Wednesday, April 26, 2006

Il futuro della carta stampata? Niente carta né tipografie

EDITORIA  LA RIVOLUZIONE DIGITALE PERMETTERÀ LA DIFFUSIONE DI QUOTIDIANI “ISTANTANEI”, SEMPRE AGGIORNATI
Il futuro della carta stampata? Niente carta né tipografie
di STEFANO BALDOLINI

Europa quotidiano di martedi 25 aprile 2006

Si scrive giornale digitale, si legge “e-paper”. Ineluttabile, e ben accolta dagli ambientalisti, la rivoluzione dei media passa attraverso l’abbandono della carta. Internet e la carta elettronica - gli schermi ultrasottili arrotolabili fino a formare un tubo di appena due centimetri di diametro - faranno il resto.

«Gli schermi flessibili permetteranno la diffusione istantanea dei giornali ovunque e su supporti inediti, dal braccialetto-orologio ai muri delle stazioni e degli aeroporti…», dichiara a Le Monde Bruno Rives, fondatore della Tebaldo, società francese di consulting.

E-ink, l’azienda che per prima nel maggio 2003 ha sviluppato il supporto, fa sapere che la sua diffusione inizierà nel 2015. «Lo schermo flessibile sta uscendo dai laboratori di ricerca per entrare nella fase produttiva», spiega un portavoce di Plastic Logic, altra importante compagnia attiva nel settore.

Insomma, dopo anni di annunci e tentativi falliti, questo scorcio di primavera del 2006 vede i primi passi concreti verso il superamento dei giornali tradizionali. Due sono le filosofie prevalenti che provano a tastare il mercato.

La prima riproduce sul supporto elettronico il tradizionale formato del giornale, che non cambia stile e modalità grafica, riproponendo su video il prodotto disponibile in edicola. La seconda prova a personalizzare le informazioni in maniera differente, adattandosi al mezzo, un po’ come avviene sul web per i giornali online.

Così in Belgio dalla fine di marzo, duecento lettori del quotidiano finanziario De Tijd stanno testando il nuovo supporto sviluppato dalla Phillips, uno schermo formato A5, (la metà di un normale foglio di carta) facile da leggere, anche se colpito dalla luce del sole. Già perché la bassa qualità dell'immagine, oltre all'alimentazione e la delicatezza dei materiali, erano ad oggi i punti deboli della questione. Se superati, come sembra, gli articoli potranno essere aggiornati giorno per giorno attraverso una connessione Internet e letti in metropolitana come in un giardino (pur wireless) fino alla fine di giugno.

L’altro approccio, quello di differenziare i contenuti, è quello scelto dal giornale economico francese Les Echos, che lo scorso 17 marzo ha mostrato alla stampa il suo primo prototipo compatibile. L’obiettivo del quotidiano (proprietari la Pearson, editori del Financial Times) è di testare il lettore Sony su più di 500 utenti entro quest’anno. La sperimentazione potrebbe coinvolgere altre testate francesi, come Le Monde, La Parisienne e L’Equipe. In Giappone, il Yomiuri Shimbun ha già dimostrato attenzione alla questione.

Resta da capire se la rivoluzione sarà davvero tale. Il rischio del “giornale elettronico” è di essere troppo avanzato tecnologicamente per i tradizionali lettori dei quotidiani. Con la conseguenza che i nuovi prodotti potrebbero non essere sufficienti per scongiurare la crisi della carta stampata, che ormai da diversi anni affligge il mondo dell’editoria. D’altra parte l’e-paper potrebbe invece essere più adatta per proposte editoriali pensate per un pubblico più giovane ed esperto in fatto di nuove tecnologie.

D’altronde non è solo un problema di target. «I giornali abbraccino Internet», ammoniva giusto un anno fa all’American Society of Newspaper Editors di Washington, Rupert Murdoch. Il rischio era di perdere importanti fette di pubblicità. L’appello del magnate dei media veniva raccolto dal New York Times nell’agosto scorso, quando, come rivelato dal Wall Street Journal, partiva il progetto di integrare la divisione tradizionale con quella Web. Con l’obiettivo di riunire le due redazioni nel 2007.

E che la sensibilità verso l’integrazione tra carta stampata e web sia aumentata, lo dimostra la recente vicenda BlogBurst. Dal nome del servizio della Pluck Corp., che comprende articoli di bloggers che i quotidiani, secondo un discusso accordo, potranno usare.

Insomma, di questo passo probabilmente, come scrive Doreen Carvajal dell’International Herald Tribune, non dovremo aspettare il 2054 per vedere realizzata la profezia di Minority Report (nel film di Spielberg si vede Tom Cruise in metro impegnato a consultare su un maneggevole display l’edizione “live” dell’Usa Today)

Monday, April 24, 2006

Che brutto ambiente, e come è sconveniente parlarne

Che brutto ambiente, e come è sconveniente parlarne

STEFANO BALDOLINI

Europa di sabato 22 aprile 2006


Se è una strada per ritentare l’assalto alla Casa Bianca, quella scelta da Al Gore è la più tortuosa. Lo sintetizza bene il “Washington Post:”: «Il noioso Al Gore ha fatto un film. E sul soggetto più noioso di tutti: il Global Warming.» Stiamo parlando di “An Inconvenient Truth”, presentato al recente Sundance Film Festival, quello del cinema indipendente inventato da Robert Redford. Il documentario, girato da Davis Guggenheim, racconta degli sforzi di uno sconfitto Al Gore che va in giro per il paese a ripetere che il tempo è scaduto, il pianeta è in pericolo. La temperatura media sulla Terra continua ad aumentare a ritmi insostenibili. Tutta colpa dell’uso troppo esteso dei combustibili fossili che innesca un aumento nell’atmosfera dell’anidride carbonica e degli altri gas serra.

E in effetti non c’era tema più ostico, issue più inerte, che quello del riscaldamento globale per risvegliare l’immaginario degli americani, stregati dal sortilegio dell’11 settembre e sempre più inclini all’isolazionismo, dopo le fallite campagne in giro per il mondo ad esportare la democrazia. Idee forti, ci vogliono. Si pensi alla strategia di Karl Rove nel 2004, tutta lotta al terrorismo e demonizzazione del “flip flopper” Kohn Kerry. O all’ultima campagna contro l’Iran.

Eppure, se è una seconda vita politica - «The New New Gore», scrive l’“American Prospect” - quella dell’ex vice di Bill Clinton, riparte proprio dal clima. Il candidato sconfitto nel 2000 da George W. Bush, irriso per aver detto «di aver inventato Internet» a Wolf Blitzer della CNN nel marzo del 1999, sta riconquistando i media cavalcando formule mai comprese appieno come Kyoto o Co2. Poi si tratterà di conquistare le platee, a maggio, quando il suo film uscirà e insieme verrà pubblicato il libro.

Per ora, a giudicare dai commentatori, il tentativo sembra essere riuscito. «E’ una campagna che Gore non può perdere», scrive Richard Cohen sul “Washington Post”. Così in “An Inconvenient Truth” si vede Al Gore fare conferenze, ammonire platee, scegliere diapositive, preparare valigie, insomma niente di più eccitante (“amazing”, direbbero gli americani), verrebbe da dire. E c’è chi ci va giù pesante.

