Povera famiglia Simpson
Aiutate la famiglia Simpson. Sempre più vecchia, più povera, e abbandonata dalle politiche che non sostengono i first suburbs dove vive, le periferie americane nate negli anni ‘50, oggi compresse tra le città e la nuova periferia diffusa.
Secondo un rapporto del Brookings Institution (One-Fifth of America: A comprehensive Guide to America’s First Suburbs), nè completamente urbani, nè completamente suburbani, nè poveri o grandi abbastanza da essere oggetto dei finanziamenti federali, i first suburbs devono fronteggiare sfide inedite. Come la concentrazione di popolazione immigrata ed anziana, o la coesistenza di abitazioni antiquate ed edifici commerciali: sfide molto differenti da quelle dei vicini centri urbani, o delle nuovi grandi periferie che le circondano, il cosiddetto urban sprawl, a più rapido sviluppo.
Secondo il New York Times è in pericolo il sogno della generazione "pendolare", la way of life di milioni di giovani coppie (bianche) che cinquantanni anni fa lasciarono il centro della città per luoghi più verdi, vicino a zone commerciali e scuole, accesso ai treni e freeways, dove costruire case monofamiliari e mettere su famiglia.
Era la generazione dei veterani della seconda guerra mondiale, che contribuirono all’incremento del 46% della popolazione solo nel primo anello di periferie tra il 1950 e il 1956. Attratti da slogan come quello di Rohnert Park in California, «A Country Club for the middle class», i “pionieri tranquilli” colonizzarono 64 contee (nel nord-est, 27, la maggiore concentrazione) crescendo del 161,3 per cento dal 1950, il doppio della crescita media nazionale (all’86 per cento) e molto più delle città vicine (+5,3 per cento). Fino al 1970, quando il numero degli abitanti nelle periferie superò il numero degli abitanti di ogni altra zona americana.
Ma se solo negli anni ’50, le nuove periferie diedero accoglienza a circa il 40 per cento della crescente popolazione americana - «in molti luoghi i first suburbs erano letteralmente il luogo dove l’America stava crescendo», fa notare il rapporto - quel fenomeno ha rapidamente mutato volto. Fino ad arrivare ad assorbire solo circa il 15 per cento della crescita nei ’90. Così oggi i first suburbs resistono alle città vicine, ma perdono colpi rispetto alle periferie più recenti.
E diventano sempre più povere. Relativamente, s’intende, rispetto ad altre zone più depresse. Ma non mancano i segnali inquietanti. Così nei ’90, lo stallo dei redditi, a fronte della crescita nazionale. E un numero di residenti sotto la soglia di povertà triplicato dal 1970 al 2000.
Perde colpi anche il modello vincente che generò ricchezza e speranze: oggi la famiglia tradizionale sposata con figli è solo del 27%. La media dei componenti familiari è calata dal 3,2 del 1970 al 2,7 del 2000. Sempre più anziani vivono nelle periferie storiche, più della media nazionale. La fascia degli over 65 cresce a più del doppio che nel resto del paese. E le case sono invecchiate con i loro proprietari (che sono sempre meno).
Muta anche la composizione razziale. Le prime periferie, che costituirono una rifugio per i bianchi in ritirata dalle città – sempre più multirazziali negli anni dell’emancipazione – stanno ora diventando più multietnici che nel resto del paese. Così raddoppia dal 1980 al 2000 la percentuale delle minoranze, con asiatici ed ispanici a costituire più di un terzo della popolazione. Ma non solo. Le periferie storiche diventano anche una meta per i nuovi immigrati, che sembrano abbandonare la metropoli come destinazione storica: nel 2000 nove milioni contro 8,6 milioni nelle città vicine.
Tutto questo potrebbe portare a tensioni inedite per un quinto della popolazione degli Stati Uniti, finito in un «punto cieco» della politica. «I first suburbs sono troppo poco poveri per ricevere aiuti statali o federali e non grandi abbastanza per ricevere direttamente fondi», denunciava già nel marzo del 2004, Robert Puentes, uno dei curatori del rapporto. Compressi tra le esigenze delle grandi città e della nuova periferia diffuse.
E se l’urban sprawl costiuisca una minaccia per l’America, si chiede la rivista online Slate nel novembre scorso. «Noi odiamo lo sprawl. E’ il responsabile per tutto ciò che non amiamo dell’America moderna». Strisce ininterrotte di centri commerciali, la perdita della campagna, i Suv sempre più potenti, il traffico, la dipendenza dal petrolio, la guerra in Iraq. «Nessun dubbio, lo sprawl è cattivo, l’America cattiva».
Buono o cattivo, il fenomeno è in espansione. E la nuova periferia diffusa, con il proliferare delle sue esigenze, rischia di abbandonare al loro destino gli abitanti delle periferie storiche. Con tanti saluti ai Simpson. Ma non solo.
«Il degrado dei first suburbs» potrebbe essere uno dei fattori più incidenti nel degrado dell’America metropolitana scrive Robert Fishman (“The American Metropolis at Century’s End: Past and Futur Influence”). Ironicamente, fa notare il New York Times, la stessa cosa si diceva a proposito delle città, il cui declino avrebbe influenzato intere regioni.
