Saturday, February 25, 2006

«L’attacco ai pozzi, pessimo segnale per il regno Saud»

PARLA CRAIG UNGER
«L’attacco ai pozzi, pessimo segnale per il regno Saud»
di STEFANO BALDOLINI
Un duplice attacco suicida contro la più grande raffineria del mondo è stato sventato dalle forze di sicurezza saudite che hanno aperto il fuoco contro due vetture a pochi metri dai cancelli dello stabilimento petrolifero di Abqaiq, nella provincia orientale del regno, regione a maggioranza sciita.La raffineria, che gestisce i due terzi della produzione del paese – complessivamente un sesto delle esportazioni mondiali con sette milioni e mezzo barili al giorno – non avrebbe risentito dell’incidente.Ma per Craig Unger, esperto di terrorismo ed industria petrolifera ascoltato da Europa, non ci sono dubbi, «siamo vicini alla resa dei conti con al Qaeda», che vuole far impennare i prezzi del barile, così come dichiarato da bin Laden un anno fa.
Per l’autore di House of Bush, House of Saud, l’inchiesta sulle relazioni pericolose tra la dinastia Bush e la famiglia reale saudita ripresa da Michael Moore in Fahrenheit 9/11, l’attacco di ieri rappresenta un’accelerazione nella «guerra civile a bassa intensità» in corso da anni nel paese.
Era dal maggio del 2003 che al Qaeda non colpiva.
Non è esattamente così. I media non ne hanno parlato ma ci furono attacchi ben più gravi da allora.Una battaglia di tre giorni uccise circa centocinquanta persone sempre nelle province orientali del paese, per esempio.Comunque ad oggi, si può guardare la questione in due modi: da un lato i sauditi sono riusciti a proteggere i loro impianti, dall’altro al Qaeda ha aspettato il momento favorevole per concentrarsi sul suo ultimo obiettivo: far impennare i prezzi del petrolio con un enorme ricaduta sull’economia mondiale.
Come chiesto dal capo...
Non è un caso che l’attacco di ieri si sia verificato un anno dopo che Osama bin Laden ha esortato i suoi sostenitori ad attaccare le raffinerie nel Golfo Persico.Ma queste, le raffinerie saudite, sono ancora da considerarsi come un’appendice dell’Occidente?
Nel recente discorso sullo stato dell’Unione, Gorge W. Bush ha parlato esplicitamente della necessità di uscire dalla dipendenza dal petrolio.È vero in parte che Bush si sia espresso per un mutamento di rotta.
Non credo che la politica energetica degli Stati Uniti cambierà così radicalmente e in maniera tanto rapida. L’America e l’intero Occidente sono ancora troppo dipendenti dal petrolio e in particolare di tre paesi: Iraq, Iran e Arabia Saudita.Attaccare gli oleodotti rimane il modo più ef- ficace e il più immediato. Ne passerà del tempo prima che colpire un impianto petrolifero non vorrà dire automaticamente attaccare l’Occidente.
Sintomatico della persistente dipendenza mondiale dall’oro nero è il possibile accordo tra l’Iran e la Cina, di cui si parla in questi giorni. Non è trascurabile che Pechino, ottenuta un’importante fornitura di petrolio, potrebbe essere un prezioso alleato alle Nazioni unite dove Teheran è sotto pressione per i piani sul nucleare.
Insomma, i legami tra la famiglia Bush e quella saudita, raccontati dal suo libro, sono ben lontani dall’essere recisi?
Esattamente. Persistono ancora forti relazioni, ma qui il discorso va approfondito. D’altro canto, solo ad un primo sguardo questi possono considerarsi “forti”. A Riyad, com’è noto, c’è una teocrazia, la religione di stato rimane wahabita, decisamente si tratta di un paese dai tratti fondamentalisti.E la stessa casa regnante è percorsa da pulsioni differenti.Da parte nostra, chiedere con troppa perentorietà di bilanciare la tendenza alle riforme con altri aspetti radicati nella realtà saudita, potrebbe portare ad una sorta di guerra civile.
Lei in passato ha parlato di una «guerra civile a bassa intensità» in corso nel paese.
Già, ma recentemente le cose sono cambiate. I sauditi hanno dovuto fronteggiare in sequenza dei momenti di crisi molto evidenti. La questione della successione di Re Fahd per esempio.È innegabile però che l’attacco di ieri possa rappresentare l’ennesima accelerazione di tale guerra civile a bassa intensità.
EUROPA di oggi, sabato 25 febbraio 2006

Thursday, February 23, 2006

Una bufala la cattura di Mladic, sintomo dei travagli nell'ex-Jugoslavia che bussa alla Ue