Per il sulfureo Doug Powers, commentatore di “The American Spectator”, la cattiva notizia è che Al Gore dice che siamo segnati, la buona è che ce lo dice Al Gore. Oppure «lo stile da climatologo», di Al Gore, sembra quello di uno scienziato per i quali «la precisione delle previsioni cresce quanto la distanza con la scadenza.»

Ma il film al Sundance è piaciuto, e soprattutto è piaciuto Al Gore, che esce con una luce nuova dall’esperienza.

Merito dell’autorevolezza (pur ingessata) che emana. Delle immagini spettacolari, dei ghiacciai che si sciolgono, dei poveri orsi polari che soffrono, ma non solo.

Tutto questo c’era anche due anni fa, nel maggio del 2004, quando un regista con ben altri mezzi e ambizioni come Roland Emmerich (quello di “Independence day”) provò a conquistare le platee raccontando di una nuova era glaciale in “The Day After Tomorrow”.

E l’effetto serra – e gli effetti speciali – esistevano anche ai tempi della proiezione newyorchese organizzata da “MoveOn”, la creatura online cavalcata da Howard Dean, per lanciare il kolossal che avrebbe dovuto aiutare il candidato democratico John Kerry nel novembre successivo. «Bush non ha capito che l’effetto serra è una minaccia equivalente a quella del terrorismo», spiegava Peter Schum, di Move On, alla platea.

Dove oltre a Robert Kennedy, nipote di JFK, sedeva Al Gore stesso. Che, dopo aver visto gli eroi Dennis Quaid e Jake Gyllenhaal salvarsi dall’estinzione, presentò uno slide show che colpì molto d.

Il risultato fu che qualche tempo dopo, Lawrence Bender (produttore di Quentin Tarantino) e Jeffrey Skoll (miliardario guru di Ebay), proposero di usare quelle immagini per il film. Qualche problema sorse per via del fatto che erano vecchie immagini del figlio di Al Gore, ma poi tutto si risolse.

E anzi proprio le incursioni nella vita di Gore sembra sia uno dei punti di forza di “An Inconvenient Truth”. L’incidente d’auto che per poco non uccise il figlio, la sua sconfitta in Florida, e la morte di sua sorella per un cancro causato dal fumo, avvalorano le ragioni del suo attivismo ambientale che oggi potrebbe finalmente “arrivare”: il pubblico è pronto a recepire il messaggio.
E se questo accadrà, probabilmente gran merito va a Katrina. A New Orleans sommersa dalle acque, ai ritardi dei soccorsi, ai dispersi, ai senza tetto. L’emergenza, percepita sinora lontana, è arrivata nelle case, né più né meno delle torri fumanti di New York.
Il problema non è secondario. C’è il solito paradosso da risolvere. «Come possiamo spronare i nostri leader ad evitare una catastrofe la cui ricompensa politica sarà appannaggio di qualcun altro, tra decenni, o anche secoli?», si domanda Rob Nixon su “Slate”.
Per farsi aiutare nei suoi sforzi Al Gore ha assunto Roy Neel, da oltre trentanni uomo chiave nella macchina politica dei democratici e alla Casa Bianca con Clinton. Il mese scorso in Tennesse ha escluso ogni volontà di ricandidarsi. Si concentrerà sul global warming e probabilmente terrà una sessione estiva a Nashville per capire come comunicare l’”emergenza planetaria”. In questo senso, nel nuovo Field Notes from a Catastrophe, Elizabeth Kolbert nota come ci siano stati grossi errori. A cominciare dall’aggettivo ”global” per esempio, «fiacco, impopolare, stanco.» Difficilmente in grado di riscaldare i cuori, spingere all’azione.
A comunicare il rischio, Al Gore, ci aveva già provato, e bene, nel 1992 con Earth in the Balance.
Oggi, «sui blog, nelle riviste, tra opinionisti ed esperti, ‘Al Gore 2008’ è al tempo stesso un grido di battaglia e un gioco a quiz», scrive “American Prospect”. L’impressione è quella di «una strana traiettoria: è come vedere uno yes-man aziendale che ritorna un adolescente idealista».
Che, si candidi o meno, ha già come avversario George W. Bush. Il presidente ha sempre considerato un impegno non suo la firma apposta proprio dallo stesso Al Gore a Kyoto, nel dicembre ‘97.

Border Patrol

Il razzismo corre via e-mail

Border Patrol, videogioco dove bisogna sparare agli immigrati messicani che varcano il confine, sta facendo il giro degli Stati Uniti attraverso l'email. La polemica s'infiamma

http://punto-informatico.it/p.asp?i=58970&r=PI

Wi-Fi City Sees Startup Woes

ST. CLOUD, Florida -- Joe Lusardi's friends back in New York couldn't believe it when he told them he'd have free internet access through this city's new Wi-Fi network. It's free all right, but residents are, to some extent, getting what they pay for.

More than a month after St. Cloud launched what analysts say is the country's first free citywide Wi-Fi network, Lusardi and others in this 28,000-person Orlando suburb are still paying to use their own internet service providers as dead spots and weak signals keep some residents offline and force engineers to retool the free system.

"Everybody's happy they were going to have it, but I don't know if they're happy right now," said Lusardi, a 66-year-old retired New York City transit worker.

The same troubles with the small town's big internet project could be lessons for municipalities from Philadelphia to San Francisco considering similar networks.

St. Cloud officials are spending more than $2 million on a network they see as a pioneering model for freeing local families, schools and businesses from monthly internet bills. It also promises to help the city reduce cell-phone bills and let paramedics in an ambulance talk by voice and video to hospital doctors.

Instead, what they have so far is a work in progress.

"All technology has its hiccups, and sometimes more than hiccups," St. Cloud Mayor Donna Hart said. "I think that it's going to be a major challenge, and it'll probably be a major challenge for some time until the technology is such that it works properly."

Wi-Fi is the same technology behind wireless internet access in coffee shops, airports and college campuses around the country.

Several cities have Wi-Fi hotspots, but St. Cloud's 15-square-mile network is the first to offer free access citywide, said Seattle-based technology writer Glenn Fleishman, who runs a website called Wi-Fi Networking News.

Other cities like Tempe, Arizona, have networks over a larger area (187 square miles), but access isn't free. Planned projects in places like Chicago and Philadelphia would also dwarf St. Cloud's network, but also require a fee for access.

Google and EarthLink are teaming up to build a $15 million Wi-Fi network across San Francisco, and their proposal is entering final negotiations. EarthLink's faster offering would cost $20 per month, while Google would provide a slower, free service financed by advertising.

St. Cloud launched the network on a trial basis in May 2004 in a new division of town to help give businesses an incentive to relocate. After further exploring the benefits, officials decided to expand it citywide.

Project supporters say increased efficiency in city government will cover the network's $2.6 million buildout and estimated $400,000 annual operating expense.

