«In Iraq una guerra senza fine a bassa intensità». Parla Thomas Ricks, autore del bestseller “Fiasco”
«In Iraq una guerra senza fine a bassa intensità». Parla Thomas Ricks, autore del bestseller “Fiasco”
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO SABATO 26 AGSTO 2006
Che la guerra in Iraq sia stata un disastro, non ci sono dubbi per Thomas E. Ricks, corrispondente dal Pentagono per il Washington Post e autore di “Fiasco: The American Military Adventure in Iraq”, salito recentemente in cima alla classifica dei saggi più venduti del New York Times.
Teoria di fondo del libro, basato su numerose interviste con ufficiali militari e su migliaia di documenti, è che non esistessero piani per il dopo-invasione e che siano stati commessi gravi errori nella strategia militare statunitense.
Mr Ricks, lei scrive che la decisione di George W. Bush di invadere l’Iraq nel 2003 è «una delle azioni più dissolute nella storia della politica estera americana», «il peggior piano della storia degli Stati Uniti», e che le conseguenze della scelta di Washington «non saranno chiare prima di decenni». Insomma, quanti “padri” ha la débacle irachena?
Di padri ne ha molti. L’amministrazione Bush ha fatto molti errori. Ma io credo che i problemi con l’Iraq siano sorti da un fallimento dell’intero sistema americano. Sia nella fase del conflitto sia nella gestione dell’occupazione. Il Congresso è stato a guardare, trascurando di porre le domande che avrebbero dovuto informare l’opinione pubblica e probabilmente rendere gli sforzi militari più efficaci.
Di chi è la responsabilità principale, del Pentagono o dei leader politici? Come l’occupazione ha finito per alimentare gli insorti?
Sono stati commessi enormi errori politici. Primo, hanno istituito una catena di comando confusa che non prevedeva alcuna figura a coordinamento degli azioni militari e civili, cosa che gli esperti di controinsurrezione dicono essere cruciale.
Inoltre, gli strateghi militari hanno teso a programmare per le circostanze più favorevoli, senza alcun piano di riserva. Poi, l’ambasciatore Paul Bremer appena giunto in Iraq ha preso due decisioni politiche che hanno di fatto permesso il reclutamento degli insorti: la dissoluzione del partito Baath e lo smembramento delle forze armate.
Nello stesso tempo, le truppe americane non erano sufficienti per chiudere la frontiera, un altro passaggio che si è rivelato decisivo per la mancata prevenzione della insurrezione.
Lei ha scritto che i «militari americani hanno dimenticato molte delle lezioni del Vietnam», che l’iniziativa era lasciata a «ufficiali creativi che hanno spesso inventato nuove tattiche e strategie sul campo». Come vanno le cose ora?
Le forza militari Usa hanno migliorato il loro lavoro.
Ora si muovono molto meglio di quanto facessero nel 2003 o nel 2004. La questione è se i cambiamenti in atto si dimostreranno essere troppo piccoli, e troppo in ritardo.
Negli ultimi tempi l’opinione pubblica mondiale ha concentrato il suo sguardo sulla guerra in Libano. Ma in Iraq si continua a combattere, ogni giorno muoiono numerosi iracheni. Cosa sta accadendo esattamente?
Sono stato in Iraq cinque volte. Ogni volta che ci tornavo, era peggio che la volta precedente. Una lezione che ho imparato è che le cose possono sempre andare peggio, e che nel futuro potrebbero ancora continuare a peggiorare.
È in corso una guerra civile?
Credo di sì. Credo ci sia una “guerra civile a bassa intensità”. In qualche modo penso che l’attuale politica Usa sia di prevenire che si degeneri in un guerra civile vera e propria, che potrebbe facilmente diventare un conflitto regionale.
L’Iraq sarà diviso in tre zone a base etnica? In regioni sunnite, sciite e curde? Potremmo trovarci di fronte a uno scenario paragonabile a quello che accadde nei Balcani?
Molte persone “intelligenti” stanno spingendo per arrivare a questo tipo di divisione. Il problema è che sarebbe una soluzione a breve termine che potrebbe dimostrare di essere un problema a lungo termine. Per esempio, probabilmente sorgerebbero controversie su chi dovrebbe controllare il petrolio. A quel punto la guerra civile sarebbe probabile. Ma non credo che si arriverà ad una istituzione di zone miste, come in Bosnia.
Condoleezza Rice recentemente ha dichiarato che la guerra in Iraq ha danneggiato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Ha auspicato un dialogo con i governi mediorientali...
Credo che il segretario di stato abbia ragione.
Il successo di Ned Lamont nelle scorse primarie democratiche in Connecticut è stato visto come un successo della fazione antiwar.
Pensa che se a novembre i Dems vinceranno le elezioni di medio termine, ci sarà un ritiro dall’Iraq?
L’Iraq sta diventando un problema sempre più crescente per colui che sarà il prossimo presidente.