«Montatura mediatica» - come sostiene Carla del Ponte - o meno, non c’è dubbio che la vicenda Mladic si inserisca come un grimaldello nel destino dei futuri Balcani.
D’altro canto quello del Tribunale penale internazionale dell’Aja sui crimini di guerra nell’ex Jugoslavia, è un osservatorio privilegiato, configurandosi allo stesso tempo come motore e stadio terminale dell’intero processo di normalizzazione della regione. Di quello che nelle parole del ministro degli esteri austriaco, presidente di turno Ue, è «il progetto europeo di pace della mia generazione».
E’ dall’Aja che è giunto il perentorio invito alla cattura da parte di Belgrado del presunto boia di Srebenica, pena il congelamento delle trattative con la Serbia-Montenegro per l’associazione (l’Asa) con l’Unione. Richiesta ribadita nei giorni scorsi dal commissario per l’allargamento, il finlandese Olli Rehn, e dal presidente della Commissione Barroso, che ha definito la cooperazione col tribunale penale «un test chiave» per il paese.
Che appare in balia di un duro scontro politico interno. Da un lato il premier europeista Kostunica (impegnato oggi a tranquillizzare Bruxelles), dall’altro chi soffia sul fuoco cercando di destare fantasmi recenti. E’ in questo quadro che sembra collocarsi la saga di Mladic, che fonti serbe danno impegnato a negoziare la resa sui monti al confine con la Bosnia.
Naturalmente a complicare le cose c’è la questione del Kosovo. Sempre martedì scorso a Vienna s’è concluso il primo round (dalla fine della guerra, sette anni fa) dei colloqui tra serbi e kosovari. Con Belgrado disponibile a concedere al massimo un’autonomia e la maggioranza albanese (il 90% della popolazione) a chiedere l’indipendenza della provincia amministrata dalle Nazioni unite.
Quasi certa, secondo numerosi osservatori – solo ieri un diplomatico americano presso l’Onu la pronosticava entro l’anno - ma necessariamente legata alla tutela della minoranze serba. In centomila su due milioni di abitanti, distribuiti sul territorio in modo tale da non poter essere facilmente delimitato. Così l’auspicio del cosiddetto Gruppo di contatto di pervenire entro l'anno ad uno “status finale” della regione, dovrà fare i conti con Belgrado, che vede nell’indipendenza un fattore di destabilizzazione.
Punto di vista parziale, certo, ma ipotesi da non sottovalutare. Il successo kosovaro potrebbe rinvigorire le mire indipendentiste delle minoranze albanesi (e musulmane) presenti in Macedonia, sud della Serbia e del Montenegro con, sullo sfondo, il progetto della “grande Albania” a caratterizzare i Balcani meridionali.
Ben più avanti della Serbia nel cammino di integrazione europea, è la Croazia che ha già firmato l'accordo di stabilizzazione e avviato l’adesione. «Traguardo che va preceduto e accompagnato da iniziative di integrazione regionale», ha ricordato Barroso rilanciando implicitamente il progetto di Bruxelles di un mercato comune con Albania, Macedonia, Serbia-Montenegro e Bosnia. «Nulla a che vedere con il passato», s’affrettava a precisare lo stesso Barroso. Invitando Zagabria a superare le perplessità e «ad essere motore trainante dell'intera regione» in virtù della propria forza economica: il Pil pro capite dei croati ammonta a oltre 6.200 euro annui, contro i 2.320 dei serbo montenegrini, i 2.300 degli albanesi, i 2.080 dei macedoni e gli appena 1.730 dei cittadini della Bosnia.
«La Croazia - ha avvertito da Zagabria il premier Ivo Sanader - non permetterà mai la creazione d’una nuova Jugoslavia». Ben altra la reazione della Serbia, che con i suoi 10 milioni di abitanti sui 24 milioni complessivi della zona coinvolta sarebbe il partner più grande. «Unire i soggetti economici della regione può essere solo d’aiuto», ha detto il ministro dell’economia, Pedrag Bubalo. La parola finale verrà data dall’Unione europea durante l’incontro dedicato ai Balcani occidentali, che si terrà a Salisburgo il 10 e 11 marzo.
E sempre entro marzo, negli obiettivi di Strasburgo, dovrebbero concludersi i negoziati per la riforma della costituzione della Bosnia garantendo la creazione di istituzioni efficienti che «superino le divisioni etniche». Il paese, nato con gli accordi di Dayton del 1995, è tuttora diviso in due entità statali e non ha ancora risolto i contrasti tra le tre comunità predominanti: bosniaci, serbi e croati.
Come detto, il processo d’integrazione europea, la questione del Kosovo, lo spazio d’integrazione commerciale, hanno come terminale simbolico, ma non solo, la consegna dei criminali di guerra.
In questo senso l’elenco dei latitanti è ancora lungo. Sfuggono da quasi undici anni alla giustizia Radovan Karadzic, l’ex capo politico dei serbi di Bosnia, e Goran Hadzic, l’ex presidente della repubblica serba autoproclamatasi di Krajina. Importanti generali si sarebbero rifugiati in Russia, per tradizione vicina a Belgrado, che comunque ieri ha annunciato di non voler osteggiare l’indipendenza del Kosovo
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STEFANO BALDOLINI su Europa di giovedì 23 febbraio 2006

