ultimi tempi tra Stati Uniti ed Europa, permane, per dirla con l’Economist, un «transatlantic divide » sul sostegno alle politiche d’Israele. Con gli americani molto più inclini a concedere il beneficio del dubbio a Tel Aviv o a condannare Hezbollah, e gli europei impegnati a discutere sulla proporzionalità dell’uso della forza da parte del governo Olmert.
Così la stessa domanda che suona legittima a Londra o a Parigi, sembra perdere di senso al di là dell’Atlantico dove, a fine luglio, secondo sondaggi Usa Today/Gallup, otto americani su dieci consideravano la risposta militare israeliana giustificata.
Per non parlare delle posizioni sul conflitto israelo- palestinese. Qui, almeno a giudicare da ricerche come quelle del non allineato Pew Research Center, i dati sono speculari. Se quasi la metà degli americani simpatizza con Israele e solo il 13 per cento con i palestinesi, in paesi come la Spagna il 9 per cento sta con Israele e il 32 con i palestinesi. Il sostegno dell’establishment va persino oltre quello dei cittadini. Al Congresso le recenti risoluzioni bipartisan di condanna ad Hezbollah e di sostegno ad Israele sono passate con percentuali bulgare: 410 voti contro 8 alla camera dei rappresentanti e senza alcun oppositore al senato.
«Perché l’America è molto più pro-Israele che l’Europa?», si chiede dunque il settimanale inglese.
Lobby potenti a Washington, e influenza crescente della destra cristiana, le due risposte principali.
Ecco dunque l’Aipac, l’American-Israel Public Affairs Commettee, la lobby seconda per influenza solo a quella dei pensionati, 50 milioni di dollari di budget annuale, 200 persone nello staff e 100 mila membri.
In questi giorni sul suo sito campeggia la scritta rossa su sfondo nero “Emergency Call to Action – Israel is at war”. Ma non solo.
Oltre all’Aipac, le due più grandi e influenti organizzazioni sono l’Anti-Defamation League (Adl) e l’American Jewish Committe (Ajc). Il giornalista radiofonico (ebreo ed antisionista) Jeffrey Blankfort, in un’inchiesta ne ha contate sessanta, di cui «52 appartengono alla Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane», che è considerata la voce della comunità ebraica americana.
«Nel campo della politica estera, scrive lo stesso Blankfort, nessuna lobby si è dimostrata tanto potente quanto l’organizzata comunità ebraica americana, che agisce in appoggio a Israele. Essa di solito viene chiamata la lobby israeliana, e nei corridoi del Congresso, semplicemente, “the lobby”».
Se Blankfort – attivista per i diritti umani dei palestinesi dal 1970, nel febbraio 2002 vinse una causa contro l’Anti-Defamation League accusata di spionaggio nei suoi confronti – può essere facilmente considerato un personaggio troppo di parte, non altrettanto si può dire di Stephen Walt e John Mearsheimer.
I due, esponenti del “realismo politico”, nello studio “The Israel Lobby and Us Foreign Policy” pubblicato online nel marzo scorso e ripreso recentemente da Foreign Policy, sostengono che gli interessi americani in Medio Oriente vengono messi sistematicamente in secondo piano rispetto a quelli di Israele.