For example, phones that use the Wi-Fi network will allow it to cut cell-phone bills for police and city workers. The city can avoid adding 10 more building inspectors because the network will allow existing employees to enter and access data onsite instead of driving back to the office.

The network also could keep the estimated $450 that St. Cloud households now spend each year on high-speed access in the local economy.

As of last week, nearly 3,500 users had registered for the network, logging 176,189 total hours of use. St. Cloud contracted with Hewlett-Packard to build the project and provide customer support.

"HP is working with the city and its partners to optimize the solution and install additional access points to help improve signal strength in isolated areas of the city," the company said in a statement.

So far, there have been plenty of calls from frustrated residents. Some can see receivers from their homes and still can't sign on -- even on the porch. Others have tried to connect countless times.

Still, HP said that there were only 842 help-line calls out of more than 50,000 user sessions in the first 45 days of service.

At first, a desktop computer in Lusardi's house could use the Wi-Fi network with no problem, but his laptop would only work outdoors. Even then it was too slow and unreliable, so he kept his $20 per month Sprint DSL service.

Now the desktop doesn't even work, and he's completely abandoned the idea of dropping his pay service and using the network.

"It's just total frustration," Lusardi said. "I'm going to stay with the DSL and just forget it, because I don't think it's going to work. Very few people are going to use it, and they're going to say it's underutilized and they're going to shut it down."

Lusardi didn't shell out the money for a signal-boosting device St. Cloud recommends for those having trouble connecting -- City Hall sells them for $170.

Fleishman said the fact that others share Lusardi's frustration is a crucial technical and public relations problem for the vanguard project. He said residents should understand many won't be able to use the free network without additional equipment to strengthen the signal.

"It's very large and it's very ambitious, so they're going to hit some of these problems before some of the marketing and technology is out there," he said. "Products have to catch up to this new market."

Fleishman said other cities would likely have the same problems -- in bigger cities, even larger ones -- if they didn't fully inform the public of necessary equipment and network limits.

Former Mayor Glenn Sangiovanni, who spearheaded the project, stressed that kinks were still being worked out, but noted that not everyone was having problems.

"There's a lot of variables, and that's part of it," Sangiovanni said. "It could be the block construction you have, it could be the tin roof you have. There's lots of different things that could be unique to your environment as opposed to my environment.

"We went into this with the expectation that it's really a year plan that we're going to implement," he added. "You don't know what you're going to get into when you take on the whole city because you can't stress test that."

Ashley Austin, a freshman at nearby Florida Christian College, said she likes using the network to do homework on the city's picturesque downtown lakefront. She said it's also the only way to get online if internet service is down at the wireless telephone store where she works.

"So far I haven't had any problems with the use that I've gotten out of it," she said.

Resident Chuck Cooper, a former city commissioner, bought an antenna, but still gets a shaky connection. Navigating from one site to another still produces errors.

Generally, he says, it's slightly faster than dial-up access. But even critics like him are quick to praise the endeavor in between grumbles over early problems.

"All in all, I guess it's a good idea," Cooper said. "I equate it to cell phones 10 to 15 years ago. You used to have a lot of dropped calls, but now they're substantially better. Hopefully, this will get a little better a lot quicker."

Che brutto ambiente, e come è sconveniente dirlo

“AN INCONVENIENT TRUTH” DI AL GORE Arriva il film sul surriscaldamento climatico dell‘ex vicepresidente e candidato democratico nel 2000
Che brutto ambiente, e come è sconveniente dirlo
Il documentario, girato da Davis Guggenheim e presentato al Sundance Film Festival, ha per protagonista proprio Gore che, anche attraverso incursioni nella sua vita privata, descrive la minaccia del riscaldamento globale. Un modo per rientrare in politica dalla porta di servizio?
di STEFANO BALDOLINI

