Thursday, April 20, 2006

Il “cervello di George” dà l’addio. E anche la sua voce torna in Texas


di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano di oggi, giovedì 20 aprile 2006

Lungamente annunciato, infine arriva il terremoto politico alla Casa Bianca. Il calo nei sondaggi (appena al 36 per cento negli ultimi Gallup) e l’avvicinarsi delle elezioni di mid term del prossimo novembre, colpiscono “due uomini” del presidente. Si dimette il portavoce, il texano Scott Mc Clellan, alla pressroom da due anni e nove mesi, e da sette al servizio del compaesano George W. Bush (la madre di Mc Clellan è candidata a governatore). Ma soprattutto, perde alcune delle sue competenze – ufficialmente per occuparsi proprio della campagna elettorale – l’”architetto” delle vittorie alle elezioni del 2000 e 2004, il “cervello” del presidente (per credere si legga “Bush’s Brain: How Karl Rove Made George W. Bush Presidential” James C. Moore, Wayne Slater).
Quel Karl Rove, ispiratore della campagna di demonizzazione contro Kerry, il candidato “flip-flopper”.
Già al servizio di Bush senior. E che del figlio dichiarava, la prima volta che lo vide: «Emanava più carisma di quanto qualsiasi individuo dovrebbe essere autorizzato ad avere». Tanto da ispirargli la “Mission Accomplished”, l’atterraggio del presidente in stile Top Gun sulla portaerei Lincoln. Era il primo maggio del 2003.
Tre anni dopo, come da copione tragico che si rispetti, è lo stesso Mc Clellan a recitare il proprio epitaffio. Dichiarando alla stampa solo lunedì scorso: «È tempo di rinfrescare e ravvivare» la squadra del presidente. Quello che il portavoce stava leggendo, era un comunicato firmato dal nuovo capo dello staff della Casa Bianca, Josh Bolten, che senza mezzi termini invitava i responsabili delle sconfitte a fare un passo avanti.
Torna dunque nel suo Texas, il secondo portavoce dell’amministrazione Bush (il suo predecessore Ari Fleischer, di cui era stato il vice, si era dimesso nel maggio 2003), ma non prima di due - tre settimane. «Le ho dato tutto, signore, e continuerò a farlo nel periodo della transizione». Dovrebbe essere sostituito da Don Senor, già portavoce dell'ex capo dell’Autorità provvisoria della coalizione in Iraq.
«Dobbiamo imparare dai nostri successi, e dai fallimenti degli altri», così Karl Rove, lo scorso 20 gennaio, sferzava il partito repubblicano. Alle prese con le prime crepe di quella Republican Majority vaticinata per la prima volta nel 1969, quando venne dato alle stampe un libro che prefigurava un lungo periodo di dominio del partito (K.P. Phillips, “The Emerging Republican Majority”, 1969).
«Il progresso del Grand Old Party negli ultimi quattro decenni è un magnifico risultato politico», ammoniva Rove, ma c’è una storia che un partito dominante non dovrebbe mai dimenticare: è «quando il suo pensiero diventa cristallizzato; quando le sue energie cominciano a prosciugarsi; quando il potere politico diventa un fi- ne in se stesso piuttosto che un mezzo per raggiungere un obiettivo comune.» Si riferiva ai democratici. Ma anche al calo d’immagine del partito, accusato di corruzione, e soprattutto alla sua vicenda, allo “scandalo CiaGate”, che è costato il posto al capo di gabinetto del vice-presidente Dick Cheney, I. Lewis “Scooter” Libby. Così giocando con la popolarità non voluta, aggiungeva: «Qualcuno vuole una foto sulla stampa? Venga qua sopra.» Dunque ecco il “rimpasto” annunciato da giorni dai commentatori politici americani. Un passaggio necessario. Rove era stato nominato un anno fa vice capo di gabinetto responsabile del coordinamento politico. Il suo posto sarà preso da Joel Kaplan, attuale vice direttore del Bilancio alla Casa Bianca.
Martedì il presidente Usa aveva annunciato la nomina di Rob Portman a direttore del Bilancio. L’incarico di rappresentante per il Commercio era quindi passato alla sua vice, Susan Schwab. Portman, a sua volta, ha sostituito Josh Bolten, capo dello staff della Casa Bianca dopo le dimissioni di Andrew Card.
A questo punto l’unico che resta al suo posto è Donald Rumsfeld, nonostante le pesanti critiche sulla sua conduzione della guerra in Iraq e il suo coinvolgimento nelle torture dei prigionieri islamici.
Ma Donald Rumsfeld non è “scaricato”. «Io sento tutte le voci, – conferma Bush – leggo le prime pagine dei giornali e so quali sono le speculazioni che si fanno. Ma sono una persona che decide, e deciderò per il meglio. E il meglio è che Don Rumsfeld, che sta facendo un ottimo lavoro, rimanga segretario alla difesa » A stretto giro, secondo le previsioni dei principali giornali statunitensi, dovrebbero esserci altre sostituzioni. Il prossimo a dimettersi dovrebbe essere il segretario al tesoro John Snow.
Secondo il New York Times, guiderebbe il partito del rimpiazzo di Snow lo stesso Josh Bolten, fermo sostenitore della necessità che l'amministrazione abbia bisogno di una persona che sappia comunicare all'America che l’economia va forte. In linea con le sue origini – Bolten viene da Goldman Sachs – a sostituire Snow potrebbe essere un vip di Wall Street. Tra i nomi che circolano ci sono quelli di Stanley O'Neal, un nero dell’Alabama diventato capo di Merril Lynch, o Henry Paulson, Ceo di Goldman Sachs stessa.

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