Tuesday, March 21, 2006

Brutto il 2005, ma la Ue più larga è più competitiva

Dal Lisbon Scorecard VI, il rapporto annuale del Centre for European Reform presentato ieri da José Manuel Barroso, emerge un’Europa più tonica, nonostante i rovesci del 2005.
di STEFANO BALDOLINI
EUROPA QUOTIDIANO, martedì 21 marzo 2006

Crescerà ancora l’economia europea? Archiviato il 2005, l’annus terribilisper il processo d’integrazione, si riparte da Lisbona, dalla strategia concordata nel 2000 per portare l’Unione ad essere l’area più competitiva del pianeta entro il 2010.
Ebbene, nonostante lo stop franco olandese nei referendum sul trattato costituzionale, le paure crescenti legate all’allargamento ad est, gli alti livelli di disoccupazione, nell’eurozona si dovrebbe respirare una moderata fiducia.
Èquanto emerge dal Lisbon Scorecard VI, rapporto annuale del Centre for European Reform (think tank londinese) presentato ieri da José Manuel Barroso in vista dello Spring Summer del 23 e 24 prossimi.
«Molte tendenze sotto traccia sono positive.
– scrive Aurore Wanlin, l’autrice del documento – Lentamente, ma con regolarità, l’Ue sta facendo progressi in molte delle aree coperte dall’Agenda di Lisbona.» E proprio la competizione apportata dai nuovi membri, è uno dei fattori propulsivi della nuova Europa. Insieme alla globalizzazione, e all’emergere dei paesi asiatici. Così il duro confronto con il presente, sta producendo ciò che decenni di «angosciosi dibattiti» non hanno ottenuto: «costringendo gli europei ad accettare la realtà».
Con le economie a lenta crescita come Germania, Italia e Francia, «messe sotto pressione».
Altro sintomo positivo, «l’ondata di fusioni trans-frontaliere», che dimostrerebbe «l’impatto del mercato unico». A dispetto del riemergere dei nazionalismi economici e dei tentativi di proteggere i cosiddetti campioni nazionali. A sostegno, il rapporto cita il Financial Times. «Nei primi due mesi del 2006, – scriveva la voce della City lo scorso 14 febbraio – il valore degli accordi sovranazionali annunciati in Europa ha toccato quasi 173 miliardi di dollari», il livello più alto dal 2000, dai fasti della new economy.
Naturalmente, non mancano le note dolenti, come il tasso di disoccupazione fermo al dieci per cento in diversi paesi guida, la crescente tensione sociale tra la popolazione. Alla liberalizzazione delle telecomunicazioni non segue l’apertura nel settore dell’energia.
E una crescita del 27 per cento in meno del Pil pro capite nei quindici vecchi membri (Eu-15) rispetto agli Stati Uniti, è solo uno tra gli indicatori che dovrebbero far riflettere. «Ma ancor più preoccupante – si legge nel rapporto – è lo stallo nella produttività, la base della crescita.» Nonostante questo quadro, e il fatto che le necessarie riforme strutturali siano bloccate dalla carenza di fondi (non ultima la circostanza che 12 dei 25 paesi abbiano deficit pubblici pari o eccedenti il tre per cento rispetto al Pil, come fissato nel patto di stabilità), «tutti i paesi Ue hanno fatto qualche progresso nella riforma del loro mercato del lavoro e del welfare negli anni recenti».
Questo, insieme al calo dei salari, «ha creato le condizioni per un iniziale recupero dell’eurozona.
» Recupero che però è necessariamente legato alle politiche nazionali. In questo senso il Cor ci va giù duro. Uno dei problemi fondamentali è stata la «carenza di appropriazione politica» dell’agenda da parte degli stati membri. «L’Unione può fissare obiettivi, incentivi, o raccomandazioni », ma questo risulta inutile se «Lisbona non è neppure menzionata» dai politici.
E a proposito dei paesi, il rapporto divide tra buoni (heroes) e cattivi (villain) in funzione delle performance economiche. Cinque gli indicatori strutturali di riferimento, in linea con gli elementi chiave di Lisbona. Innovazione, liberalizzazione, imprenditorialità, occupazione e inclusione sociale, sviluppo sostenibile e ambiente.
La classifica «conferma la superiorità dei paesi nordici», con Danimarca e Svezia in testa secondo tutti i parametri analizzati, e l’Austria al terzo posto. Al «modello danese», studiato dagli economisti di tutto il continente (nel 2004 un tasso d’occupazione del dodici per cento superiore alla media europea), fa da contraltare la Polonia, che ha scalzato l’Italia dall’ultima piazza. Per Varsavia, decisive la povertà diffusa e la bassa occupazione (solo il 52 per cento della popolazione in età da lavoro), ma anche l’avvento al governo della destra populista e protezionista, che dovrebbe rallentare il processo di riforme.
Tra gli altri, tengono Regno Unito (quarto) e Paesi Bassi (quinti). Dovrebbero fare qualcosa in più Francia (ottava) e Germania (decima). Male i paesi mediterranei, come Grecia e Portogallo e Spagna. Rimane nelle ultime posizioni l’Italia, buona quart’ultima in competitività davanti a Romania e Bulgaria.

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