Che l’intreccio tra Tel Aviv e Washington avvenne nel 1967, in occasione della “guerra dei sei giorni”, quando alla Casa Bianca realizzarono le potenzialità di Israele in funzione geopolitica contro l’Unione Sovietica, allora padrona in Medio Oriente. Che gli ebrei americani siano una cosa e le élite che dirigono l’Apaic o le lobby minori, un’altra. Che i primi, siano propensi a fare concessioni ai palestinesi, o contrari alla guerra in Iraq, in linea con l’orientamento dell’elettorato progressista di cui storicamente fanno parte (risultando in genere i maggiori finanziatori del partito democratico), essendo per tradizione i repubblicani isolazionisti.
Le tesi controverse di Walt e Mearsheimer, vennero criticate duramente da filo-sionisti, come era lecito aspettarsi, ma anche dalla sinistra americana.
Fu Noam Chomsky su tutti, a ribaltare le tesi di fondo e a sostenere che i veri motori del processo non erano le lobby, il cui potere è sovrastimato, ma le grandi corporation. Il dibattito ebbe l’effetto collaterale di indebolire il fronte degli intellettuali di sinistra, come l’ambiente universitario, già fiaccato da iniziative come quelle del neocon Daniel Pipes, che nel 2002 ha aperto il sito web CampusWatch da dove gli studenti, in un clima che alcuni hanno defi- nito maccartista, denunciano i professori “ostili” a Israele.
Poi, come detto, ad alimentare il sostegno americano alla causa israeliana c’è la destra cristiana. «Più della metà dei bianchi evangelici si dice fortemente simpatizzante», scrive l’Economist. Due su cinque credono che lo stato d’Israele sia stato dato agli ebrei da Dio. Così gli attivisti stanno cercando di convertire tale simpatia in vero e proprio sostegno politico. È il caso di John Hagee, telepredicatore evangelico texano che recentemente ha fondato i “Christians United for Israel” e lo scorso luglio ha portato 3500 “cristiano sionisti” a Washington per manifestare contro Hezbollah. Gli stessi, rappresentati a Washington dal lobbista David Borg, ex capo dello staff del senatore repubblicano Arlen Specter, avrebbero recentemente incontrato esponenti della Casa Bianca.
Secondo la rivista progressista The Nation, per «fare pressione in funzione di atteggiamento più aggressivo verso l’Iran, rifiutare ogni aiuto ai palestinesi, e dare mano libera ad Israele contro Hezbollah». È la «politica estera fondata sull’Armageddon», ironizza ma neanche troppo The Nation, alludendo alla visione di John Hagee.
Che come tutti i telepredicatori ha le idee molto chiare. Quello che in genere emerge meno, è il fatto che il sostegno di tali gruppi fondamentalisti evangelici (da molti osservatori considerati decisivi nella rielezione di George W. Bush) alla causa d’Israele, è funzionale alla realizzazione del proprio, ed esclusivo, disegno messianico. Che a grandi linee, prevede, una volta conquistata tutta la terra santa da parte degli ebrei, la loro conversione in cristiani.