Povera famiglia Simpson

Aiutate la famiglia Simpson. Sempre più vecchia, più povera, e abbandonata dalle politiche che non sostengono i first suburbs dove vive, le periferie americane nate negli anni ‘50, oggi compresse tra le città e la nuova periferia diffusa.
Secondo un rapporto del Brookings Institution (One-Fifth of America: A comprehensive Guide to America’s First Suburbs), nè completamente urbani, nè completamente suburbani, nè poveri o grandi abbastanza da essere oggetto dei finanziamenti federali, i first suburbs devono fronteggiare sfide inedite. Come la concentrazione di popolazione immigrata ed anziana, o la coesistenza di abitazioni antiquate ed edifici commerciali: sfide molto differenti da quelle dei vicini centri urbani, o delle nuovi grandi periferie che le circondano, il cosiddetto urban sprawl, a più rapido sviluppo.
Secondo il New York Times è in pericolo il sogno della generazione "pendolare", la way of life di milioni di giovani coppie (bianche) che cinquantanni anni fa lasciarono il centro della città per luoghi più verdi, vicino a zone commerciali e scuole, accesso ai treni e freeways, dove costruire case monofamiliari e mettere su famiglia.
Era la generazione dei veterani della seconda guerra mondiale, che contribuirono all’incremento del 46% della popolazione solo nel primo anello di periferie tra il 1950 e il 1956. Attratti da slogan come quello di Rohnert Park in California, «A Country Club for the middle class», i “pionieri tranquilli” colonizzarono 64 contee (nel nord-est, 27, la maggiore concentrazione) crescendo del 161,3 per cento dal 1950, il doppio della crescita media nazionale (all’86 per cento) e molto più delle città vicine (+5,3 per cento). Fino al 1970, quando il numero degli abitanti nelle periferie superò il numero degli abitanti di ogni altra zona americana.
Ma se solo negli anni ’50, le nuove periferie diedero accoglienza a circa il 40 per cento della crescente popolazione americana - «in molti luoghi i first suburbs erano letteralmente il luogo dove l’America stava crescendo», fa notare il rapporto - quel fenomeno ha rapidamente mutato volto. Fino ad arrivare ad assorbire solo circa il 15 per cento della crescita nei ’90. Così oggi i first suburbs resistono alle città vicine, ma perdono colpi rispetto alle periferie più recenti.
E diventano sempre più povere. Relativamente, s’intende, rispetto ad altre zone più depresse. Ma non mancano i segnali inquietanti. Così nei ’90, lo stallo dei redditi, a fronte della crescita nazionale. E un numero di residenti sotto la soglia di povertà triplicato dal 1970 al 2000.
Perde colpi anche il modello vincente che generò ricchezza e speranze: oggi la famiglia tradizionale sposata con figli è solo del 27%. La media dei componenti familiari è calata dal 3,2 del 1970 al 2,7 del 2000. Sempre più anziani vivono nelle periferie storiche, più della media nazionale. La fascia degli over 65 cresce a più del doppio che nel resto del paese. E le case sono invecchiate con i loro proprietari (che sono sempre meno).
Muta anche la composizione razziale. Le prime periferie, che costituirono una rifugio per i bianchi in ritirata dalle città – sempre più multirazziali negli anni dell’emancipazione – stanno ora diventando più multietnici che nel resto del paese. Così raddoppia dal 1980 al 2000 la percentuale delle minoranze, con asiatici ed ispanici a costituire più di un terzo della popolazione. Ma non solo. Le periferie storiche diventano anche una meta per i nuovi immigrati, che sembrano abbandonare la metropoli come destinazione storica: nel 2000 nove milioni contro 8,6 milioni nelle città vicine.
Tutto questo potrebbe portare a tensioni inedite per un quinto della popolazione degli Stati Uniti, finito in un «punto cieco» della politica. «I first suburbs sono troppo poco poveri per ricevere aiuti statali o federali e non grandi abbastanza per ricevere direttamente fondi», denunciava già nel marzo del 2004, Robert Puentes, uno dei curatori del rapporto. Compressi tra le esigenze delle grandi città e della nuova periferia diffuse.
E se l’urban sprawl costiuisca una minaccia per l’America, si chiede la rivista online Slate nel novembre scorso. «Noi odiamo lo sprawl. E’ il responsabile per tutto ciò che non amiamo dell’America moderna». Strisce ininterrotte di centri commerciali, la perdita della campagna, i Suv sempre più potenti, il traffico, la dipendenza dal petrolio, la guerra in Iraq. «Nessun dubbio, lo sprawl è cattivo, l’America cattiva».
Buono o cattivo, il fenomeno è in espansione. E la nuova periferia diffusa, con il proliferare delle sue esigenze, rischia di abbandonare al loro destino gli abitanti delle periferie storiche. Con tanti saluti ai Simpson. Ma non solo.
«Il degrado dei first suburbs» potrebbe essere uno dei fattori più incidenti nel degrado dell’America metropolitana scrive Robert Fishman (“The American Metropolis at Century’s End: Past and Futur Influence”). Ironicamente, fa notare il New York Times, la stessa cosa si diceva a proposito delle città, il cui declino avrebbe influenzato intere regioni.
STEFANO BALDOLINI, EUROPA di sabato 18 febbraio 2006