«Non un’amnistia, ma una cittadinanza guadagnata ». Con queste parole il senatore repubblicano dell’Arizona, John McCain, prova a difendere la proposta di legge sull’immigrazione approvata lunedì scorso dalla commissione giustizia del senato.
Decisamente meno cauto il senatore democratico del Massachusetts, Edward M. Kennedy: «Tutti gli americani che volevano giustizia l’hanno finalmente ottenuta».
La proposta, passata con un voto bipartisan, contiene punti importanti. Chi è negli Stati Uniti prima del 2004 può mettersi in regola pagando una multa di duemila dollari e diventare cittadino americano dopo aver lavorato per sei anni. Inoltre, fornire aiuto agli immigrati illegali non può essere considerato un reato.
Il programma – che prevede di regolarizzare circa 400.000 clandestini all’anno – è senza dubbio un’accelerazione in direzione liberal rispetto alle intenzioni della Casa Bianca. Che voleva istituire la figura dei “lavoratori ospiti”, ed escludeva la possibilità della cittadinanza.
Così come la scelta di non punire chi aiuta i clandestini, si configura come una bocciatura della linea dura adottata alla camera.
Dove era passata la cosiddetta legge Sensenbrenner (deputato repubblicano del Wisconsin) che prevede di trasformare in un reato penale l’immigrazione illegale. Oltre al contestato muro di migliaia di km tra Usa e Messico.
Il mutamento di rotta, dovesse resistere agli assalti dei senatori repubblicani più conservatori, è l’ennesimo grimaldello all’interno del Grand Old Party, già abbondantemente spaccato sulla nomina alla Corte suprema di Harriet Miers e dalla vicenda dell’acquisizione di alcuni dei maggiori porti Usa da parte del Dubai.
Di qui la cautela del senatore McCain, e gli appelli ad «un civile e dignitoso dibattito» di George W. Bush. «L’America è una nazione di immigrati» – ha dichiarato alla radio solo sabato scorso – e gli illegali «sono lavoratori seri che hanno impieghi che gli americani non vogliono e contribuiscono così alla vitalità economica del nostro paese».
Parole in linea con quel “conservatorismo compassionevole” teorizzato da Marvin Olasky, e orientate a recuperare consensi tra le comunità ispaniche, la principale minoranza etnica negli Stati Uniti, ma lontane dalla base del partito. Che invece sbandiera rapporti come quello del Centre for immigration studies, secondo il quale gli illegal workers stanno spingendo i cittadini americani con pari grado di istruzione alla disoccupazione: circa tre milioni in meno dal marzo del 2000, rispetto al milione e mezzo in più di clandestini nello stesso periodo, impegnati nei cosiddetti low-skilled jobs.
Così a rilanciare in senato la linea Sensenbrenner sarà il leader della stessa maggioranza, Bill Frist.
Contro tale eventualità, nei giorni scorsi sono scesi in piazza messicani e immigrati illegali di ogni lingua ed etnia. In cinquecentomila solo nella Los Angeles di Antonio Villaraigosa, il primo sindaco “latino” da oltre un secolo, nel “Day Without an Immigrant”, (il riferimento è al film “A Day Without a Mexican” che un paio d’anni fa simulò la vita dei ricchi californiani sconvolta dal mancato apporto dei lavoratori latinos).
E prima di Los Angeles, in migliaia erano sfilati a Phoenix, ma anche a Chicago o Milwaukee.
A testimoniare il mutamento della geografia dell’immigrazione, dagli anni ’90 non più confinata nelle regioni tradizionali, ma estesa alle regioni metropolitane e a stati con basse percentuali di stranieri.
In prima linea anche vescovi e leader di diverse confessioni religiose. In un articolo sul New York Times l’arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, prima di partire per Roma per il concistoro, aveva detto ai suoi di prepararsi alla disobbedienza, per difendere il diritto della Chiesa ad assistere gli immigrati.
Tra i democratici, il leader del partito in senato Harry Reid ha minacciato l’ostruzionismo, mentre un’ispirata Hillary Clinton ha accusato i promotori del “giro di vite” di voler «criminalizzare il Buon Samaritano e rendere illegale probabilmente anche Gesù».
Nei prossimi giorni staremo a vedere se, come auspicato dal presidente della commissione giustizia, Arlen Specter, molti dei punti subiranno delle modifiche durante il passaggio al senato, o se si raggiungerà l’ennesimo nulla di fatto. Per ora siamo di fronte ad una parziale vittoria per George W. Bush, che, dopo diversi tentativi, sia nel primo che nel secondo mandato, è finalmente riuscito a imporre la questione all’agenda politica.
Nella “stagione dello scontento” c’è di che accontentarsi.
Con i democratici, secondo un recente sondaggio commissionato da Time, ben nove punti avanti in vista delle elezioni di medio termine del prossimo novembre. E con l’insuccesso delle sue politiche contro l’immigrazione illegale sotto gli occhi di tutti.
In questo senso, secondo un recente rapporto del Pew Hispanic Center il numero degli immigrati clandestini negli Usa è salito a circa dodici milioni. Di questi, 7,2 milioni sono lavoratori senza documenti, pari al cinque per cento dell’intera forza lavoro del paese.
In prevalenza si tratta di messicani. Il flusso incessante ha conseguenze tragiche: ben 415 persone sono morte nei primi nove mesi del 2005 mentre cercavano di attraversare il confine (a poco è servita la “Guida per il migrante messicano”, diffusa non senza polemiche da Vicente Fox). E note paradossali: i clandestini che resterebbero più a lungo anche perché ostacolati dai rigidi controlli lungo la frontiera.
“Forte” di queste cifre, lo stesso Bush si prepara ad affrontare il tema nel vertice di venerdì con il presidente messicano Vicente Fox e il primo ministro canadese Stephen Harper. Scontato che importante sarebbe arrivare a Cancun con un risultato al congresso.
Mentre anche a Ottawa, tradizionalmente meno esposta e più aperta, la questione diventa più calda. Dopo un faccia a faccia televisivo tra l’attuale ministro Monte Solberg e il suo predecessore liberale, Joe Volpe, che ha accusato il governo conservatore di aver aumentato il numero delle espulsioni di immigrati clandestini negli ultimi due mesi.
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