Wednesday, August 09, 2006

Charles Kupchan: «Multilateralisti, ma non per scelta»

GLI USA E IL MEDIO ORIENTE Intervista a Charles Kupchan, del Council on Foreign Relations di Washington
«Multilateralisti, ma non per scelta»
Il ritrovato asse Washington-Parigi è frutto delle circostanze, e il ricorso dell’amministrazione Bush al “vituperato” Palazzo di Vetro esprime un multilateralismo dettato dalle necessità. Il Nuovo Medio Oriente, ventilato da Rice, potrebbe trasformarsi in una regione con democrazie difettose e popoli divisi su criteri etnici.
di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano mercoledì 9 agosto 2006

Non si fa molte illusioni Charles Kupchan, direttore degli studi europei al Council on Foreign Relations di Washington.
Il ritrovato asse Washington-Parigi è frutto delle circostanze, e il ricorso dell’amministrazione Bush al vituperato Palazzo di Vetro è un multilateralismo dettato dalle necessità, piuttosto che una visione politica.
Francia e Stati Uniti dopo anni di contrasti e dissapori, sulla crisi libanese hanno ritrovato una linea comune. È luna di miele?
I due paesi hanno spesso collaborato in passato nelle faccende interne a Beirut, come il ritiro della Siria, o le inchieste sull’assassinio del premier Hariri. Ora questa ritrovata armonia è un prodotto di differenti fattori. Primo. Della volontà di Jacques Chirac di recuperare consensi dopo diversi problemi interni e scandali. Secondo. Washington ha estrema necessità di aiuti esterni nella gestione della crisi, essendo troppo esposta in Iraq.
La proposta francese della guida di una forza di peacekeeping è dunque benvenuta. Terzo. Se in un primo momento gli Stati Uniti avevano manifestato un aperto sostegno all’azione militare di Israele, ora, dopo episodi come la strage di Cana la situazione è cambiata. Washington spinge più decisa per un cessate il fuoco, deve fare i conti con l’opinione pubblica dei paesi musulmani, e con un montante sentimento contrario alla guerra e antiamericano.
Cosa pensa della decisione americana di coinvolgere le Nazioni Unite? Èun ritorno al multilateralismo bocciato dalla prima amministrazione Bush? O il frutto del pragmatismo del segretario di stato, Condoleezza Rice?
Entrambe le cose sono vere. Innanzitutto in questo contesto era praticamente impossibile non tenere conto dell’Onu, con, tra le altre cose, la missione Unifil impegnata sul terreno. Ma il punto è che gli Stati Uniti storicamente ricorrono alle Nazioni Unite quando non devono guidare in prima persona gli interventi.
Questo è il caso del Libano. D’altro canto l’unilateralismo portato avanti sull’Iraq ha prodotto risultati drammatici. Il cambiamento della strategia è dunque frutto di un nuovo pragmatismo, più che di un mutamento ideologico dell’amministrazione Bush. Inoltre gli Stati Uniti sono troppo esposti nella regione, non hanno altra scelta che ricorrere ad un approccio multilaterale, sia nella crisi libanese che nella questione nucleare con l’Iran. Non possono che lavorare in vista di risoluzioni condivise, eppoi cedere la leadership militare e diplomatica. Di qui ad un ritorno ideologico al multilateralismo però ce ne corre.
