Se l’Europa è equivicina, l’America è amica d’Israele senza se e senza ma
USAI SONDAGGI MOSTRANO CHE LA MAGGIOR PARTE DEGLI AMERICANI APPOGGIA LE POLITICHE DI TEL AVIV IN MEDIO ORIENTE. PIÙ TIEPIDI GLI EUROPEI
Se l’Europa è equivicina, l’America è amica d’Israele senza se e senza ma
di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, giovedì 10 agosto 2006
Nonostante il deciso riavvicinamento degli ultimi tempi tra Stati Uniti ed Europa, permane, per dirla con l’Economist, un «transatlantic divide » sul sostegno alle politiche d’Israele. Con gli americani molto più inclini a concedere il beneficio del dubbio a Tel Aviv o a condannare Hezbollah, e gli europei impegnati a discutere sulla proporzionalità dell’uso della forza da parte del governo Olmert.
Così la stessa domanda che suona legittima a Londra o a Parigi, sembra perdere di senso al di là dell’Atlantico dove, a fine luglio, secondo sondaggi Usa Today/Gallup, otto americani su dieci consideravano la risposta militare israeliana giustificata.
Per non parlare delle posizioni sul conflitto israelo- palestinese. Qui, almeno a giudicare da ricerche come quelle del non allineato Pew Research Center, i dati sono speculari. Se quasi la metà degli americani simpatizza con Israele e solo il 13 per cento con i palestinesi, in paesi come la Spagna il 9 per cento sta con Israele e il 32 con i palestinesi. Il sostegno dell’establishment va persino oltre quello dei cittadini. Al Congresso le recenti risoluzioni bipartisan di condanna ad Hezbollah e di sostegno ad Israele sono passate con percentuali bulgare: 410 voti contro 8 alla camera dei rappresentanti e senza alcun oppositore al senato.
«Perché l’America è molto più pro-Israele che l’Europa?», si chiede dunque il settimanale inglese.
Lobby potenti a Washington, e influenza crescente della destra cristiana, le due risposte principali.
Ecco dunque l’Aipac, l’American-Israel Public Affairs Commettee, la lobby seconda per influenza solo a quella dei pensionati, 50 milioni di dollari di budget annuale, 200 persone nello staff e 100 mila membri.
In questi giorni sul suo sito campeggia la scritta rossa su sfondo nero “Emergency Call to Action – Israel is at war”. Ma non solo.
Oltre all’Aipac, le due più grandi e influenti organizzazioni sono l’Anti-Defamation League (Adl) e l’American Jewish Committe (Ajc). Il giornalista radiofonico (ebreo ed antisionista) Jeffrey Blankfort, in un’inchiesta ne ha contate sessanta, di cui «52 appartengono alla Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane», che è considerata la voce della comunità ebraica americana.
«Nel campo della politica estera, scrive lo stesso Blankfort, nessuna lobby si è dimostrata tanto potente quanto l’organizzata comunità ebraica americana, che agisce in appoggio a Israele. Essa di solito viene chiamata la lobby israeliana, e nei corridoi del Congresso, semplicemente, “the lobby”».
Se Blankfort – attivista per i diritti umani dei palestinesi dal 1970, nel febbraio 2002 vinse una causa contro l’Anti-Defamation League accusata di spionaggio nei suoi confronti – può essere facilmente considerato un personaggio troppo di parte, non altrettanto si può dire di Stephen Walt e John Mearsheimer.
I due, esponenti del “realismo politico”, nello studio “The Israel Lobby and Us Foreign Policy” pubblicato online nel marzo scorso e ripreso recentemente da Foreign Policy, sostengono che gli interessi americani in Medio Oriente vengono messi sistematicamente in secondo piano rispetto a quelli di Israele.
Che l’intreccio tra Tel Aviv e Washington avvenne nel 1967, in occasione della “guerra dei sei giorni”, quando alla Casa Bianca realizzarono le potenzialità di Israele in funzione geopolitica contro l’Unione Sovietica, allora padrona in Medio Oriente. Che gli ebrei americani siano una cosa e le élite che dirigono l’Apaic o le lobby minori, un’altra. Che i primi, siano propensi a fare concessioni ai palestinesi, o contrari alla guerra in Iraq, in linea con l’orientamento dell’elettorato progressista di cui storicamente fanno parte (risultando in genere i maggiori finanziatori del partito democratico), essendo per tradizione i repubblicani isolazionisti.