Europa Quotidiano di sabato 22 aprile 2006
Se è una strada per ritentare l’assalto alla Casa Bianca, quella scelta da Al Gore è la più tortuosa. Lo sintetizza bene il “Washington Post:”: «Il noioso Al Gore ha fatto un film. E sul soggetto più noioso di tutti: il Global Warming.» Stiamo parlando di “An Inconvenient Truth”, presentato al recente Sundance Film Festival, quello del cinema indipendente inventato da Robert Redford. Il documentario, girato da Davis Guggenheim, racconta degli sforzi di uno sconfitto Al Gore che va in giro per il paese a ripetere che il tempo è scaduto, il pianeta è in pericolo. La temperatura media sulla Terra continua ad aumentare a ritmi insostenibili. Tutta colpa dell’uso troppo esteso dei combustibili fossili che innesca un aumento nell’atmosfera dell’anidride carbonica e degli altri gas serra.
E in effetti non c’era tema più ostico, issue più inerte, che quello del riscaldamento globale per risvegliare l’immaginario degli americani, stregati dal sortilegio dell’11 settembre e sempre più inclini all’isolazionismo, dopo le fallite campagne in giro per il mondo ad esportare la democrazia. Idee forti, ci vogliono. Si pensi alla strategia di Karl Rove nel 2004, tutta lotta al terrorismo e demonizzazione del “flip flopper” Kohn Kerry. O all’ultima campagna contro l’Iran.
Eppure, se è una seconda vita politica - «The New New Gore», scrive l’“American Prospect” - quella dell’ex vice di Bill Clinton, riparte proprio dal clima. Il candidato sconfitto nel 2000 da George W. Bush, irriso per aver detto «di aver inventato Internet» a Wolf Blitzer della CNN nel marzo del 1999, sta riconquistando i media cavalcando formule mai comprese appieno come Kyoto o Co2. Poi si tratterà di conquistare le platee, a maggio, quando il suo film uscirà e insieme verrà pubblicato il libro.
Per ora, a giudicare dai commentatori, il tentativo sembra essere riuscito. «E’ una campagna che Gore non può perdere», scrive Richard Cohen sul “Washington Post”. Così in “An Inconvenient Truth” si vede Al Gore fare conferenze, ammonire platee, scegliere diapositive, preparare valigie, insomma niente di più eccitante (“amazing”, direbbero gli americani), verrebbe da dire. E c’è chi ci va giù pesante.
Per il sulfureo Doug Powers, commentatore di “The American Spectator”, la cattiva notizia è che Al Gore dice che siamo segnati, la buona è che ce lo dice Al Gore. Oppure «lo stile da climatologo», di Al Gore, sembra quello di uno scienziato per i quali «la precisione delle previsioni cresce quanto la distanza con la scadenza.»
Ma il film al Sundance è piaciuto, e soprattutto è piaciuto Al Gore, che esce con una luce nuova dall’esperienza.
Merito dell’autorevolezza (pur ingessata) che emana. Delle immagini spettacolari, dei ghiacciai che si sciolgono, dei poveri orsi polari che soffrono, ma non solo.
Tutto questo c’era anche due anni fa, nel maggio del 2004, quando un regista con ben altri mezzi e ambizioni come Roland Emmerich (quello di “Independence day”) provò a conquistare le platee raccontando di una nuova era glaciale in “The Day After Tomorrow”.
E l’effetto serra – e gli effetti speciali – esistevano anche ai tempi della proiezione newyorchese organizzata da “MoveOn”, la creatura online cavalcata da Howard Dean, per lanciare il kolossal che avrebbe dovuto aiutare il candidato democratico John Kerry nel novembre successivo. «Bush non ha capito che l’effetto serra è una minaccia equivalente a quella del terrorismo», spiegava Peter Schum, di Move On, alla platea.
Dove oltre a Robert Kennedy, nipote di JFK, sedeva Al Gore stesso. Che, dopo aver visto gli eroi Dennis Quaid e Jake Gyllenhaal salvarsi dall’estinzione, presentò uno slide show che colpì molto.
Il risultato fu che qualche tempo dopo, Lawrence Bender (produttore di Quentin Tarantino) e Jeffrey Skoll (miliardario guru di Ebay), proposero di usare quelle immagini per il film. Qualche problema sorse per via del fatto che erano vecchie immagini del figlio di Al Gore, ma poi tutto si risolse.
E anzi proprio le incursioni nella vita di Gore sembra sia uno dei punti di forza di “An Inconvenient Truth”. L’incidente d’auto che per poco non uccise il figlio, la sua sconfitta in Florida, e la morte di sua sorella per un cancro causato dal fumo, avvalorano le ragioni del suo attivismo ambientale che oggi potrebbe finalmente “arrivare”: il pubblico è pronto a recepire il messaggio.
E se questo accadrà, probabilmente gran merito va a Katrina. A New Orleans sommersa dalle acque, ai ritardi dei soccorsi, ai dispersi, ai senza tetto. L’emergenza, percepita sinora lontana, è arrivata nelle case, né più né meno delle torri fumanti di New York.
Il problema non è secondario. C’è il solito paradosso da risolvere. «Come possiamo spronare i nostri leader ad evitare una catastrofe la cui ricompensa politica sarà appannaggio di qualcun altro, tra decenni, o anche secoli?», si domanda Rob Nixon su “Slate”.
Per farsi aiutare nei suoi sforzi Al Gore ha assunto Roy Neel, da oltre trentanni uomo chiave nella macchina politica dei democratici e alla Casa Bianca con Clinton. Il mese scorso in Tennesse ha escluso ogni volontà di ricandidarsi. Si concentrerà sul global warming e probabilmente terrà una sessione estiva a Nashville per capire come comunicare l’”emergenza planetaria”. In questo senso, nel nuovo Field Notes from a Catastrophe, Elizabeth Kolbert nota come ci siano stati grossi errori. A cominciare dall’aggettivo ”global” per esempio, «fiacco, impopolare, stanco.» Difficilmente in grado di riscaldare i cuori, spingere all’azione.
A comunicare il rischio, Al Gore, ci aveva già provato, e bene, nel 1992 con Earth in the Balance.
Oggi, «sui blog, nelle riviste, tra opinionisti ed esperti, ‘Al Gore 2008’ è al tempo stesso un grido di battaglia e un gioco a quiz», scrive “American Prospect”. L’impressione è quella di «una strana traiettoria: è come vedere uno yes-man aziendale che ritorna un adolescente idealista».
Che, si candidi o meno, ha già come avversario George W. Bush. Il presidente ha sempre considerato un impegno non suo la firma apposta proprio dallo stesso Al Gore a Kyoto, nel dicembre ‘97.

Thursday, April 20, 2006

Il “cervello di George” dà l’addio. E anche la sua voce torna in Texas


di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano di oggi, giovedì 20 aprile 2006

Lungamente annunciato, infine arriva il terremoto politico alla Casa Bianca. Il calo nei sondaggi (appena al 36 per cento negli ultimi Gallup) e l’avvicinarsi delle elezioni di mid term del prossimo novembre, colpiscono “due uomini” del presidente. Si dimette il portavoce, il texano Scott Mc Clellan, alla pressroom da due anni e nove mesi, e da sette al servizio del compaesano George W. Bush (la madre di Mc Clellan è candidata a governatore). Ma soprattutto, perde alcune delle sue competenze – ufficialmente per occuparsi proprio della campagna elettorale – l’”architetto” delle vittorie alle elezioni del 2000 e 2004, il “cervello” del presidente (per credere si legga “Bush’s Brain: How Karl Rove Made George W. Bush Presidential” James C. Moore, Wayne Slater).
Quel Karl Rove, ispiratore della campagna di demonizzazione contro Kerry, il candidato “flip-flopper”.
Già al servizio di Bush senior. E che del figlio dichiarava, la prima volta che lo vide: «Emanava più carisma di quanto qualsiasi individuo dovrebbe essere autorizzato ad avere». Tanto da ispirargli la “Mission Accomplished”, l’atterraggio del presidente in stile Top Gun sulla portaerei Lincoln. Era il primo maggio del 2003.
Tre anni dopo, come da copione tragico che si rispetti, è lo stesso Mc Clellan a recitare il proprio epitaffio. Dichiarando alla stampa solo lunedì scorso: «È tempo di rinfrescare e ravvivare» la squadra del presidente. Quello che il portavoce stava leggendo, era un comunicato firmato dal nuovo capo dello staff della Casa Bianca, Josh Bolten, che senza mezzi termini invitava i responsabili delle sconfitte a fare un passo avanti.
Torna dunque nel suo Texas, il secondo portavoce dell’amministrazione Bush (il suo predecessore Ari Fleischer, di cui era stato il vice, si era dimesso nel maggio 2003), ma non prima di due - tre settimane. «Le ho dato tutto, signore, e continuerò a farlo nel periodo della transizione». Dovrebbe essere sostituito da Don Senor, già portavoce dell'ex capo dell’Autorità provvisoria della coalizione in Iraq.
«Dobbiamo imparare dai nostri successi, e dai fallimenti degli altri», così Karl Rove, lo scorso 20 gennaio, sferzava il partito repubblicano. Alle prese con le prime crepe di quella Republican Majority vaticinata per la prima volta nel 1969, quando venne dato alle stampe un libro che prefigurava un lungo periodo di dominio del partito (K.P. Phillips, “The Emerging Republican Majority”, 1969).
«Il progresso del Grand Old Party negli ultimi quattro decenni è un magnifico risultato politico», ammoniva Rove, ma c’è una storia che un partito dominante non dovrebbe mai dimenticare: è «quando il suo pensiero diventa cristallizzato; quando le sue energie cominciano a prosciugarsi; quando il potere politico diventa un fi- ne in se stesso piuttosto che un mezzo per raggiungere un obiettivo comune.» Si riferiva ai democratici. Ma anche al calo d’immagine del partito, accusato di corruzione, e soprattutto alla sua vicenda, allo “scandalo CiaGate”, che è costato il posto al capo di gabinetto del vice-presidente Dick Cheney, I. Lewis “Scooter” Libby. Così giocando con la popolarità non voluta, aggiungeva: «Qualcuno vuole una foto sulla stampa? Venga qua sopra.» Dunque ecco il “rimpasto” annunciato da giorni dai commentatori politici americani. Un passaggio necessario. Rove era stato nominato un anno fa vice capo di gabinetto responsabile del coordinamento politico. Il suo posto sarà preso da Joel Kaplan, attuale vice direttore del Bilancio alla Casa Bianca.
Martedì il presidente Usa aveva annunciato la nomina di Rob Portman a direttore del Bilancio. L’incarico di rappresentante per il Commercio era quindi passato alla sua vice, Susan Schwab. Portman, a sua volta, ha sostituito Josh Bolten, capo dello staff della Casa Bianca dopo le dimissioni di Andrew Card.
A questo punto l’unico che resta al suo posto è Donald Rumsfeld, nonostante le pesanti critiche sulla sua conduzione della guerra in Iraq e il suo coinvolgimento nelle torture dei prigionieri islamici.
Ma Donald Rumsfeld non è “scaricato”. «Io sento tutte le voci, – conferma Bush – leggo le prime pagine dei giornali e so quali sono le speculazioni che si fanno. Ma sono una persona che decide, e deciderò per il meglio. E il meglio è che Don Rumsfeld, che sta facendo un ottimo lavoro, rimanga segretario alla difesa » A stretto giro, secondo le previsioni dei principali giornali statunitensi, dovrebbero esserci altre sostituzioni. Il prossimo a dimettersi dovrebbe essere il segretario al tesoro John Snow.
Secondo il New York Times, guiderebbe il partito del rimpiazzo di Snow lo stesso Josh Bolten, fermo sostenitore della necessità che l'amministrazione abbia bisogno di una persona che sappia comunicare all'America che l’economia va forte. In linea con le sue origini – Bolten viene da Goldman Sachs – a sostituire Snow potrebbe essere un vip di Wall Street. Tra i nomi che circolano ci sono quelli di Stanley O'Neal, un nero dell’Alabama diventato capo di Merril Lynch, o Henry Paulson, Ceo di Goldman Sachs stessa.