A proposito di Iran, come comportarsi alla luce dell’intervento d’Israele in Libano? Oggi la situazione è più chiara che in passato. Gli attori sono sulla scena. Un governo sciita in Iraq, l’Iran che ha una leadeship netta nel mondo islamico, gli Hezbollah guidano la battaglia contro Israele. Ora non credo sia possibile prescindere da una ricerca del dialogo con Teheran, ha un ruolo troppo importante.
Quello che colpisce nella gestione della crisi, è un certo distacco da parte di Washington, quasi una rinuncia al ruolo attivo nella costruzione della pace, ruolo tradizionale nella questione israelo-palestinese. Siamo di fronte ad un inedito vuoto politico della diplomazia americana?
Concordo che il ruolo da mediatore sia diminuito. Oggi, nel contesto israelo-palestinese, gli Stati Uniti sono meno coinvolti che nel passato. Non hanno inviati speciali. Il presidente non ha un ruolo preminente nel perseguire accordi di pace. Nessun ascendente diretto sui tre attori chiave della crisi, Hezbollah, Iran, e Siria.
In questo senso la diplomazia americana è decisamente molto meno incisiva. Poi non va trascurato che le forze militari, regolarmente sotto pressione in Iraq e in Afghanistan, non hanno energie da impiegare in una eventuale politica di peacemaking.
C’è una questione che è sembrata tornare più volte in questi giorni, quella del Kosovo. Dei Balcani si è parlato quando è stata ipotizzata una missione in Libano a guida Nato. Olmert stesso ha citato la guerra nell’ex Jugoslavia. Lei in un suo articolo di fine 2005 su Foreign Affairs parlò di necessità di arrivare all’indipendenza del Kosovo albanese dalla Serbia. Di dover rinunciare al principio della multietnicità a favore della stabilità.Ecco, come vede tale dinamica rispetto allo scenario mediorientale?
Io penso che permettere la separazione etnica sia l’ultima delle risorse. Che sia di gran lunga preferibile uno stato multietnico, multireligioso e multiculturale. Ma nel caso del Kosovo tutti i tentativi di preservare una società multietnica, alla prova dei fatti, sono falliti. E questo è anche il caso dell’Iraq. Dove sarebbe preferibile permettere ai diversi gruppi etnici di vivere insieme, ma dove la realtà dei fatti, la violenza crescente, la difficoltà delle forze di polizia a mantenere l’ordine, fanno pensare che sia arrivato il momento di puntare ad una confederazione su base etnica.
Secondo lei il «Nuovo Medio Oriente» di cui ha parlato Condoleezza Rice prevede tale epilogo?
Non credo, credo che ciò di cui parla la Rice sia esattamente l’opposto, democrazie liberali, costituzioni, freepress, multietnicità.
Ma io ho paura che quello a cui andremo incontro, dopo la guerra in Iraq, la guerra in Libano, l’eventuale crisi iraniana, sia lo sviluppo di una regione con democrazie difettose e popoli divisi. Il che sarebbe molto pericoloso.

