Wednesday, August 23, 2006

Come si racconta un conflitto. Arabi più informati degli americani?

MEDIA  NETWORK COME AL-JAZEERA HANNO MESSO AL BANDO L’USO DI UNA RETORICA “POLARIZZANTE”
Come si racconta un conflitto. Arabi più informati degli americani?

di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO 22 AGOSTO 2006

Parte da un paradosso Lawrence Pintak, ex corrispondente dal Medio Oriente della Cbs, oggi direttore dell’Adham Center for Electronic Journalism all’American University del Cairo.
Che sul conflitto tra Israele ed Hezbollah, il mondo arabo sia più informato del popolo americano.
Che la copertura mediatica dei grandi network arabi, unita a quella dei media occidentali, entrambi accessibili via satellite, garantisca una molteplicità di punti di vista, uno “spettro” di prospettive, sconosciuto ai cittadini degli Stati Uniti, della democrazia più avanzata del mondo. Non è una cosa da poco. Ma andiamo con ordine.
Come è stata raccontata la seconda guerra libanese dai media arabi?
La cosa interessante è che emittenti come Al-Jazeera o Al-Arabiya hanno messo al bando l’uso di una retorica “polarizzante”. Proibendo parole come “strage”, “terroristi”, “aggressioni”. L’hanno fatto per evitare di essere strumentalizzate, per apparire neutrali nella copertura del conflitto. Ma anche perché era conseguenza della loro politica editoriale. Inizialmente, infatti, i paesi del Golfo erano critici verso Hezbollah ed erano interessati a non alimentare il conflitto. Poi, con il progredire della guerra, le cose sono un po’ cambiate ma in generale, comunque, hanno offerto una copertura equilibrata.
In una recente intervento alla Nbc lei ha parlato di uno “spettro dei media” arabi a fronte di un “ghetto informativo” americano: cosa voleva dire? Che i popoli arabi sono più liberi degli americani?
Non arrivo a dire che sono più liberi, ma è vero che hanno maggior accesso a punti di vista differenti rispetto al pubblico americano. Qui al Cairo, per esempio dalla mia tv, posso vedere tutti i canali arabi, tutti i canali europei e tutti gli americani.
Ossia posso avere uno spaccato più esteso della vicenda. In America tu non vedi altre prospettive che quella americana.
Certo, nei media arabi, Israele rimane il “bad guy”, il cattivo. Però si tenta di riportare la complessità della regione, della politica libanese. Questo non avviene per esempio nei canali nazionali americani.
Un esempio della carenza del dettaglio è la mancata differenziazione degli obiettivi sunniti da quelli sciiti. Per l’americano medio, Osama bin Laden, sunnita, ha lo stesso obiettivo di un Nasrallah, sciita. Lo stesso conflitto libanese è visto come una guerra tra Israele e i musulmani, senza nessuna differenziazione. Tutto ciò non può non avere ripercussioni nella percezione generale della politica estera di Washington.
A Cana muoiono civili arabi per mano d’Israele. In Iraq arabi sunniti vengono uccisi da arabi sciiti. I due fatti vengono raccontati alla stessa maniera dai media locali? Decisamente no. Perché in un certo senso ciò che accade in Libano, o in Palestina, è visto dalla prospettiva araba come un conflitto “bianchi contro neri”: gli israeliani sono i cattivi e via dicendo.
In Iraq invece le cose sono più complicate, perché le vicende arabe, musulmane, s’intrecciano dal punto di vista emozionale. Quello che in alcuni momenti emerge è la rabbia verso gli americani che non riescono a chiudere la partita irachena, ma non si può parlare di una narrazione semplificata.
Lei era inviato nella prima guerra del Libano, nel 1982. Al-Jazeera nasce nel 1996, quattordici anni dopo. Quali sono le differenze tra la copertura mediatica di allora e quella odierna?
Ce ne sono da entrambe le parti. Quella attuale americana è molto più semplicistica, ed “urlata”. I canali all news, con la loro programmazione 24 ore su 24, costringono di fatto a una banalizzazione del racconto, a una caduta negli stereotipi e a un abuso di retorica. Allora avevamo più tempo per riportare una storia, per approfondirla, per pensare con attenzione a cosa dire, alle ricadute del linguaggio usato. D’altra parte, però, anche lo scenario dei media arabi è radicalmente cambiato. Allora le emittenti erano controllate e manipolate dai governi, non si poteva parlare di libera informazione.
Anche la guerra in Libano ha visto i giornalisti sotto tiro. Lei ha invocato una legge internazione che metta al bando gli attacchi contro i media.
È vero. Sono stati distrutti torri di trasmissione tv e attaccati convogli di giornalisti nel sud del Libano.
Sono due fatti emblematici: i giornalisti sono diventati degli obiettivi militari. Chiedevo un gesto simbolico, non intendevo una procedura formale. Ma qualcosa bisogna fare. Si presume che durante un conflitto i giornalisti possano fare il proprio lavoro e siano indipendenti, non un’arma o un obiettivo militare.
Cosa dicono i media arabi della missione Onu?
Sono molto scettici. Sono rimasti scottati dalla presenza insignificante della missione Unifil nel sud del paese.
Un ultimo punto: come hanno raccontato della passeggiata del nostro ministro degli esteri D’Alema, a braccetto con il deputato di Hezbollah per le macerie di Beirut? Non ne ho sentito parlare. Quando è accaduto? Circa una settimana fa. Davvero non ne ha sentito parlare? Qui in Italia ha fatto molto scalpore.
No, davvero. Non ne sapevo niente. Non mi sembra ne abbia parlato nessuno.

0 Comments:

Post a Comment

<< Home