Ma sarei sorpreso di vedere un Congresso a maggioranza democratica votare per un veloce ritiro delle truppe. Che invece, come sospetto, rimarranno in Iraq per un lungo, lungo tempo.
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO SABATO 26 AGSTO 2006
Che la guerra in Iraq sia stata un disastro, non ci sono dubbi per Thomas E. Ricks, corrispondente dal Pentagono per il Washington Post e autore di “Fiasco: The American Military Adventure in Iraq”, salito recentemente in cima alla classifica dei saggi più venduti del New York Times.
Teoria di fondo del libro, basato su numerose interviste con ufficiali militari e su migliaia di documenti, è che non esistessero piani per il dopo-invasione e che siano stati commessi gravi errori nella strategia militare statunitense.
Mr Ricks, lei scrive che la decisione di George W. Bush di invadere l’Iraq nel 2003 è «una delle azioni più dissolute nella storia della politica estera americana», «il peggior piano della storia degli Stati Uniti», e che le conseguenze della scelta di Washington «non saranno chiare prima di decenni». Insomma, quanti “padri” ha la débacle irachena?
Di padri ne ha molti. L’amministrazione Bush ha fatto molti errori. Ma io credo che i problemi con l’Iraq siano sorti da un fallimento dell’intero sistema americano. Sia nella fase del conflitto sia nella gestione dell’occupazione. Il Congresso è stato a guardare, trascurando di porre le domande che avrebbero dovuto informare l’opinione pubblica e probabilmente rendere gli sforzi militari più efficaci.
Di chi è la responsabilità principale, del Pentagono o dei leader politici? Come l’occupazione ha finito per alimentare gli insorti?
Sono stati commessi enormi errori politici. Primo, hanno istituito una catena di comando confusa che non prevedeva alcuna figura a coordinamento degli azioni militari e civili, cosa che gli esperti di controinsurrezione dicono essere cruciale.
Inoltre, gli strateghi militari hanno teso a programmare per le circostanze più favorevoli, senza alcun piano di riserva. Poi, l’ambasciatore Paul Bremer appena giunto in Iraq ha preso due decisioni politiche che hanno di fatto permesso il reclutamento degli insorti: la dissoluzione del partito Baath e lo smembramento delle forze armate.
Nello stesso tempo, le truppe americane non erano sufficienti per chiudere la frontiera, un altro passaggio che si è rivelato decisivo per la mancata prevenzione della insurrezione.
Lei ha scritto che i «militari americani hanno dimenticato molte delle lezioni del Vietnam», che l’iniziativa era lasciata a «ufficiali creativi che hanno spesso inventato nuove tattiche e strategie sul campo». Come vanno le cose ora?
Le forza militari Usa hanno migliorato il loro lavoro.
Ora si muovono molto meglio di quanto facessero nel 2003 o nel 2004. La questione è se i cambiamenti in atto si dimostreranno essere troppo piccoli, e troppo in ritardo.
Negli ultimi tempi l’opinione pubblica mondiale ha concentrato il suo sguardo sulla guerra in Libano. Ma in Iraq si continua a combattere, ogni giorno muoiono numerosi iracheni. Cosa sta accadendo esattamente?
Sono stato in Iraq cinque volte. Ogni volta che ci tornavo, era peggio che la volta precedente. Una lezione che ho imparato è che le cose possono sempre andare peggio, e che nel futuro potrebbero ancora continuare a peggiorare.
È in corso una guerra civile?
Credo di sì. Credo ci sia una “guerra civile a bassa intensità”. In qualche modo penso che l’attuale politica Usa sia di prevenire che si degeneri in un guerra civile vera e propria, che potrebbe facilmente diventare un conflitto regionale.
L’Iraq sarà diviso in tre zone a base etnica? In regioni sunnite, sciite e curde? Potremmo trovarci di fronte a uno scenario paragonabile a quello che accadde nei Balcani?
Molte persone “intelligenti” stanno spingendo per arrivare a questo tipo di divisione. Il problema è che sarebbe una soluzione a breve termine che potrebbe dimostrare di essere un problema a lungo termine. Per esempio, probabilmente sorgerebbero controversie su chi dovrebbe controllare il petrolio. A quel punto la guerra civile sarebbe probabile. Ma non credo che si arriverà ad una istituzione di zone miste, come in Bosnia.
Condoleezza Rice recentemente ha dichiarato che la guerra in Iraq ha danneggiato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Ha auspicato un dialogo con i governi mediorientali...
Credo che il segretario di stato abbia ragione.
Il successo di Ned Lamont nelle scorse primarie democratiche in Connecticut è stato visto come un successo della fazione antiwar.
Pensa che se a novembre i Dems vinceranno le elezioni di medio termine, ci sarà un ritiro dall’Iraq?
L’Iraq sta diventando un problema sempre più crescente per colui che sarà il prossimo presidente.
Ma sarei sorpreso di vedere un Congresso a maggioranza democratica votare per un veloce ritiro delle truppe. Che invece, come sospetto, rimarranno in Iraq per un lungo, lungo tempo.
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