Le tesi controverse di Walt e Mearsheimer, vennero criticate duramente da filo-sionisti, come era lecito aspettarsi, ma anche dalla sinistra americana.
Fu Noam Chomsky su tutti, a ribaltare le tesi di fondo e a sostenere che i veri motori del processo non erano le lobby, il cui potere è sovrastimato, ma le grandi corporation. Il dibattito ebbe l’effetto collaterale di indebolire il fronte degli intellettuali di sinistra, come l’ambiente universitario, già fiaccato da iniziative come quelle del neocon Daniel Pipes, che nel 2002 ha aperto il sito web CampusWatch da dove gli studenti, in un clima che alcuni hanno defi- nito maccartista, denunciano i professori “ostili” a Israele.
Poi, come detto, ad alimentare il sostegno americano alla causa israeliana c’è la destra cristiana. «Più della metà dei bianchi evangelici si dice fortemente simpatizzante», scrive l’Economist. Due su cinque credono che lo stato d’Israele sia stato dato agli ebrei da Dio. Così gli attivisti stanno cercando di convertire tale simpatia in vero e proprio sostegno politico. È il caso di John Hagee, telepredicatore evangelico texano che recentemente ha fondato i “Christians United for Israel” e lo scorso luglio ha portato 3500 “cristiano sionisti” a Washington per manifestare contro Hezbollah. Gli stessi, rappresentati a Washington dal lobbista David Borg, ex capo dello staff del senatore repubblicano Arlen Specter, avrebbero recentemente incontrato esponenti della Casa Bianca.
Secondo la rivista progressista The Nation, per «fare pressione in funzione di atteggiamento più aggressivo verso l’Iran, rifiutare ogni aiuto ai palestinesi, e dare mano libera ad Israele contro Hezbollah». È la «politica estera fondata sull’Armageddon», ironizza ma neanche troppo The Nation, alludendo alla visione di John Hagee.
Che come tutti i telepredicatori ha le idee molto chiare. Quello che in genere emerge meno, è il fatto che il sostegno di tali gruppi fondamentalisti evangelici (da molti osservatori considerati decisivi nella rielezione di George W. Bush) alla causa d’Israele, è funzionale alla realizzazione del proprio, ed esclusivo, disegno messianico. Che a grandi linee, prevede, una volta conquistata tutta la terra santa da parte degli ebrei, la loro conversione in cristiani.
Se l’Europa è equivicina, l’America è amica d’Israele senza se e senza ma
di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, giovedì 10 agosto 2006
Nonostante il deciso riavvicinamento degli ultimi tempi tra Stati Uniti ed Europa, permane, per dirla con l’Economist, un «transatlantic divide » sul sostegno alle politiche d’Israele. Con gli americani molto più inclini a concedere il beneficio del dubbio a Tel Aviv o a condannare Hezbollah, e gli europei impegnati a discutere sulla proporzionalità dell’uso della forza da parte del governo Olmert.
Così la stessa domanda che suona legittima a Londra o a Parigi, sembra perdere di senso al di là dell’Atlantico dove, a fine luglio, secondo sondaggi Usa Today/Gallup, otto americani su dieci consideravano la risposta militare israeliana giustificata.
Per non parlare delle posizioni sul conflitto israelo- palestinese. Qui, almeno a giudicare da ricerche come quelle del non allineato Pew Research Center, i dati sono speculari. Se quasi la metà degli americani simpatizza con Israele e solo il 13 per cento con i palestinesi, in paesi come la Spagna il 9 per cento sta con Israele e il 32 con i palestinesi. Il sostegno dell’establishment va persino oltre quello dei cittadini. Al Congresso le recenti risoluzioni bipartisan di condanna ad Hezbollah e di sostegno ad Israele sono passate con percentuali bulgare: 410 voti contro 8 alla camera dei rappresentanti e senza alcun oppositore al senato.
«Perché l’America è molto più pro-Israele che l’Europa?», si chiede dunque il settimanale inglese.
Lobby potenti a Washington, e influenza crescente della destra cristiana, le due risposte principali.
Ecco dunque l’Aipac, l’American-Israel Public Affairs Commettee, la lobby seconda per influenza solo a quella dei pensionati, 50 milioni di dollari di budget annuale, 200 persone nello staff e 100 mila membri.
In questi giorni sul suo sito campeggia la scritta rossa su sfondo nero “Emergency Call to Action – Israel is at war”. Ma non solo.
