Wednesday, May 11, 2005

Se Il boia torna in Connecticut

Se il boia torna in Connecticut
Stefano BAldolini,
Europa, mercoledì 11 maggio 2005

Dopo 45 anni la pena di morte torna in Connecticut. Venerdì prossimo, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, Michael Ross, il 45enne laureato alla prestigiosa Cornell University, che ha confessato lo stupro e l’omicidio di 8 donne commessi agli inizi degli anni ’80, sarà giustiziato con una iniezione letale.
Per il New England è un duro colpo. Gli attivisti del Connecticut Network to Abolish the Death Penalty
l’hanno definita “la prima esecuzione dei tempi moderni”. Domenica scorsa in migliaia hanno marciato lungo le strade di Hartford.
Il destino del serial killer sembrava aver cambiato rotta lo scorso gennaio quando la sentenza venne rinviata. Un giudice federale aveva minacciato di far revocare la licenza al suo avvocato se dopo l’esecuzione si fossero raggiunte le prove che l’imputato non era sano di mente. Nel Connecticut la pena di morte per i minorati mentali è abolita dal 2001.
Dopo 48 ore di sospensione però, Ross firmava una dichiarazione in cui ammetteva l’eventualità di essere “incompetent” e insieme la sua condanna. Il suo comportamento però non deve essere frainteso.
Se il serial killer verrà giustiziato come programmato, sale infatti a un centinaio il numero dei “volontari” dal 1976, anno in cui la Corte Suprema ha ripristinato la pena capitale. Nel solo 2004, dei 59 giustiziati, in 10 hanno lanciato un appello per farla finita.
Dietro tale tendenza, le condizioni inumane a cui sono sottoposti i detenuti nei cosiddetti “bracci della morte”, sospesi tra speranze e disperazione. Lo stesso Ross aveva iniziato
a lanciare i suoi appelli dieci anni fa. Dei 963 giustiziati dal 1976, uno su otto ha fatto lo stesso. Il numero è aumentato (uno su sei) nell’ultimo anno.
Che comunque ha fatto segnare dei risultati confortanti. Il numero di condanne a morte emesse negli Stati Uniti nel 2004 è il più basso dal 1976.
Il caso Ross tiene vivo il dibattito negli States. Nei giorni scorsi, il Los Angeles Times, citando il precedente favorevole di new York, ha chiesto ai parlamentari californiani di introdurre una moratoria sulle esecuzioni. Lunedì scorso attivisti dell’Ohio hanno fatto lo stesso.
Sulla strada delle moratorie, si era messo di traverso il presidente in persona. Incalzato sul tema, lo scorso marzo George W. Bush ha respinto l'idea, ribadendo di essere favorevole alla pena di morte, che ha definito “un deterrente contro il crimine”. Poteva essere una pietra tombale per le speranze dei proibizionisti.
Negli stessi giorni però una sentenza della Corte Suprema Usa ha dichiarato incostituzionale la pena di morte nei confronti di persone condannate per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni. E in campo sono scesi anche i cattolici. Forti di un sondaggio effettuato nel novembre 2004, secondo cui il sostegno dei cattolici americani alla pena di morte è sceso al 48 % (contro il 68% del 2001), i vescovi Usa hanno lanciato una campagna per l’abolizione.
Che sarà rinvigorita dalle recenti prese di posizione di Papa Ratzinger. "La libertà di uccidere non è vera libertà ma è una tirannia che riduce l'essere umano in schiavitù", così papa Benedetto XVI in uno dei passaggi di sabato scorso in occasione dell’insediamento sulla Cattedra di Roma.
Quello nei confronti del Vaticano potrebbe essere uno dei passaggi più complicati per l’amministrazione Bush, c
he sul tema in questione, ha tenuto un comportamento contraddittorio nei confronti della comunità internazionale.
Da marzo, gli Stati Uniti non riconoscono più alla Corte Internazionale di Giustizia l’ultima parola sui ricorsi di cittadini stranieri che affermino di essersi visti negare il diritto di incontrare un diplomatico del proprio paese dopo l’arresto o nel corso della detenzione negli Usa. “La Corte Internazionale di Giustizia - ha spiegato il Dipartimento di Stato - ha interpretato la Convenzione di Vienna in modi che riguardano incriminazioni penali e la pena di morte, attribuendo di fatto un ruolo di supervisione sul nostro sistema penale nazionale”.
Nei giorni precedenti la Casa Bianca aveva ordinato alle Corti statali di esaminare i ricorsi di 51 cittadini messicani detenuti nei bracci della morte di 10 stati dell’Unione. Adempiendo alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia, che circa un anno prima aveva stabilito che gli Usa non avevano informato gli imputati del loro diritto all’assistenza legale da parte del proprio consolato.
Con l’Unione Europea le cose vanno meglio. Nel giugno del 2003, è stato firmato un trattato finalizzato a rafforzare la cooperazione giudiziaria nella lotta contro il terrorismo. L’accordo contiene l’assicurazione che nessun cittadino europeo estradato negli USA sarà condannato a morte.
Poi c’è l’impegno con i cosiddetti “paesi del male”. Lo scorso marzo gli Stati Uniti hanno promesso “di fare tutto il possibile” per persuadere la Libia a liberare le cinque infermiere bulgare condannate a morte con l’accusa di aver iniettato sangue infetto da AIDS a 400 bambini. In febbraio era stata la volta dei regimi siriano ed iraniano criticati “in quanto repressivi e responsabili di violazioni dei diritti umani “.

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