Uno spot planetario gratuito, ma l’Adidas non è grata a Fidel
L’accostamento tra una grande marca globale e un capo politico controverso come il líder máximo
Uno spot planetario gratuito, ma l’Adidas non è grata a Fidel
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO MERCOLEDI 23 AGOSTO 2006
La foto di un convalescente Fidel Castro in tuta Adidas bianca e strisce rossoblù fa il giro del mondo.
Drudge Report, il blog che portò a un passo dall’impeachment Bill Clinton (affare Lewinski) si domanda se sia un fotomontaggio o meno. Gli esuli anticastristi dalla Florida auspicano il ritocco, e che il líder máximo versi in condizioni più drammatiche.
Attendendo nuove sul suo destino, resta quell’immagine che vale più di mille bollettini medici: il simbolo dell’anticapitalismo è ancora vivo e veste Adidas.
In tempi di democrazia “emozionale”, per dirla col professor Sartori, non è una cosa da poco.
Perché può darsi, come dichiara al New York Times il capo relazioni esterne dell’Adidas, che il fatto in sé «non sia né negativo, né positivo», che la casa tedesca sia semplicemente «uno sport brand» che fa «prodotti per gli atleti, non per i leader politici». Ma poiché non stiamo parlando del golfista Tiger Woods o di Zinédine Zidane, la questione si pone.
Dunque, politica e brand sono compatibili? È un abbraccio mortifero o una fruttuosa sinergia? Un personaggio come Castro, per sua natura polarizzante, è un bene o un male, per una marca, che in teoria dovrebbe essere più unificante possibile? Guardando la vicenda, sembrerebbe di essere in piena eterogenesi dei fini.
Con i brand, ossia le marche, i simboli o i disegni con cui si identificano i prodotti, che hanno preso a vivere di vita propria, al di là delle intenzioni dei loro creatori.
Lo stesso New York Times scrive che quella foto è «una prova che le big companies hanno perso il controllo dei loro brand».
Non sarebbe il primo caso.
Nel 1994 la Ford impennò le vendite del 25 per cento. Era successo che O.J. Simpson alla guida di un modello Bronco fece impazzire in diretta tv i poliziotti americani per le freeway di San Diego. E per evitare sorprese, nel 2004, durante la corsa alla Casa Bianca di John F. Kerry, gli amministratori della Heinz, la compagnia che produce il ketchup di proprietà della moglie, dovettero scrivere a cinquanta radio e televisioni per ribadire che non avrebbero finanziato i democratici, dopo aver ricevuto minacce di boicottaggio.
Insomma, chi lavora nel marketing sa che l’accostamento tra politica e business è pericoloso. Dunque, il punto è un altro.
Oggi i consumatori soffrono di quella che si chiama “Constant Partial Attention”, vale a dire dell’impossibilità di concentrarsi su un concetto. Ottenere la loro attenzione è difficilissimo, se guadagni un pezzetto della loro mente e del loro cuore hai avuto successo. La parola chiave è “mind share”. Per conquistare un frammento della mente di un consumatore serve un’emozione forte. Di qui gli spot iPod con gli U2, la tennista Sharapova che è la regina dei prodotti di bellezza negli Usa, o la pubblicità Adidas con Platini, Zidane e compagnia, che giocano nelle favelas brasiliane.
Castro allora non più come icona politica, troppo divisiva, ma come eccellente “acceleratore della memoria”, in grado di guadagnare “mind share”, spazio nella mente sempre più parcellizzata.
Ottimo testimonial, involontario o meno, per mercati dominati dai consumatori emergenti, Sudamerica o Asia. Difficile sarebbe ritentare l’esperimento con leader del “primo mondo” come Bush o Blair.
Poi le cose si complicano quando si salta di scala, quando si prova a vendere l’immagine di un intero paese. Di fallimento del «brand Usa» parlava Naomi Klein, nel 2002.
L’autrice del fortunato “No logo” ammoniva ad usare i principi del marketing per imporre un prodotto politico.
«Quando i brand manager trasferiscono le loro abilità dalle corporation al mondo politico, inevitabilmente portano un certo fanatismo», scriveva sul Los Angeles Times alludendo alla tendenza a ricercare l’uniformità dei pareri piuttosto che una dinamica dialettica .
