Monday, March 06, 2006

Advertising alla conquista dell'infanzia

Advertising alla conquista dell'infanzia
«Nati per comprare» di Juliet Schor. Un saggio sulle strategie marketing delle imprese per conquistare i bambini, dal «bombardamento mediatico» all'invasione delle scuole con programmi mirati in cambio di materiale didattico
MARIA CARRANO
Il pubblicitario, il persuasore occulto di francofortiana memoria, è colui che vende lo spettatore alle aziende produttrici di beni e servizi, manipolando le menti ed inducendo bisogni inesistenti nel consumatore. Oggi, una tesi del genere, confortata da alcuni noti studi degli anni Sessanta, potrebbe apparire insostenibile, perché lo spettatore contemporaneo, seppur esposto ad una quantità crescente di messaggi è sempre più anestetizzato e smaliziato, ha accresciuto la propria capacità critica nei confronti delle strategie di vendita. Discorso a parte va fatto per i bambini, che fin dalla prima infanzia sono bombardati da messaggi pubblicitari di ogni genere, pur non avendo ancora gli strumenti intellettivi adatti ad una gestione critica del messaggio pubblicitario. È quanto sostiene Juliet Schor, ricercatrice dell'Università di Boston e autrice del saggio Nati Per Comprare (Apogeo, pp.191, 18), dove racconta la sua esplorazione del complesso, ancorché inquietante mondo del consumo infantile. «Oggi il bambino americano medio è immerso nel mercato di consumo con una modalità tale da annichilire qualsiasi raffronto storico. A un anno guarda Teletubbies e mangia il cibo dei suoi "promo partner" Burger King e McDonald's. A 18 mesi i bambini sono in grado di riconoscere i loghi commerciali e prima di raggiungere il secondo anno d'età chiedono i prodotti nominandone la marca». Non stiamo dunque parlando di teenager, ma di veri e propri bambini. Si calcola che nel 2004, negli Stati uniti il capitale investito in marketing dell'infanzia ammonta a 15 miliardi di dollari; una cifra enorme specificamente dedicata al tween target e utilizzata per campagne pubblicitarie tradizionali (soprattutto televisive) svolte sulla base di focus group, sondaggi, ricerche di mercato e studi etnologici, ma anche per il più strategico e persuasivo marketing virale o per sostanziose sponsorizzazioni alle scuole. Se da un lato, desta stupore e preoccupazione che le imprese investano danaro filmando le abitudini dei più piccoli per poi studiarle attentamente con psicologi ed antropologi o che ingaggino ragazzine che riferiscano i gusti delle loro coetanee (un'agenzia, la Gia, vanta 20 milioni di «agenti » da rivendere alle industrie), diventa inquietante che alcune scuole impongano la visione per un'ora (di cui 10 minuti di pubblicità) al giorno di canali pseudo-educativi tipo Channel One, in cambio della fornitura di materiale audiovisivo e di attrezzature. Se l'imperativo dell'addetto al marketing è spiazzare la capacità di discernimento, evadendo le barriere critiche e arrivando direttamente a sollecitare l'emotività, diventa evidente il rischio sociale a cui sono esposti i minori, data la pervasività dei media. E per quanto appellarsi alla «morale» sembri sempre più un atteggiamento ingenuo, sottovalutare i rischi fisici e psichici sui bambini appare, sostiene l'autrice, del tutto sconsiderato. Che il livello di guardia sia, in alcuni casi, superato lo testimonia anche la denuncia del 2001 del Direttore generale federale della sanità statunitense, secondo il quale l'obesità infantile è oramai da considerarsi «un'epidemia». È stato inoltre dimostrato che la maggior parte degli spot indirizzati ad un pubblico di minori è di junk food: non è dunque del tutto infondato considerare una possibile relazione tra l'obesità dilagante e la pubblicità di cibi poco salutari, tanto che alcune associazioni di genitori hanno chiesto di aggiungere il cibo nell'elenco dei prodotti che non possono apparire nelle pubblicità rivolte ai minori, insieme ad alcol e tabacco. Non è però solo una questione di alimentazione. Infatti, come testimonianiano le ricerche svolte dalla Schor, i bambini fumano, bevono ed assumono droghe in percentuali allarmanti rispetto solo ad alcuni anni fa. L'autrice del volume afferma che l'assunzione di sostanze stupefacenti e di alcol è sicuramente una «risposta » ad un diffuso malessere emotivo ampiamente documentano dai neuropsichiatri infantili e che non è conseguenza diretta del bombardamento mass-mediatico, ma è comunque ad esso legato. Detto in altri termini, i bambini oggi sono molto meno sereni di un tempo, poiché l'insoddisfazione derivante dalla ricerca continua di possesso, dalla necessità d'essere cool per essere socialmente accettati, provoca ansia, iperattività e stress, tanto da poter parlare di Kagoy (Kids Are Getting Older Younger), cioè perdità dell'infanzia). Il quadro è tanto più fosco se ai case studies riportati nel volume si aggiunge una deresponsabilizzazione delle istituzioni pubbliche, delle imprese e, spesso, anche dei genitori. Viene quindi da domandarsi che tipo di investimento sul futuro faccia una società che mercifica i propri figli permettendo, anche all'istituzione pubblica ad essi più vicina e più dotata di autorità, la scuola, di trasformarsi in un canale mediatico portatore di messaggi rischiosi per un corretto sviluppo infantile.
IL MANIFESTO, sabato 4 marzo 2006

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