Calo dell’immigrazione e questioni demografiche sullo sfondo del disimpegno da Gaza e Cisgiordania
Calo dell’immigrazione e questioni demografiche sullo sfondo del disimpegno da Gaza e Cisgiordania
Nel 2006 Israele sarà la prima comunità ebraica nel mondo. Ma dopo pochi anni gli ebrei potrebbero essere minoranza nel paese
Stefano Baldolini
Europa, venerdì 29 luglio 2005
Quando la scorsa settimana circa 600 ebrei provenienti da New York e Toronto toccavano terra all’aeroporto di Tel Aviv, ad accoglierli c’erano il primo ministro Ariel Sharon, il vice premier Shimon Peres e il ministro delle finanze Benjamin Netanyahu. Cosa ha spinto, nei giorni bollenti che precedono il ritiro da Gaza e Cisgiordania, mezzo esecutivo a farsi comitato di accoglienza? Sicuramente l’occasione, di alto valore simbolico: era il più grande gruppo di ebrei nord americani mai immigrati in un solo giorno. Ma non solo. Probabilmente anche una serie di numeri.
Per esempio quelli sull’aliyah, sull’immigrazione dai paesi della diaspora, che registra cifre decisamente lontane da quelle degli anni ’90, quando il collasso dell’Unione sovietica portava 70 mila immigrati l’anno.
Ma soprattutto quelli diffusi dallo Jewish People Policy Planning Institute in un rapporto diffuso lo scorso 11 luglio e presentato in questi giorni al consiglio dei ministri.
Secondo il think tank dell’Agenzia ebraica, da cui è parzialmente finanziato, nel 2006 gli ebrei d’Israele supereranno per numero quelli degli Stati Uniti. Il gap attuale (circa 5,28 milioni contro 5,235) verrà colmato dai matrimoni misti e dal basso tasso di natalità negli Usa, a fronte dell’incremento di 50 mila unità degli ebrei in Israele. Di qui il sorpasso, e per la prima volta nella storia, Israele sarà la casa della più vasta comunità ebraica del mondo. ma con un problema da risolvere.
Infatti, più che all’immigrazione (21 mila immigrati ebrei nel 2004, solo 8.500 nei primi 6 mesi del 2005), la svolta prevista è legata al tasso di natalità (2,7 bambini in media a donna), decisamente alta per un paese sviluppato (in Italia siamo tra l’1,2 e l’1,3), ma neanche paragonabile ai ritmi sostenuti dalla popolazione araba d’Israele (4,7) e territori occupati (5,4 in Cisgiordania e addirittura 7,4 a Gaza). Le tendenze sono evidenti. L’American Jewish Committee, in un altro importante rapporto del febbraio 2004, stimava che nel 2010 la percentuale di ebrei in Israele – senza Gaza e Cisgiordania - sarebbe scesa dall’attuale 81 al 79 per cento. Ma la stessa, se si considera il “Grande Israele”avrebbe toccato il 51 per cento, per diventare minoranza verso il 2012.
Così i più pessimisti vedono a breve il raggiungimento di una situazione insostenibile, stretta tra demografia e democrazia («o decide la maggioranza, e saranno quindi i palestinesi a dominare, oppure Israele sarà obbligato a mantenere un regime di semi-apartheid», scriveva già nel 1999 Youssef Courbage, dell’Istituto di studi demografici di Parigi). Scenari sempre più al centro del dibattito pubblico israeliano.
«Oggi l’obiettivo del sionismo è quello di garantire la maggioranza ebraica nello stato di Israele attivamente e con determinazione», dichiarava Sharon davanti all’assemblea dell’Agenzia ebraica, in un discorso tenuto alla fine di giugno, facendo propria la questione demografica, ed abbracciando le riflessioni di studiosi come Della Pergola.
«L’interesse ebraico-israeliano a preservare una società fondata su modelli culturali ebraici riconoscibili, dunque basati su una permanente maggioranza ebraica, coincide con la rinuncia alle pretese sull’intero territorio palestinese e con il ritiro entro confini sostanzialmente simili a quelli del 1967» scriveva il professore italo-israeliano in un documento (“Demography in Israel/Palestine: Trends, Prospects, Policy Implications”) presentato nell’agosto 2001 alla XXIV Conferenza generale della popolazione di Salvador de Bahia.
Dunque, proteggere la maggioranza ebraica del paese anche dalla minaccia dei trend demografici sfavorevoli e rilanciare sull’immigrazione da tutti gli angoli della diaspora.
In questo senso, oltre all’annosa questione dei falashmura (circa 15 mila profughi etiopi “convertiti” che Sharon vorrebbe in patria entro 3 anni), c’è da fronteggiare la crisi demografica del nord America, da dove, secondo una recente inchiesta della Harris, potrebbero emigrare 500'000 ebrei nei prossimi 15 anni.
Ma la crisi è globale e legata ad una crisi dell’identità ebraica delle comunità della diaspora. Il ricordo dell’Olocausto e il far fronte comune contro l’antisemitismo, tradizionali fattori unificanti, sembrano non bastare più. «Come affrontare la sfida dell’identità, ormai al capezzale?», si chiede il Jerusalem Post. Maggiori investimenti nell’educazione ebraica all’estero e rafforzamento dei legami con Israele, la ricetta del Jpppi. Scuole ebraiche e viaggi nella madre patria, contro matrimoni misti e bassa fertilità. E’ l’altro fronte del piano di disengagement del governo Sharon.
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