I fatti in qualche modo le hanno dato ragione. Lo scorso febbraio ricerche di settore riportavano che tra i primi tre brand più amati dai teenager di tutto il mondo non c’era una compagnia americana. Ma la Sony (Giappone), la Nokia (Finlandia) e la stessa Adidas. La Nike, prima delle big companies a stelle e strisce, si piazzava solo quarta. Cancellati decenni di dominio incontrastato. A pesare, pare, le scelte di politica estera ed ambientale dell’amministrazione Bush, guerra in Iraq e global warming.
Così da un lato cresce il disincanto dei giovani consumatori del pianeta verso il sogno americano, per tradizione esportato attraverso marchi celebri come Coca Cola, Walt Disney o McDonald’s. Dall’altro fiorisce uno strano ed inedito nazionalismo che dovrebbe fare a schiaffi con lo stesso carattere globale delle multinazionali.
E in termini di rapporti di forza tra business e politica, il quadro è ribaltabile.
In questi giorni per esempio i democratici americani hanno lanciato una campagna durissima contro Wal-Mart, la catena a basso costo e tutela minima dei lavoratori, accusata di desertificare il tessuto socio-economico di intere regioni. In questo caso è il business che si fa simbolo politico.
E Wal-Mart diventa l’immagine che condensa, nelle intenzioni degli spin doctor, il peggio della politica dei repubblicani. Un logo chiaro contro cui mobilitare e convogliare l’elettorato dem.
In ogni caso, a fare la fortuna di una campagna elettorale, o di marketing, è il fattore tempo.
Nel 2002 quando Castro indossò lo stesso giacchetto Adidas bianco a strisce rossblù su un campo da baseball, e si fece fotografare accanto al suo “best friend”, l’ex presidente americano Jimmy Carter, la cosa non suscitò lo stesso scalpore. Ma se si fosse prestata maggiore attenzione allo slogan della stessa casa d’abbigliamento tedesca – “Impossible is Nothing” – c’era da aspettarselo che il meglio doveva ancora venire.
Ora attendiamo i riscontri delle vendite di sneakers Adidas nel Venezuela dell’amico Chávez.
Uno spot planetario gratuito, ma l’Adidas non è grata a Fidel
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO MERCOLEDI 23 AGOSTO 2006
La foto di un convalescente Fidel Castro in tuta Adidas bianca e strisce rossoblù fa il giro del mondo.
Drudge Report, il blog che portò a un passo dall’impeachment Bill Clinton (affare Lewinski) si domanda se sia un fotomontaggio o meno. Gli esuli anticastristi dalla Florida auspicano il ritocco, e che il líder máximo versi in condizioni più drammatiche.
Attendendo nuove sul suo destino, resta quell’immagine che vale più di mille bollettini medici: il simbolo dell’anticapitalismo è ancora vivo e veste Adidas.
In tempi di democrazia “emozionale”, per dirla col professor Sartori, non è una cosa da poco.
Perché può darsi, come dichiara al New York Times il capo relazioni esterne dell’Adidas, che il fatto in sé «non sia né negativo, né positivo», che la casa tedesca sia semplicemente «uno sport brand» che fa «prodotti per gli atleti, non per i leader politici». Ma poiché non stiamo parlando del golfista Tiger Woods o di Zinédine Zidane, la questione si pone.
Dunque, politica e brand sono compatibili? È un abbraccio mortifero o una fruttuosa sinergia? Un personaggio come Castro, per sua natura polarizzante, è un bene o un male, per una marca, che in teoria dovrebbe essere più unificante possibile? Guardando la vicenda, sembrerebbe di essere in piena eterogenesi dei fini.
Con i brand, ossia le marche, i simboli o i disegni con cui si identificano i prodotti, che hanno preso a vivere di vita propria, al di là delle intenzioni dei loro creatori.
Lo stesso New York Times scrive che quella foto è «una prova che le big companies hanno perso il controllo dei loro brand».
Non sarebbe il primo caso.