STEFANO BALDOLINI, EUROPA di sabato 18 febbraio 2006
Secondo un rapporto del Brookings Institution (One-Fifth of America: A comprehensive Guide to America’s First Suburbs), nè completamente urbani, nè completamente suburbani, nè poveri o grandi abbastanza da essere oggetto dei finanziamenti federali, i first suburbs devono fronteggiare sfide inedite. Come la concentrazione di popolazione immigrata ed anziana, o la coesistenza di abitazioni antiquate ed edifici commerciali: sfide molto differenti da quelle dei vicini centri urbani, o delle nuovi grandi periferie che le circondano, il cosiddetto urban sprawl, a più rapido sviluppo.
Secondo il New York Times è in pericolo il sogno della generazione "pendolare", la way of life di milioni di giovani coppie (bianche) che cinquantanni anni fa lasciarono il centro della città per luoghi più verdi, vicino a zone commerciali e scuole, accesso ai treni e freeways, dove costruire case monofamiliari e mettere su famiglia.
Era la generazione dei veterani della seconda guerra mondiale, che contribuirono all’incremento del 46% della popolazione solo nel primo anello di periferie tra il 1950 e il 1956. Attratti da slogan come quello di Rohnert Park in California, «A Country Club for the middle class», i “pionieri tranquilli” colonizzarono 64 contee (nel nord-est, 27, la maggiore concentrazione) crescendo del 161,3 per cento dal 1950, il doppio della crescita media nazionale (all’86 per cento) e molto più delle città vicine (+5,3 per cento). Fino al 1970, quando il numero degli abitanti nelle periferie superò il numero degli abitanti di ogni altra zona americana.
Ma se solo negli anni ’50, le nuove periferie diedero accoglienza a circa il 40 per cento della crescente popolazione americana - «in molti luoghi i first suburbs erano letteralmente il luogo dove l’America stava crescendo», fa notare il rapporto - quel fenomeno ha rapidamente mutato volto. Fino ad arrivare ad assorbire solo circa il 15 per cento della crescita nei ’90. Così oggi i first suburbs resistono alle città vicine, ma perdono colpi rispetto alle periferie più recenti.
E diventano sempre più povere. Relativamente, s’intende, rispetto ad altre zone più depresse. Ma non mancano i segnali inquietanti. Così nei ’90, lo stallo dei redditi, a fronte della crescita nazionale. E un numero di residenti sotto la soglia di povertà triplicato dal 1970 al 2000.
Perde colpi anche il modello vincente che generò ricchezza e speranze: oggi la famiglia tradizionale sposata con figli è solo del 27%. La media dei componenti familiari è calata dal 3,2 del 1970 al 2,7 del 2000. Sempre più anziani vivono nelle periferie storiche, più della media nazionale. La fascia degli over 65 cresce a più del doppio che nel resto del paese. E le case sono invecchiate con i loro proprietari (che sono sempre meno).
Muta anche la composizione razziale. Le prime periferie, che costituirono una rifugio per i bianchi in ritirata dalle città – sempre più multirazziali negli anni dell’emancipazione – stanno ora diventando più multietnici che nel resto del paese. Così raddoppia dal 1980 al 2000 la percentuale delle minoranze, con asiatici ed ispanici a costituire più di un terzo della popolazione. Ma non solo. Le periferie storiche diventano anche una meta per i nuovi immigrati, che sembrano abbandonare la metropoli come destinazione storica: nel 2000 nove milioni contro 8,6 milioni nelle città vicine.
Tutto questo potrebbe portare a tensioni inedite per un quinto della popolazione degli Stati Uniti, finito in un «punto cieco» della politica. «I first suburbs sono troppo poco poveri per ricevere aiuti statali o federali e non grandi abbastanza per ricevere direttamente fondi», denunciava già nel marzo del 2004, Robert Puentes, uno dei curatori del rapporto. Compressi tra le esigenze delle grandi città e della nuova periferia diffuse.
E se l’urban sprawl costiuisca una minaccia per l’America, si chiede la rivista online Slate nel novembre scorso. «Noi odiamo lo sprawl. E’ il responsabile per tutto ciò che non amiamo dell’America moderna». Strisce ininterrotte di centri commerciali, la perdita della campagna, i Suv sempre più potenti, il traffico, la dipendenza dal petrolio, la guerra in Iraq. «Nessun dubbio, lo sprawl è cattivo, l’America cattiva».
Buono o cattivo, il fenomeno è in espansione. E la nuova periferia diffusa, con il proliferare delle sue esigenze, rischia di abbandonare al loro destino gli abitanti delle periferie storiche. Con tanti saluti ai Simpson. Ma non solo.
«Il degrado dei first suburbs» potrebbe essere uno dei fattori più incidenti nel degrado dell’America metropolitana scrive Robert Fishman (“The American Metropolis at Century’s End: Past and Futur Influence”). Ironicamente, fa notare il New York Times, la stessa cosa si diceva a proposito delle città, il cui declino avrebbe influenzato intere regioni.
STEFANO BALDOLINI, EUROPA di sabato 18 febbraio 2006
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