Wednesday, August 09, 2006

Charles Kupchan: «Multilateralisti, ma non per scelta»

GLI USA E IL MEDIO ORIENTE Intervista a Charles Kupchan, del Council on Foreign Relations di Washington
«Multilateralisti, ma non per scelta»
Il ritrovato asse Washington-Parigi è frutto delle circostanze, e il ricorso dell’amministrazione Bush al “vituperato” Palazzo di Vetro esprime un multilateralismo dettato dalle necessità. Il Nuovo Medio Oriente, ventilato da Rice, potrebbe trasformarsi in una regione con democrazie difettose e popoli divisi su criteri etnici.
di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano mercoledì 9 agosto 2006

Non si fa molte illusioni Charles Kupchan, direttore degli studi europei al Council on Foreign Relations di Washington.
Il ritrovato asse Washington-Parigi è frutto delle circostanze, e il ricorso dell’amministrazione Bush al vituperato Palazzo di Vetro è un multilateralismo dettato dalle necessità, piuttosto che una visione politica.
Francia e Stati Uniti dopo anni di contrasti e dissapori, sulla crisi libanese hanno ritrovato una linea comune. È luna di miele?
I due paesi hanno spesso collaborato in passato nelle faccende interne a Beirut, come il ritiro della Siria, o le inchieste sull’assassinio del premier Hariri. Ora questa ritrovata armonia è un prodotto di differenti fattori. Primo. Della volontà di Jacques Chirac di recuperare consensi dopo diversi problemi interni e scandali. Secondo. Washington ha estrema necessità di aiuti esterni nella gestione della crisi, essendo troppo esposta in Iraq.
La proposta francese della guida di una forza di peacekeeping è dunque benvenuta. Terzo. Se in un primo momento gli Stati Uniti avevano manifestato un aperto sostegno all’azione militare di Israele, ora, dopo episodi come la strage di Cana la situazione è cambiata. Washington spinge più decisa per un cessate il fuoco, deve fare i conti con l’opinione pubblica dei paesi musulmani, e con un montante sentimento contrario alla guerra e antiamericano.
Cosa pensa della decisione americana di coinvolgere le Nazioni Unite? Èun ritorno al multilateralismo bocciato dalla prima amministrazione Bush? O il frutto del pragmatismo del segretario di stato, Condoleezza Rice?
Entrambe le cose sono vere. Innanzitutto in questo contesto era praticamente impossibile non tenere conto dell’Onu, con, tra le altre cose, la missione Unifil impegnata sul terreno. Ma il punto è che gli Stati Uniti storicamente ricorrono alle Nazioni Unite quando non devono guidare in prima persona gli interventi.
Questo è il caso del Libano. D’altro canto l’unilateralismo portato avanti sull’Iraq ha prodotto risultati drammatici. Il cambiamento della strategia è dunque frutto di un nuovo pragmatismo, più che di un mutamento ideologico dell’amministrazione Bush. Inoltre gli Stati Uniti sono troppo esposti nella regione, non hanno altra scelta che ricorrere ad un approccio multilaterale, sia nella crisi libanese che nella questione nucleare con l’Iran. Non possono che lavorare in vista di risoluzioni condivise, eppoi cedere la leadership militare e diplomatica. Di qui ad un ritorno ideologico al multilateralismo però ce ne corre.
A proposito di Iran, come comportarsi alla luce dell’intervento d’Israele in Libano? Oggi la situazione è più chiara che in passato. Gli attori sono sulla scena. Un governo sciita in Iraq, l’Iran che ha una leadeship netta nel mondo islamico, gli Hezbollah guidano la battaglia contro Israele. Ora non credo sia possibile prescindere da una ricerca del dialogo con Teheran, ha un ruolo troppo importante.
Quello che colpisce nella gestione della crisi, è un certo distacco da parte di Washington, quasi una rinuncia al ruolo attivo nella costruzione della pace, ruolo tradizionale nella questione israelo-palestinese. Siamo di fronte ad un inedito vuoto politico della diplomazia americana?
Concordo che il ruolo da mediatore sia diminuito. Oggi, nel contesto israelo-palestinese, gli Stati Uniti sono meno coinvolti che nel passato. Non hanno inviati speciali. Il presidente non ha un ruolo preminente nel perseguire accordi di pace. Nessun ascendente diretto sui tre attori chiave della crisi, Hezbollah, Iran, e Siria.
In questo senso la diplomazia americana è decisamente molto meno incisiva. Poi non va trascurato che le forze militari, regolarmente sotto pressione in Iraq e in Afghanistan, non hanno energie da impiegare in una eventuale politica di peacemaking.
C’è una questione che è sembrata tornare più volte in questi giorni, quella del Kosovo. Dei Balcani si è parlato quando è stata ipotizzata una missione in Libano a guida Nato. Olmert stesso ha citato la guerra nell’ex Jugoslavia. Lei in un suo articolo di fine 2005 su Foreign Affairs parlò di necessità di arrivare all’indipendenza del Kosovo albanese dalla Serbia. Di dover rinunciare al principio della multietnicità a favore della stabilità.Ecco, come vede tale dinamica rispetto allo scenario mediorientale?
Io penso che permettere la separazione etnica sia l’ultima delle risorse. Che sia di gran lunga preferibile uno stato multietnico, multireligioso e multiculturale. Ma nel caso del Kosovo tutti i tentativi di preservare una società multietnica, alla prova dei fatti, sono falliti. E questo è anche il caso dell’Iraq. Dove sarebbe preferibile permettere ai diversi gruppi etnici di vivere insieme, ma dove la realtà dei fatti, la violenza crescente, la difficoltà delle forze di polizia a mantenere l’ordine, fanno pensare che sia arrivato il momento di puntare ad una confederazione su base etnica.
Secondo lei il «Nuovo Medio Oriente» di cui ha parlato Condoleezza Rice prevede tale epilogo?
Non credo, credo che ciò di cui parla la Rice sia esattamente l’opposto, democrazie liberali, costituzioni, freepress, multietnicità.
Ma io ho paura che quello a cui andremo incontro, dopo la guerra in Iraq, la guerra in Libano, l’eventuale crisi iraniana, sia lo sviluppo di una regione con democrazie difettose e popoli divisi. Il che sarebbe molto pericoloso.

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