Nel 1994 la Ford impennò le vendite del 25 per cento. Era successo che O.J. Simpson alla guida di un modello Bronco fece impazzire in diretta tv i poliziotti americani per le freeway di San Diego. E per evitare sorprese, nel 2004, durante la corsa alla Casa Bianca di John F. Kerry, gli amministratori della Heinz, la compagnia che produce il ketchup di proprietà della moglie, dovettero scrivere a cinquanta radio e televisioni per ribadire che non avrebbero finanziato i democratici, dopo aver ricevuto minacce di boicottaggio.
Insomma, chi lavora nel marketing sa che l’accostamento tra politica e business è pericoloso. Dunque, il punto è un altro.
Oggi i consumatori soffrono di quella che si chiama “Constant Partial Attention”, vale a dire dell’impossibilità di concentrarsi su un concetto. Ottenere la loro attenzione è difficilissimo, se guadagni un pezzetto della loro mente e del loro cuore hai avuto successo. La parola chiave è “mind share”. Per conquistare un frammento della mente di un consumatore serve un’emozione forte. Di qui gli spot iPod con gli U2, la tennista Sharapova che è la regina dei prodotti di bellezza negli Usa, o la pubblicità Adidas con Platini, Zidane e compagnia, che giocano nelle favelas brasiliane.
Castro allora non più come icona politica, troppo divisiva, ma come eccellente “acceleratore della memoria”, in grado di guadagnare “mind share”, spazio nella mente sempre più parcellizzata.
Ottimo testimonial, involontario o meno, per mercati dominati dai consumatori emergenti, Sudamerica o Asia. Difficile sarebbe ritentare l’esperimento con leader del “primo mondo” come Bush o Blair.
Poi le cose si complicano quando si salta di scala, quando si prova a vendere l’immagine di un intero paese. Di fallimento del «brand Usa» parlava Naomi Klein, nel 2002.
L’autrice del fortunato “No logo” ammoniva ad usare i principi del marketing per imporre un prodotto politico.
«Quando i brand manager trasferiscono le loro abilità dalle corporation al mondo politico, inevitabilmente portano un certo fanatismo», scriveva sul Los Angeles Times alludendo alla tendenza a ricercare l’uniformità dei pareri piuttosto che una dinamica dialettica .
I fatti in qualche modo le hanno dato ragione. Lo scorso febbraio ricerche di settore riportavano che tra i primi tre brand più amati dai teenager di tutto il mondo non c’era una compagnia americana. Ma la Sony (Giappone), la Nokia (Finlandia) e la stessa Adidas. La Nike, prima delle big companies a stelle e strisce, si piazzava solo quarta. Cancellati decenni di dominio incontrastato. A pesare, pare, le scelte di politica estera ed ambientale dell’amministrazione Bush, guerra in Iraq e global warming.
Così da un lato cresce il disincanto dei giovani consumatori del pianeta verso il sogno americano, per tradizione esportato attraverso marchi celebri come Coca Cola, Walt Disney o McDonald’s. Dall’altro fiorisce uno strano ed inedito nazionalismo che dovrebbe fare a schiaffi con lo stesso carattere globale delle multinazionali.
E in termini di rapporti di forza tra business e politica, il quadro è ribaltabile.
In questi giorni per esempio i democratici americani hanno lanciato una campagna durissima contro Wal-Mart, la catena a basso costo e tutela minima dei lavoratori, accusata di desertificare il tessuto socio-economico di intere regioni. In questo caso è il business che si fa simbolo politico.
E Wal-Mart diventa l’immagine che condensa, nelle intenzioni degli spin doctor, il peggio della politica dei repubblicani. Un logo chiaro contro cui mobilitare e convogliare l’elettorato dem.
In ogni caso, a fare la fortuna di una campagna elettorale, o di marketing, è il fattore tempo.
Nel 2002 quando Castro indossò lo stesso giacchetto Adidas bianco a strisce rossblù su un campo da baseball, e si fece fotografare accanto al suo “best friend”, l’ex presidente americano Jimmy Carter, la cosa non suscitò lo stesso scalpore. Ma se si fosse prestata maggiore attenzione allo slogan della stessa casa d’abbigliamento tedesca – “Impossible is Nothing” – c’era da aspettarselo che il meglio doveva ancora venire.
Ora attendiamo i riscontri delle vendite di sneakers Adidas nel Venezuela dell’amico Chávez.
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