Wednesday, April 19, 2006

Su Pechino si scatena l'apocalisse di sabbia

Soffocata da una nube, la capitale cinese a caccia di pioggia
e il governo vuole "bombardare" la nuvola di polveri e smog

Su Pechino si scatena
l'apocalisse di sabbia

Finora i tentativi di arginare il disastro si sono rivelati inefficaci
Le sostanze tossiche cinesi arrivate in Corea, Giappone e Usa
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Sciopero alla Feltrinelli: «Rotto un tabù»

Prima protesta nell'azienda che pubblicò Negri e la Cederna
Sciopero alla Feltrinelli: «Rotto un tabù»
I commessi: ormai qui è come al supermarket. La replica dell'azienda: «No, il lavoro è migliorato»

Corriere

Lezioni americane

Lezioni americane
di Stefano Fassina

Nell'interpretazione del voto, il centro-sinistra non deve cadere nella trappola della «Grande Divisione» del paese. È la stessa trappola ideologica che gli strateghi del Partito Repubblicano di George Bush tesero al Partito Democratico post-Clinton. Proposero l'immagine di un’America divisa in due antropologie: l'elite e la middle class intellettuale da una parte, le working families dall'altra. In tale trappola cadde una parte della leadership democratica nella campagna elettorale del 2004.
Ricordate? L’area liberal dell'intellettualità e delle organizzazioni di orientamento democratico (lautamente finanziate da grandi magnati della finanza come Soros) sposarono la lettura della Grande Frattura Culturale (The Great Cultural Divide). Finanziarono anche la distribuzione gratuita di un volume, largamente pubblicizzato dall'acquisto di intere pagine di grandi quotidiani. Il titolo era «metro vs retro».

Gli elettori Democratici si autorappresentavano come metro. Gli elettori Repubblicani erano, invece, retro. Si proponeva il paradigma di un'America metro-metropolitana, colta, moderna, aperta al mondo, «europea», principalmente collocata sulle fasce costiere del New England e della West Coast - contrapposta ad un'America retro - arretrata, bigotta, chiusa nelle campagne del sud e del mid-West. Il tentativo fatto in estremis da Bill Clinton alla Convention Democratica di Boston per riportare l'analisi e l'iniziativa sul terreno politico-programmatico fu tardivo e non riuscì a ribaltare l'immagine elitaria costruita intorno a Kerry. Con grande sollievo dei Repubblicani, il messaggio democratico continuò ad essere elaborato all'interno di una piattaforma culturale subalterna e, quindi, perdente. In tale quadro, fu facile per Karl Rove, consigliere politico del Presidente, presentare le proposte di Kerry come inadeguate a rappresentare gli interessi della maggioranza dei cittadini Usa, in quanto frutto di una elite lontana dalla pancia del paese, alla quale il sempliciotto George Bush, così facile alle gaffes, invece parlava.

È vero che l'Italia è un paese diviso in due sul versante elettorale. Non è vero che si tratta di una divisione lungo assi storico-politici (fascismo-antifascismo, comunismo-anticomunismo, clericalismo-anticlericalismo), antropologico-culturali (gli individualisti-anarcoidi del Nord e gli statalisti-assistenzialisti del Sud da una parte; gli «europei» del Centro dall'altra); o economico-corporativi (lavoratori dipendenti versus lavoratori autonomi e professionisti), come alcuni illustri commentatori conservatori indicano.
Questa è la lettura fatta propria da Berlusconi, semplificata sul terreno mediatico-elettorale nella contrapposizione Berlusconiani/antiberlusconiani per delegittimare l'avversario-nemico. La divisione elettorale riconfermata dal voto è, in realtà, in larga parte riconducibile al terreno politico e programmatico. Ovviamente, in ciascuna coalizione vi sono aree sociali e politico-culturali molto omogenee, fortemente identitarie, lontane anni luce l'una dall'altra, irriconciliabili e indisponibili al riconoscimento e alle legittimazione reciproca. Ma questa non è una specificità, un'anomalia, italiana. Non è, come pure qualcuno sostiene, frutto del vizio di origine di una Repubblica nata dall'incontro innaturale, ma dettato dalle circostanze storiche, di due «partiti-chiesa», la Dc e il Pci. Al contrario, la presenza di aree identitarie contrapposte accomuna tutte le società avanzate. Per ritrovarla, sarebbe sufficiente guardare agli Usa, una realtà politica da sempre sprovvista di partiti forti, sul piano ideologico ed organizzativo.

Il fatto che dall'inizio degli anni '90 non vi sono stati significativi cambiamenti di collocazione elettorale non dipende quindi dalla presenza di blocchi ideologici ed economici monolitici. Anzi, sorprende che i cantori delle società complesse, post ideologiche, senza più operai e classi sociali, fatte di consumatori e telespettatori differenziati solo nel potere d'acquisto, tirino fuori per l'occasione un impianto teorico così a lungo rigettato.
La divisione elettorale dell'Italia, al contrario, è politico-programmatica, dipende dal fatto che le fondamentali proposte di programma ed i principali soggetti proponenti sono rimasti immutati negli ultimi 10 anni. Di fronte ad un'offerta sempre uguale a se stessa, gli elettori rispondono sempre allo stesso modo, quando la posta in gioco è alta come nel caso delle elezioni politiche. Nel caso delle elezioni amministrative ed europee, alcuni di loro (alcuni milioni di loro), in particolare nel centro-destra, si distraggono, si concedono il lusso della stanchezza e rimangono a casa.