Tuesday, August 08, 2006

Nel duello Lieberman-Lamont si disegna il Partito democratico delle presidenziali 2008

CONNECTICUTNELLE PRIMARIE PER LA SCELTA DEL CANDIDATO ALLE ELEZIONI DI MIDTERM, SI SCONTRANO UN MODERATO E UN OUTSIDER SOSTENUTO DALL’ALA LIBERAL
Nel duello Lieberman-Lamont si disegna il Partito democratico delle presidenziali 2008
di STEFANO BALDOLINI
Europaquotidiano martedi 8 agosto 2006

Oggi si vota in Connecticut per scegliere il candidato dei democratici al senato alle elezioni del prossimo novembre, le cosiddette mid-term che ridisegneranno il Congresso, ora a maggioranza repubblicana.
A sfidarsi, le due componenti principali del partito dell’asinello. Da un lato i moderati, rappresentati dal senatore uscente Joe Lieberman, già candidato alla vicepresidenza da Al Gore nel 2000 e sfidante indipendente di George W. Bush nel 2004, dall’altro i liberal, che appoggiano un outsider, l’uomo d’affari Ned Lamont.
Dovrebbe trattarsi di un normale turno di primarie, ma così non è. Basta leggere i giornali più influenti del paese, con il Washington Post che non esita a parlare di «spartiacque» politico, e il New York Times di «battaglia per l’anima del partito democratico». E il fatto che le forze impegnate siano guidate da personaggi decisamente atipici non sembra indebolire la tesi di uno scontro epocale. Per dirla con il Guardian, si tratta del «meno affidabile» dei democratici «per il più affidabile dei seggi» (il Connecticut è considerato uno stato sicuro), contro un candidato costruito, per così dire, in provetta e a caccia del risentimento anti Bush.
Con la visione bipartisan del primo, attivo sostenitore dell’intervento in Iraq (fu uno dei 29 senatori democratici che votarono la missione), destinata a soccombere al radicalismo antiwar del secondo, sostenuto da movimenti web come MoveOn, che dal canto loro, forti dell’esperienza Howard Dean, si affermano sempre più come king-maker nella politica americana.
Tutto questo è sufficiente per fare del voto di oggi una questione nazionale.
Così per ribaltare i pronostici, Joe Lieberman, 64 anni, laureato a Yale in legge, veterano di Washington ma assai meno noto nell’America profonda, ha passato gli ultimi giorni della campagna elettorale a prendere le distanze da George W. Bush, e a definire bugiardo l’avversario che dal canto suo aveva lavorato sodo per affibbiargli l’etichetta di uomo del presidente.
«Io sono stato l’unico democratico americano a correre due volte contro George W. Bush in elezioni nazionali», è stato il suo mantra difensivo, che gli ha fatto comunque recuperare terreno nei sondaggi, e rimontare di tre punti, passando da un drammatico 41 per cento contro 54 della scorsa settimana (fonti Quinnipiac), al 45 per cento contro 51 di ieri.
Strano destino, quello del figlio di uno cresciuto in orfanotrofio, poi fattorino di una panetteria, che rischia di venire spazzato via da un miliardario sconosciuto ai più. Già, perché solo tre mesi fa, il 91 per cento dei democratici dichiaravano di non conoscere Ned Lamont, 52 anni, patrimonio personale stimato di circa 300 milioni di dollari, a capo di una società per impianti di telecomunicazioni, sposato con una venture capitalist ed erede di Thomas Lamont, il bisnonno presidente della Morgan Bank.
Scrive il Washington Post che una vittoria di Lamont finirebbe per ridisegnare la politica di sicurezza nazionale di un eventuale candidato alla Casa Bianca. Che con il suo successo, dovrebbero essere in molti a fare i conti, da Hillary Clinton, recentemente contestata per il suo appoggio alla guerra, ad Al Gore, fresco di attivismo neo-green e a suo tempo contrario all’intervento militare.
Questo ultimo potrebbe addirittura riconsiderare l’ipotesi di una candidatura.
Intanto non pochi repubblicani auspicano una affermazione di Lamont e uno spostamento su posizioni radicali dei loro avversari. «Vogliono ritirarsi, “sotto la maschera” della riduzione delle truppe in Iraq», scrive William Kristol nell’ultimo numero del Weekly Standard.
Il tempo stabilirà se la rappresentatività a scala nazionale del Connecticut, per tradizione democratico e dall’elettorato “garbato”, sia stata in questi giorni sovrastimata, ma il voto di oggi potrebbe portare un altro elemento importante al dibattito politico.
Dalle urne potrebbe infatti uscire l’embrione di quel terzo polo centrista auspicato da più parti e in diversi momenti della storia americana.
Lieberman ha infatti annunciato per tempo che in caso di sconfitta, alle elezioni di mid-term si presenterà da solo.
È un’eventualità non da poco, se si considera che nel Connecticut, su due milioni e centomila votanti, circa 942 mila (pari al 45 per cento) non sono affiliati ad alcun partito. Si tratta della maggioranza – se confrontata ai circa 700 mila militanti democratici e ai 456 mila repubblicani – una “miniera”, da cui estrarre consenso a piene mani.
Solo lo scorso gennaio, Alan Greenspan, poco prima di lasciare la presidenza della Federal Reserve, parlò di una frattura ideologica irreparabile che divide i conservatori del partito repubblicano dai liberal del partito democratico. Di uno spazio al centro dello schieramento politico per un eventuale candidato indipendente con adeguate capacità finanziarie e organizzative.
Da presentare nel 2008, o magari nel 2012. Anche sotto quest’ottica, le primarie del Connecticut sembrano un laboratorio interessante.

