Eliminare Osama bin Laden, potenziare le truppe e la protezione nazionale in linea con la commissione d’inchiesta sull’11 settembre, lavorare per una «transizione significativa in Iraq», continuare la lotta al terrorismo «combattendo le condizioni socio economiche e politiche» in cui gli estremisti proliferano, uscire dalla dipendenza dal petrolio.
Sono i punti principali della “Real Security – The Democratic Plan to Protect America and Restore Our Leadership in the World”, la nuova strategia di sicurezza nazionale dei democratici americani.
Il segnale per accreditarsi come forza di governo in vista delle elezioni di mid-term del prossimo novembre, e una risposta al recente aggiornamento della dottrina preventiva, il primo dall’emanazione del settembre 2002.
Coerentemente con l’unico passaggio ispirato – lo slogan tough and smart – il documento è decisamente agile (appena sei pagine, tre in inglese e tre in spagnolo) e non concede molto all’immaginazione.
«Dov’è la visione?», si chiede Fred Hiatt, columnist del Washington Post. «Non c’è un dibattito sui valori, non si parla di libertà o solidarietà, di libero mercato o aiuti allo sviluppo», scrive Hiatt, che affonda il colpo: «I sondaggisti saranno soddisfatti, ma John F. Kennedy non riconoscerebbe il suo partito».
In effetti il documento non è di quelli memorabili, ma dopo anni di fervida immaginazione, c’è quasi da essere sollevati. Non ci sono crociate, concessioni alla linea neocon dell’esportazione della democrazia, o “assi del male” da annientare. Persino gli spauracchi dell’amministrazione Bush sono liquidati in due righe: «Raddoppiare gli sforzi per fermare lo sviluppo delle armi nucleari in Iran e Corea del Nord». Così, svuotata della dimensione ideologica, la questione cruciale della sicurezza – issue che è costata caro a John F. Kerry – si configura come un elenco di provvedimenti resi necessari dal fallimento dell’amministrazione Bush. «Una pericolosa incompetenza ha reso l’America meno sicura», ha dichiarato il leader dei democratici al senato, Harry M. Read, spalleggiato dall’ex segretario di stato di Bill Clinton, Madeleine K. Albright.
A partire dal primo dei cinque paragrafi, dedicato alle “forze armate del 21esimo secolo”. Dove, “forti” dello stallo nella campagna in Iraq, delle oltre mille vittime di guerra, i democratici si limitano ad annunciare «gli investimenti necessari» per «proteggere l’America quando e dove necessario»; «garantire l’equipaggiamento di protezione, l’addestramento necessario» delle truppe; assicurare che «mai saranno inviate in guerra senza informazioni accurate e una strategia per il successo».
Per trovare delle assonanze con il linguaggio dei repubblicani, si deve guardare al capitolo seguente, chiamato «War on Terror». Centrato sulla caccia a Osama bin Laden, e sulla «fine del lavoro » in Afghanistan, ma anche sulla lotta al degrado politico economico e sociale dei paesi dove operano i network terroristici. Qui la differenza con un Norman Podhoretz, è sfumata, ma c’è. Basta riandare al settembre 2004 quando il teorico neocon scriveva su The Commentary: «Il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici.
Le paludi in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell’oppressione politica». Meno netto pare lo scarto sull’unilateralismo – «rinnovare alleanze a lungo termine» e guidare sforzi internazionali per sostenere e difendere i diritti umani» – ma solo perché parzialmente abbandonato anche dalla rivisitazione della dottrina Bush. Rimane la centralità degli Stati Uniti nel mondo, ma anche qui, si tratta di una «una leadership da restaurare».
Con la sicurezza nazionale, torna l’atto d’accusa.
«La tragedia di Katrina ha dimostrato che il governo federale non era ancora preparato a rispondere » alle esigenze emerse con l’11 settembre. Di qui la necessità di sorvegliare i confini, porti ed aeroporti; di operare screening su container e cargo; di prevenire «l’outsourcing di componenti critici» del sistema delle infrastrutture (il riferimento è alla vicenda della cessione dei porti a Dubai). Infine l’Iraq, che nel 2006 dovrebbe acquistare la «piena sovranità », e la questione energetica con l’obiettivo di «rendere indipendenti gli Stati Uniti entro il 2020» dal petrolio del Medio Oriente, e da «altre regioni instabili del mondo».
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