Lo straordinario risultato dell’Ulivo alla Camera rispetto ai voti raccolti da Ds e Margherita al Senato (2,3 milioni conquistati sui 4 milioni di voti aggiuntivi disponibili, ossia una percentuale del 57 per cento), conferma che una pur minima, ma significativa, innovazione politica paga. Anche soltanto la prospettiva potenziale di un futuro Partito Democratico e delle immaginate innovazioni di cultura politica, di classe dirigente, di organizzazione ad esso connesse è stata sufficiente a spostare centinaia di migliaia di voti dal centro-destra al centrosinistra e ad attrarre il voto di moltissimi under-25, come ha opportunamente ricordato Nicola Cacace ieri su questo giornale.

Procedere lungo la strada dell'innovazione politica e programmatica è la soluzione per sbloccare il paese, superarne le divisioni, normalizzare il bipolarismo. Costruire l’Ulivo nel centro-sinistra e un'analoga aggregazione nel centro-destra è la risposta. Non porta da nessuna parte la scorciatoia della Grande Coalizione, obbiettivo implicito di quanti insistono sulle divisioni ideologiche del paese.

Una Grande Coalizione, finalizzata a rompere gli attuali schieramenti e, in particolare, il centro-sinistra ed i Ds per far nascere un Partito Democratico light, indebolirebbe le potenzialità riformatrici di cui, nonostante tutto, il paese dispone. La risicata maggioranza dell’Unione al Senato è un fattore di debolezza da trasformare in una straordinaria opportunità per la costruzione di un forte soggetto politico unitario, ricco delle migliori esperienze del riformismo italiano, aperto ai necessari apporti della società civile. L'Italia può ritornare a crescere e collocarsi stabilmente nel nucleo dei paesi leader in Europa se anche il suo sistema politico, non solo la sua economia, fa un salto di qualità.

Da l'Unità del 13.04.2006

Non-Allineati: lo sviluppo parte dal web

Dall'India all'Africa, notizie e scambi visti dai Paesi emergenti

Un canale privato per le notizie delle nazioni in via di sviluppo. In inglese, francese, spagnolo e arabo con ottica non americana

Danilo Taino sul Corriere

Tuesday, April 18, 2006

Opec: crescita economica mondiale a rischio

Per l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l'alto prezzo del greggio rallenta lo sviluppo delle economie industrializzate
correire

Reporter contro l'uragano il Pulitzer agli eroi di New Orleans

Il prestigioso premio ai giornalisti del "Times-Picayune"
e del "Sun Herald" per il loro lavoro durante Katrina

Reporter contro l'uragano
il Pulitzer agli eroi di New Orleans

Riconoscimenti anche al "New York Times" per le intercettazioni
senza mandato e al "Washington Post" per le prigioni della Cia

Repubblica

Trent'anni, e non se ne vanno, il "mammonismo" contagia gli Usa

Gli americani hanno scoperto il fenomeno con il film "A casa con i suoi"
e nasce un "Boys Project" per capire "che cosa è successo ai ragazzi"
di ALESSANDRA VITALI
Repubblica

Senator Has $20 Million for Reelection, Possible Presidential Bi

Clinton Sets Bar for '08 Funds

Senator Has $20 Million for Reelection, Possible Presidential Bid

By Chris Cillizza
Special to The Washington Post
Tuesday, April 18, 2006; Page A03

Candidates eyeing 2008 presidential bids collected millions for a variety of campaign committees over the first three months of the year, with New York Democratic Sen. Hillary Rodham Clinton far ahead of the pack.

Saturday, April 15, 2006

Womenomics, il futuro dell'economia è donna

SCENARI
Sorpresa, il motore della “global economy” è donna
di STEFANO BALDOLINI
Europa di oggi, sabato 15 aprile 2006
Dimenticate i giganti asiatici: la Cina con il suo tasso record di crescita del Pil, o l’“India Everywhere” sbarcata in massa all’ultimo forum di Davos. Mettete da parte Internet, l’eterna chimera dello sviluppo. Il futuro dell’economia mondiale è nelle mani delle donne, di una risorsa antica quanto il mondo.«Oggi, il motore più potente della crescita globale », scrive l’Economist, che non esita a coniare l’ennesimo neologismo: Womenomics. In uno storico ribaltamento di prospettiva, «le future generazioni arriveranno a chiedersi perché un uomo non può essere come una donna». E questo accadrà perché ormai le ragazze vanno meglio dei loro coetanei a scuola, si laureano di più, e trovano più lavoro.Se negli anni ‘50 solo un terzo delle donne americane aveva un lavoro pagato, oggi la proporzione si è ribaltata. A fronte di un calo del dodici per cento del tasso d’occupazione maschile.Il passaggio dalla produzione pesante al terziario è stato decisivo in gran parte delle economie sviluppate.Dove naturalmente ci sono delle eccezioni, come l’Italia, la Germania o il Giappone, lontane dagli standard dei paesi nordici europei. Ma «se la partecipazione al lavoro delle donne di questi paesi raggiungerà i livelli degli Stati Uniti, si potrà vedere una spinta di grande aiuto alla crescita», predice l’Economist.Poi ci sono le solite contraddizioni dei paesi in via di sviluppo. Il record del sud-est asiatico, con 83 donne su cento uomini occupati, la media più alta dei paesi Ocse. Le donne in prima fila nel boom dell’export in campi come il tessile. Ed è impossibile non ricordare che del miliardo e mezzo di persone che nel mondo vivono con meno di un dollaro al giorno, la maggioranza è ancora composta da donne: la cosiddetta feminization of poverty.Ma a dispetto delle macroscopiche differenze, è proprio il potenziale inespresso a foraggiare l’ottimismo nella Womenomics. «A dispetto dei risultati, le donne rimangono forse la risorsa maggiormente sotto-utilizzata del mondo».D’altra parte il legame tra pari opportunità e competitività era già emerso nel “Gender Gap Index”, la classifica stilata dal Forum economico mondiale nel maggio dello scorso anno: i paesi più competitivi tendono ad avere il minore gender gap e viceversa. Ora è il momento di capitalizzare la conoscenza di tale dato. Partendo dal presupposto che investire nelle donne non può che produrre sviluppo.Come dichiarava l’Unicef alla presentazione del “Progress for Children 2005”: «L’istruzione è qualcosa di più del semplice apprendimento. In molti paesi essa è una via di salvezza, specialmente quando si tratta delle bambine. Una bambina esclusa dalla scuola è una più facile preda dell’Aids e ha meno possibilità di creare una famiglia sana».Altre ricerche dimostrerebbero come le donne ormai si fanno apprezzare anche quando diventano soggetti attivi. Uno studio della Merrill Lynch (aprile 2005) dimostrava che fanno meno errori degli uomini nella valutazione degli investimenti e soprattutto tendono a non ripeterli. Il tutto sarebbe legato a una differente percezione del denaro, che gli scienziati del comportamento confermano legata al genere.Certo, la strada verso la Womenomics sembra ancora lunga. La differenza nei compensi e nelle responsabilità, lo starebbe a dimostrare. Lo stesso Economist scriveva nel luglio 2005 che nei paesi ricchi le donne sono quasi la metà della forza lavoro, ma occupano meno di un decimo dei ruoli direttivi nelle grandi imprese. Causa della discriminazione, soprattutto le assenze per maternità: quando tornano al lavoro le donne sono meno considerate perché «la disponibilità di tempo è fondamentale per gli avanzamenti di carriera». Di qui la necessità di strumenti flessibili e innovativi. E forse anche di un mutamento nel linguaggio.In questo senso le parole dell’economia non aiutano, e lo stile del settimanale britannico evoca passati quantomeno da esorcizzare – come le politiche delle nascite adottate da Pechino – quando invita i genitori nei paesi ricchi ad abbandonare ogni preferenza per i figli maschi e con lucido pragmatismo scrive: «le bambine ora sono l’investimento migliore». Ma siamo sicuri che è puro gusto british per il paradosso.