Friday, August 04, 2006

N.Va. Prisoner Lost in Translation

N.Va. Prisoner Lost in Translation
Spanish-Speaking Inmate Jailed 2 Months After Case Is Closed

By Theresa Vargas
Washington Post Staff Writer
Friday, August 4, 2006; Page A01

The man had been there before, wandering around the second floor of the Prince William County courthouse, his face a mask of worry.

No one knew how often he had come or to whom he had talked. But Kerry Kaiser, a clerk who sits at an information desk in front of the elevators, knew she'd seen him. She thought she might even have talked to him once, briefly, before the day when she really listened to what he said to her in Spanish.

Wp

Data Show Minorities' Movement To Majority

Data Show Minorities' Movement To Majority

By Lyndsey Layton and Dan Keating
Washington Post Staff Writers
Friday, August 4, 2006; Page B01

In a region that began the decade with a largely white population, five of six new residents in the Washington area since 2000 have been people of color, according to data released today by the U.S. Census Bureau.

Racial and ethnic changes have been particularly vivid in outer suburbs such as Prince William County, where the number of Hispanics more than doubled between 2000 and 2005. Hispanics overtook blacks as that county's largest minority group. In Frederick County, the Hispanic population doubled, and in Loudoun County, the Asian population quadrupled.

Wp

Cuba, le biografie e la realtà è di guerra

Guido Moltedo su Europa del 3 agosto 2006

Via consulenti, coCommissioni e matite La stagione dei tagli ai ministeri

LA QUESTIONE DI FIDUCIA

ANDREA MANZELLA sulla Repubblica

Se la democrazia manda al potere anche i terroristi

Una democratizzazione parziale e incompleta può aumentare il rischio di belligeranza. Ciò che dovremmo fare noi, nella comunità mondiale delle democrazie liberali consolidate, è non abbandonare il perseguimento della democratizzazione, ma perfezionarlo. Dovremmo riconoscere che soltanto in circostanze eccezionali (come nella Germania e nel Giappone del dopoguerra) le democrazie vengono effettivamente alla luce sotto occupazione militare, e che l´obiettivo di far nascere la democrazia di per sé non legittima un intervento militare. Dovremmo ammettere che, come ha scritto di recente il dissidente iraniano Akbar Ganji sul New York Times, è meglio che i popoli trovino da soli il loro cammino verso la libertà, mentre nostro dovere è quello di aiutarli nel modo in cui vogliono essere aiutati. Dovremmo imparare dall´esperienza che un sicuro monopolio della violenza organizzata, le frontiere ben controllate, la legalità e i mezzi indipendenti di informazione sono tanto importanti quanto le elezioni, e potrebbe essere necessario che venissero prima di esse. Dovremmo imparare che lungo la strada si devono condurre trattative con alcune persone o regimi davvero sgradevoli, come Siria e Iran. E dovremmo ricordare che in questo sporco e complicato vecchio mondo gli ex fautori della lotta armata e persino chi la pratica - i terroristi, se si vuole - possono diventare leader democratici. Come Menachem Begin. Come Gerry Adams. Come Nelson Mandela. Cerchiamo quindi di non buttare il bambino/democratizzazione con l´acqua del bagnetto/Bush. Siamo in presenza di un´idea eccellente, che deve soltanto essere tradotta in realtà meglio, e con pazienza, e a lungo raggio. La conclusione esatta di questo ragionamento, pertanto, è strana ma vera: un po´ di democrazia è un pericolo. Assicuriamocene quindi molta di più. (Traduzione di Anna Bissanti)
Timothy Garton Ash su Repubblica

Thursday, August 03, 2006

A girl's best friend? Try plasma

Diamonds are no longer a girl's best friend, according to a new U.S. study finding that three-fourths of women would prefer a new plasma TV to a diamond necklace.

The survey, commissioned by women-centric cable TV network Oxygen Media, found that the technology gender gap has virtually closed, with the majority of women snapping up new technology and using it handily.

cnet

La legge del petrolio

Più petrolio uguale meno libertà d'espressione, meno libertà di stampa, meno stato di diritto. Insomma, meno democrazia. E'la tesi dell'economista americano Thomas Friedman su Foreign Policy e riportato su Internazionale 652 del 28 luglio 2006

Wednesday, August 02, 2006

Riparte il dialogo con la Libia

Gerardo Pelosi sul Sole 24ore

Tra gli ebrei di Roma, stavolta bnon siamo soli

Giacomo Galeazzi sulla Stampa

CArlo, il primo a tornare libero

Attilio Bolzoni su Repubblica

Cocaina à la carte

Fabrizia Bagozzi su Europa

Tuesday, August 01, 2006

Nielsen Brings a New Marketing Strategy to Broadway

August 1, 2006
Nielsen Brings a New Marketing Strategy to Broadway
By CAMPBELL ROBERTSON

“Wicked” is a show for 14-year-old girls. At least that’s what everybody on Broadway was saying. So one of the show’s producers, David Stone, decided to hire a relatively new research firm called Live Theatrical Events to find out if the assumption was true.

The firm springs from a surprising source: Nielsen. Yes, Nielsen, as in television’s Nielsen ratings. Live Theatrical Events is the product of a partnership between Nielsen National Research Group, or NRG, a corporate cousin of Nielsen’s television-rating unit, and Broadway.com, the ticketing and theater news Web site.

Using Hollywood-style data mining techniques and the Internet to contact hundreds of thousands of theatergoers, Live Theatrical Events is changing the way shows are marketing themselves, on and off Broadway. And its managing director, Joseph Craig, who has a long history in the film industry, is quietly becoming a sought-after player in New York theater.

Nytimes