Oltre all’Aipac, le due più grandi e influenti organizzazioni sono l’Anti-Defamation League (Adl) e l’American Jewish Committe (Ajc). Il giornalista radiofonico (ebreo ed antisionista) Jeffrey Blankfort, in un’inchiesta ne ha contate sessanta, di cui «52 appartengono alla Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane», che è considerata la voce della comunità ebraica americana.
«Nel campo della politica estera, scrive lo stesso Blankfort, nessuna lobby si è dimostrata tanto potente quanto l’organizzata comunità ebraica americana, che agisce in appoggio a Israele. Essa di solito viene chiamata la lobby israeliana, e nei corridoi del Congresso, semplicemente, “the lobby”».
Se Blankfort – attivista per i diritti umani dei palestinesi dal 1970, nel febbraio 2002 vinse una causa contro l’Anti-Defamation League accusata di spionaggio nei suoi confronti – può essere facilmente considerato un personaggio troppo di parte, non altrettanto si può dire di Stephen Walt e John Mearsheimer.
I due, esponenti del “realismo politico”, nello studio “The Israel Lobby and Us Foreign Policy” pubblicato online nel marzo scorso e ripreso recentemente da Foreign Policy, sostengono che gli interessi americani in Medio Oriente vengono messi sistematicamente in secondo piano rispetto a quelli di Israele.
Che l’intreccio tra Tel Aviv e Washington avvenne nel 1967, in occasione della “guerra dei sei giorni”, quando alla Casa Bianca realizzarono le potenzialità di Israele in funzione geopolitica contro l’Unione Sovietica, allora padrona in Medio Oriente. Che gli ebrei americani siano una cosa e le élite che dirigono l’Apaic o le lobby minori, un’altra. Che i primi, siano propensi a fare concessioni ai palestinesi, o contrari alla guerra in Iraq, in linea con l’orientamento dell’elettorato progressista di cui storicamente fanno parte (risultando in genere i maggiori finanziatori del partito democratico), essendo per tradizione i repubblicani isolazionisti.
Le tesi controverse di Walt e Mearsheimer, vennero criticate duramente da filo-sionisti, come era lecito aspettarsi, ma anche dalla sinistra americana.
Fu Noam Chomsky su tutti, a ribaltare le tesi di fondo e a sostenere che i veri motori del processo non erano le lobby, il cui potere è sovrastimato, ma le grandi corporation. Il dibattito ebbe l’effetto collaterale di indebolire il fronte degli intellettuali di sinistra, come l’ambiente universitario, già fiaccato da iniziative come quelle del neocon Daniel Pipes, che nel 2002 ha aperto il sito web CampusWatch da dove gli studenti, in un clima che alcuni hanno defi- nito maccartista, denunciano i professori “ostili” a Israele.
Poi, come detto, ad alimentare il sostegno americano alla causa israeliana c’è la destra cristiana. «Più della metà dei bianchi evangelici si dice fortemente simpatizzante», scrive l’Economist. Due su cinque credono che lo stato d’Israele sia stato dato agli ebrei da Dio. Così gli attivisti stanno cercando di convertire tale simpatia in vero e proprio sostegno politico. È il caso di John Hagee, telepredicatore evangelico texano che recentemente ha fondato i “Christians United for Israel” e lo scorso luglio ha portato 3500 “cristiano sionisti” a Washington per manifestare contro Hezbollah. Gli stessi, rappresentati a Washington dal lobbista David Borg, ex capo dello staff del senatore repubblicano Arlen Specter, avrebbero recentemente incontrato esponenti della Casa Bianca.
Secondo la rivista progressista The Nation, per «fare pressione in funzione di atteggiamento più aggressivo verso l’Iran, rifiutare ogni aiuto ai palestinesi, e dare mano libera ad Israele contro Hezbollah». È la «politica estera fondata sull’Armageddon», ironizza ma neanche troppo The Nation, alludendo alla visione di John Hagee.
Che come tutti i telepredicatori ha le idee molto chiare. Quello che in genere emerge meno, è il fatto che il sostegno di tali gruppi fondamentalisti evangelici (da molti osservatori considerati decisivi nella rielezione di George W. Bush) alla causa d’Israele, è funzionale alla realizzazione del proprio, ed esclusivo, disegno messianico. Che a grandi linee, prevede, una volta conquistata tutta la terra santa da parte degli ebrei, la loro conversione in cristiani.
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