Thursday, April 13, 2006

Troppi rumori per un grande silenzio

E’ uscito anche in Italia il film-documentario che il regista tedesco Philip Groning ha girato alla Grande-Chartreuse dei certosini di Grenoble, nel più austero e più antico luogo (risale al 1804) di silenzio e di contemplazione d’Europa, soggiornando con i monaci per sei mesi. Il grande silenzio (come recita il titolo del film) è, nella tradizione monastica, quello che scende dalla compieta della sera a mattutino. Ma qui sono quasi tre ore non già di silenzio, e neppure di introduzioni alla spiritualità certosina, ma di captazione dei “rumori del silenzio”: zoccolìi sugli assiti, corde delle campane, qualche raschio di mestolo, di lavori manuali: seghe per la legna, forbici per tagliar mantelle, di rasoi elettrici per la tonsura dei capelli. Poi scrosci di pioggia, qualche voce nella preghiera notturna, qualche frammento di dialogo nell’uscita domenicale. E moltissimi primi piani per preservare volti e sguardi, prima che scompaiano gli ultimi testimoni (19 monasteri, 370 monaci in tutto).

In Germania ha avuto un successo trionfale e i primi giorni italiani sono promettenti. Il regista voleva offrire una meditazione sul tempo e la cercava là dove essi è più raccolto nella sua essenzialità, dove l’”avvenimento” del contingente non esiste perché tutto il quotidiano è regolato e assorbito nel ritmo del sempre. Invece, ciò che accade nel film è il ritorno di continue interruzioni, che non fanno una continuità; di movimenti che non già il silenzio riassorbe ma che senza posa attivano rumori, presi da vicino, con le pinzette dell’entomologo, mai pacificati nella coralità di una distanza da noi, dagli altri, dai gesti stessi.

Il silenzio non è assenza di rumore ma conquista di interna quiete: certo i monaci l’hanno se si sono lasciati filmare da tanta indiscrezione; ma non il regista, ossessionato da un “positivismo” del suono che resta alla superficie dei corpi solidi e mai si lascia attraversare dagli abissi dei silenzi – di angoscia e di pace – delle anime. L’assenza di parola e di canto si vorrebbe “compensata” da una sovrabbondanza di colori di alto manierismo, raramente illumpidi tuttavia da trasparenza di sguardo.

Ne esco avvilito, per l’occasione perduta, dal regista, da noi. E penso – con nostalgia e profonda riconoscenza – ai pochi minuti di silenzio che Robert Bresson (Mouchette, Au hasard Balthazar), e prima Dreyer e Bergman e poi Ermanno Olmi ci hanno offerto. Tante volte, nella vita, abbiamo sognato la Grande-Chartreuse: non meritava di finire così, con quel reboante “die grosse”, grosso, grande, “ispessito silenzio”, ma privo della “profondissima quiete” dell’Infinito; resta il ronzìo delle opere che tutto rende uguale, in fondo, indistinto: chiuso nel profano.

(Carlo Ossola, Troppi rumori per un grande silenzio, Domenica del "Sole 24 ore" 9 aprile 2006)

