Lezioni americane
di Stefano Fassina
Nell'interpretazione del voto, il centro-sinistra non deve cadere nella trappola della «Grande Divisione» del paese. È la stessa trappola ideologica che gli strateghi del Partito Repubblicano di George Bush tesero al Partito Democratico post-Clinton. Proposero l'immagine di un’America divisa in due antropologie: l'elite e la middle class intellettuale da una parte, le working families dall'altra. In tale trappola cadde una parte della leadership democratica nella campagna elettorale del 2004.
Ricordate? L’area liberal dell'intellettualità e delle organizzazioni di orientamento democratico (lautamente finanziate da grandi magnati della finanza come Soros) sposarono la lettura della Grande Frattura Culturale (The Great Cultural Divide). Finanziarono anche la distribuzione gratuita di un volume, largamente pubblicizzato dall'acquisto di intere pagine di grandi quotidiani. Il titolo era «metro vs retro».
Gli elettori Democratici si autorappresentavano come metro. Gli elettori Repubblicani erano, invece, retro. Si proponeva il paradigma di un'America metro-metropolitana, colta, moderna, aperta al mondo, «europea», principalmente collocata sulle fasce costiere del New England e della West Coast - contrapposta ad un'America retro - arretrata, bigotta, chiusa nelle campagne del sud e del mid-West. Il tentativo fatto in estremis da Bill Clinton alla Convention Democratica di Boston per riportare l'analisi e l'iniziativa sul terreno politico-programmatico fu tardivo e non riuscì a ribaltare l'immagine elitaria costruita intorno a Kerry. Con grande sollievo dei Repubblicani, il messaggio democratico continuò ad essere elaborato all'interno di una piattaforma culturale subalterna e, quindi, perdente. In tale quadro, fu facile per Karl Rove, consigliere politico del Presidente, presentare le proposte di Kerry come inadeguate a rappresentare gli interessi della maggioranza dei cittadini Usa, in quanto frutto di una elite lontana dalla pancia del paese, alla quale il sempliciotto George Bush, così facile alle gaffes, invece parlava.
È vero che l'Italia è un paese diviso in due sul versante elettorale. Non è vero che si tratta di una divisione lungo assi storico-politici (fascismo-antifascismo, comunismo-anticomunismo, clericalismo-anticlericalismo), antropologico-culturali (gli individualisti-anarcoidi del Nord e gli statalisti-assistenzialisti del Sud da una parte; gli «europei» del Centro dall'altra); o economico-corporativi (lavoratori dipendenti versus lavoratori autonomi e professionisti), come alcuni illustri commentatori conservatori indicano.
Questa è la lettura fatta propria da Berlusconi, semplificata sul terreno mediatico-elettorale nella contrapposizione Berlusconiani/antiberlusconiani per delegittimare l'avversario-nemico. La divisione elettorale riconfermata dal voto è, in realtà, in larga parte riconducibile al terreno politico e programmatico. Ovviamente, in ciascuna coalizione vi sono aree sociali e politico-culturali molto omogenee, fortemente identitarie, lontane anni luce l'una dall'altra, irriconciliabili e indisponibili al riconoscimento e alle legittimazione reciproca. Ma questa non è una specificità, un'anomalia, italiana. Non è, come pure qualcuno sostiene, frutto del vizio di origine di una Repubblica nata dall'incontro innaturale, ma dettato dalle circostanze storiche, di due «partiti-chiesa», la Dc e il Pci. Al contrario, la presenza di aree identitarie contrapposte accomuna tutte le società avanzate. Per ritrovarla, sarebbe sufficiente guardare agli Usa, una realtà politica da sempre sprovvista di partiti forti, sul piano ideologico ed organizzativo.
Il fatto che dall'inizio degli anni '90 non vi sono stati significativi cambiamenti di collocazione elettorale non dipende quindi dalla presenza di blocchi ideologici ed economici monolitici. Anzi, sorprende che i cantori delle società complesse, post ideologiche, senza più operai e classi sociali, fatte di consumatori e telespettatori differenziati solo nel potere d'acquisto, tirino fuori per l'occasione un impianto teorico così a lungo rigettato.
La divisione elettorale dell'Italia, al contrario, è politico-programmatica, dipende dal fatto che le fondamentali proposte di programma ed i principali soggetti proponenti sono rimasti immutati negli ultimi 10 anni. Di fronte ad un'offerta sempre uguale a se stessa, gli elettori rispondono sempre allo stesso modo, quando la posta in gioco è alta come nel caso delle elezioni politiche. Nel caso delle elezioni amministrative ed europee, alcuni di loro (alcuni milioni di loro), in particolare nel centro-destra, si distraggono, si concedono il lusso della stanchezza e rimangono a casa.
Lo straordinario risultato dell’Ulivo alla Camera rispetto ai voti raccolti da Ds e Margherita al Senato (2,3 milioni conquistati sui 4 milioni di voti aggiuntivi disponibili, ossia una percentuale del 57 per cento), conferma che una pur minima, ma significativa, innovazione politica paga. Anche soltanto la prospettiva potenziale di un futuro Partito Democratico e delle immaginate innovazioni di cultura politica, di classe dirigente, di organizzazione ad esso connesse è stata sufficiente a spostare centinaia di migliaia di voti dal centro-destra al centrosinistra e ad attrarre il voto di moltissimi under-25, come ha opportunamente ricordato Nicola Cacace ieri su questo giornale.
Procedere lungo la strada dell'innovazione politica e programmatica è la soluzione per sbloccare il paese, superarne le divisioni, normalizzare il bipolarismo. Costruire l’Ulivo nel centro-sinistra e un'analoga aggregazione nel centro-destra è la risposta. Non porta da nessuna parte la scorciatoia della Grande Coalizione, obbiettivo implicito di quanti insistono sulle divisioni ideologiche del paese.
Una Grande Coalizione, finalizzata a rompere gli attuali schieramenti e, in particolare, il centro-sinistra ed i Ds per far nascere un Partito Democratico light, indebolirebbe le potenzialità riformatrici di cui, nonostante tutto, il paese dispone. La risicata maggioranza dell’Unione al Senato è un fattore di debolezza da trasformare in una straordinaria opportunità per la costruzione di un forte soggetto politico unitario, ricco delle migliori esperienze del riformismo italiano, aperto ai necessari apporti della società civile. L'Italia può ritornare a crescere e collocarsi stabilmente nel nucleo dei paesi leader in Europa se anche il suo sistema politico, non solo la sua economia, fa un salto di qualità.
Da l'Unità del 13.04.2006
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