ARRIVANO I GRUPS

DA STAR TREK AI PARCHI DI NEW YORK.
ARRIVANO I GRUPS, ADULTI MA BAMBINI

STEFANO BALDOLINI
Su Europa, di domenica 9 aprile 2006, edizione straordinaria

Se di martedì pomeriggio, in pieno orario d’ufficio, vi trovate in un parco di New York e incontrate un uomo (o una donna) di quarant’anni, che gesticola come un ventenne, parla come un ventenne, si veste come un ventenne, non ci sono dubbi. Quello (o quella) che avete di fronte è una delle ultime versioni dell’essere umano metropolitano e postindustriale: un rappresentante dei Grups.
Crasi di “grown-ups” – letteralmente adulti – il termine, con una certa coerenza, prende origine da un episodio della saga tv di Star Trek nella quale la mitica navicella del capitano Kirk atterra in un pianeta dove i ragazzini dominano incontrastati. Laddove non c’è traccia degli adulti, un diabolico virus ha rallentato drammaticamente il processo di crescita, e ucciso chi è diventato grande.
Un episodio che, per ingenuità e semplicità di scrittura, probabilmente farebbe intenerire Steven Johnson, l’autore cult di “Everything Bad is Good for You”, che proprio a partire dall’evoluzione dei telefilm ha provato a smantellare lo stereotipo della cultura di massa intesa come un’irrimediabile caduta verso il basso, un imbarbarimento senza fine.
Ma il giornalista e blogger (“obviously”) probabilmente non avrebbe il tempo di analizzarne la struttura narrativa. Dovrebbe rendere conto dei Grups. Pare infatti che questi abbondino a Slope Park, il bel quartiere dove vive, e dove vivono Paul Aster o John Turturro.
Ma non bisogna pensare che la loro, sia l’ennesima moda buona per gli artisti e i soliti radical. Concentrati a fare jogging, con il loro Ipod ultima generazione, i Franz Ferdinand a tutto volume, e le nuove sneakers ai piedi (le scarpette da ginnastica leggere come una piuma), i Grups non sono una delle tante tendenze, piuttosto un fenomeno che pare destinato a durare.
«Il necrologio del gap generazionale», scrive il Adam Sternbergh sul New York, il settimanale “antenna” della città. Esagerando, ma con stile: «Un terremoto nelle relazioni intergenerazionali», senza «alcun precedente nella storia umana».
Si pensi alla musica, fino a poco tempo fa, il vero e proprio spartiacque. Con i padri a realizzare che il loro tempo era scaduto, quando non capivano più la “robaccia” che ascoltavano i loro figli. Ma oggi, si chiede con efficacia Sternbergh, «perché i grandi dovrebbero odiare gruppi come Interpol se il loro sound è identico a quello dei loro amati Joy Division?» E d’altra parte, «perché dovrebbero provare disgusto per i Bloc Party», quando magari dopo averli “scaricati” da Internet, «li trovano nettamente migliori» dei gruppi della loro generazione?
Certo, tutto questo crea qualche problema. «La cosa imbarazzante per me – dice un quarantaduenne produttore tv – è vedere l’effettiva cultura della mia giovinezza riciclata in un ironico kitsch.» Vista dall’altra parte, l’inedita armonia tra le generazioni potrebbe portare a conseguenze diaboliche.
Il punto è: la società può permettersi tutta questa giovinezza? Che prezzo pagherà? Produrrà – per restare in tema sitcom – tanti piccoli Alex P. Keaton, il giovane adulto più conservatore dei genitori interpretato negli ’80 da Michael J. Fox? «I nostri figli sono destinati a diventare repubblicani», predice una madre Grup trentenne.
«L’ultima volta che dai teenagers non ci si aspettava una ribellione - nota con amarezza il New York – era perché gli stessi erano costretti nelle miniere all’età di tredici anni.»
Già, il lavoro. Ebbene, è proprio il loro rapporto con la responsabilità, a differenziare questi Peter Pan in versione cool da altri celebri gruppi, come i bobo, o gli yuppie.
Considerati degli slackers, i fannulloni venticinquenni degli anni ’90, quelli che in piena new economy inventavano savescreen per simulare sofisticati fogli di calcolo da attivare premendo un tasto all’apparire dei capi (vedere per credere siti tipo Ishouldbeworking.com), per i Grups «il successo non è quanti dipendenti hai, ma quanto libertà di farsi una passeggiata».
Probabilmente non hanno bisogno del life coach. Dell’allenatore dell’anima, che aiuta a raggiungere l’armonia del corpo e della mente, a individuare gli obiettivi e scoprire come raggiungerli.
L’ultima tendenza (questa sì) dell’industria dello spettacolo americano, visto che la International Coach Federation ha raddoppiato i suoi membri dal 2001… Un lavoro di successo per chi aspira al successo. Da non confondere con altre figure professionali. «La differenza con la psicoterapia – spiega al quotidiano un life coach e terapista (nel suo portafoglio clienti anche la band rock Metallica) – è che la prima aiuta la gente a curare una ferita, la seconda a far raggiungere il più alto livello di soddisfazione, felicità o successo.»
A caro prezzo. Per farsi aiutare da un “allenatore dell’anima “ esistono pacchetti da tre a sei mesi, Un’ora e mezza di sessione individuale costa in media duecento dollari. Il prezzo di un paio di jeans assolutamente cool.
Buono per i teenager, ma anche per i Grups.

Thursday, April 06, 2006

Real Security

STATI UNITI

di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano di giovedì 6 aprile 2006

Eliminare Osama bin Laden, potenziare le truppe e la protezione nazionale in linea con la commissione d’inchiesta sull’11 settembre, lavorare per una «transizione significativa in Iraq», continuare la lotta al terrorismo «combattendo le condizioni socio economiche e politiche» in cui gli estremisti proliferano, uscire dalla dipendenza dal petrolio.
Sono i punti principali della “Real Security – The Democratic Plan to Protect America and Restore Our Leadership in the World”, la nuova strategia di sicurezza nazionale dei democratici americani.
Il segnale per accreditarsi come forza di governo in vista delle elezioni di mid-term del prossimo novembre, e una risposta al recente aggiornamento della dottrina preventiva, il primo dall’emanazione del settembre 2002.
Coerentemente con l’unico passaggio ispirato – lo slogan tough and smart – il documento è decisamente agile (appena sei pagine, tre in inglese e tre in spagnolo) e non concede molto all’immaginazione.
«Dov’è la visione?», si chiede Fred Hiatt, columnist del Washington Post. «Non c’è un dibattito sui valori, non si parla di libertà o solidarietà, di libero mercato o aiuti allo sviluppo», scrive Hiatt, che affonda il colpo: «I sondaggisti saranno soddisfatti, ma John F. Kennedy non riconoscerebbe il suo partito».
In effetti il documento non è di quelli memorabili, ma dopo anni di fervida immaginazione, c’è quasi da essere sollevati. Non ci sono crociate, concessioni alla linea neocon dell’esportazione della democrazia, o “assi del male” da annientare. Persino gli spauracchi dell’amministrazione Bush sono liquidati in due righe: «Raddoppiare gli sforzi per fermare lo sviluppo delle armi nucleari in Iran e Corea del Nord». Così, svuotata della dimensione ideologica, la questione cruciale della sicurezza – issue che è costata caro a John F. Kerry – si configura come un elenco di provvedimenti resi necessari dal fallimento dell’amministrazione Bush. «Una pericolosa incompetenza ha reso l’America meno sicura», ha dichiarato il leader dei democratici al senato, Harry M. Read, spalleggiato dall’ex segretario di stato di Bill Clinton, Madeleine K. Albright.
A partire dal primo dei cinque paragrafi, dedicato alle “forze armate del 21esimo secolo”. Dove, “forti” dello stallo nella campagna in Iraq, delle oltre mille vittime di guerra, i democratici si limitano ad annunciare «gli investimenti necessari» per «proteggere l’America quando e dove necessario»; «garantire l’equipaggiamento di protezione, l’addestramento necessario» delle truppe; assicurare che «mai saranno inviate in guerra senza informazioni accurate e una strategia per il successo».
Per trovare delle assonanze con il linguaggio dei repubblicani, si deve guardare al capitolo seguente, chiamato «War on Terror». Centrato sulla caccia a Osama bin Laden, e sulla «fine del lavoro » in Afghanistan, ma anche sulla lotta al degrado politico economico e sociale dei paesi dove operano i network terroristici. Qui la differenza con un Norman Podhoretz, è sfumata, ma c’è. Basta riandare al settembre 2004 quando il teorico neocon scriveva su The Commentary: «Il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici.
Le paludi in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell’oppressione politica». Meno netto pare lo scarto sull’unilateralismo – «rinnovare alleanze a lungo termine» e guidare sforzi internazionali per sostenere e difendere i diritti umani» – ma solo perché parzialmente abbandonato anche dalla rivisitazione della dottrina Bush. Rimane la centralità degli Stati Uniti nel mondo, ma anche qui, si tratta di una «una leadership da restaurare».
Con la sicurezza nazionale, torna l’atto d’accusa.
«La tragedia di Katrina ha dimostrato che il governo federale non era ancora preparato a rispondere » alle esigenze emerse con l’11 settembre. Di qui la necessità di sorvegliare i confini, porti ed aeroporti; di operare screening su container e cargo; di prevenire «l’outsourcing di componenti critici» del sistema delle infrastrutture (il riferimento è alla vicenda della cessione dei porti a Dubai). Infine l’Iraq, che nel 2006 dovrebbe acquistare la «piena sovranità », e la questione energetica con l’obiettivo di «rendere indipendenti gli Stati Uniti entro il 2020» dal petrolio del Medio Oriente, e da «altre regioni instabili del mondo».