Wednesday, September 06, 2006

«Il parlamento dell’uomo e la crisi del Libano»

NAZIONI UNITE Parla lo storico Paul Kennedy, autore del saggio “The Parliament of Man”
«Il parlamento dell’uomo e la crisi del Libano»
«Abbiamo bisogno di organizzazioni come le Nazioni Unite proprio per missioni di peacekeeping come quella in Libano. Ma sono altrettanto convinto che non dovrei essere così ottimista. Eppure il mondo non ha alternative»
di STEFANO BALDOLINI
Europa sabato 2 settembre 2006

Paul Kennedy conosce bene come funzionano le Nazioni Unite. A metà degli anni ’90, incaricato dall’allora segretario generale Onu Boutros Boutros –Ghali, il docente di storia a Yale contribuì a redarre il rapporto “The United Nations in its Second Half–Century”, preparato per il cinquantenario del Palazzo di vetro. Oggi, undici anni dopo, dà alle stampe “The Parliament of Man: The Past, Present and Future of the United Nations” (pubblicato dalla Random House di New York, in Italia la prossima primavera edito da Garzanti).
Con la missione dei caschi blu in Libano e nonostante l’ennesimo tentativo fallito, lo scorso autunno, di riformare il Palazzo di vetro, le Nazioni Unite sono tornate centrali. Europaprova a fare un punto sull’organizzazione internazionale più importante e più controversa.
Che idea si è fatto dell’Unifil? Cosa rappresenta per l’Onu, l’ultima chance o l’inizio di una nuova fase?
Credo che noi abbiamo bisogno di organizzazioni come l’Onu esattamente per missioni di peacekeepingcome quella in Libano. Ma sono altrettanto convinto che non dovrei essere così ottimista. Comunque, la Unifil, dal punto di vista tecnico, è un classico caso di missione Onu di peacekeeping su mandato del Consiglio di sicurezza. Nè più nè meno di quanto è avvenuto in passato per l’Africa occidentale, per la Cambogia, per Timor Est… Si tratta dunque dell’esito di un processo tradizionale. Questo dimostra che il Consiglio di sicurezza può far passare qualsiasi risoluzione, sia di peacekeeping che di peace enforcing, ma che allo stesso tempo è profondamente dipendente dalla volontà degli stati membri di inviare le truppe o meno. Se l’Italia non avesse dato la disponibilità a fornire le truppe, la missione non sarebbe stata messa in piedi. Ora ogni cosa dipenderà dalla reale volontà dei paesi di inviare le truppe e da quella dei belligeranti di rispettare il cessate il fuoco. Ma la domanda che uno dovrebbe farsi è: se non avessimo avuto le Nazioni Unite, quale alternativa avremmo avuto a disposizione? Non mi sembra che ce ne siano molte.
Lei parla della necessità di una forza militare Onu pari a centomila unità, di un servizio di intelligence sganciato dai governi…
Qui ci sono tre cose da dire. Primo. Esiste già nella Carta del 1945 un organismo chiamato Military Staff Committee che però non ha una funzione molto attiva.
Forse andrebbe rivisto. In alternativa ogni operazione deve essere gestita dall’ufficio del Segretario generale e dal Consiglio di sicurezza.
Si pensi che in questi giorni Londra e Washington hanno lavorato per inviare ben 22mila uomini in Sudan. C’è dunque bisogno di qualche organismo che programmi e gestisca il tutto. Secondo.
Quando passa una risoluzione per una nuova operazione, c’è il problema di reperire le truppe. La mia proposta non è di un esercito permanente, ma di individuare la disponibilità massima di truppe Onu che, quando necessario, verrebbero attivate dai maggiori contributor. Così per esempio India, Brasile, Gran Bretagna, Italia... dovrebbero addestrare diecimila uomini e averli già pronti per le operazioni di polizia internazionale. Sarebbe un esercito in stand-by decisivo per portare le truppe nelle aree di crisi molto velocemente. E qui arriviamo al terzo punto.
Ossia alla capacità di intervenire quando una crisi è nella prima fase. Prendiamo il Congo. Allora ong come Oxfam o Amnesty International, sapevano che nel paese la guerra civile stava scoppiando, ma si è perso tempo. Occorre sviluppare un sistema di intelligence legato al Consiglio di sicurezza che possa prevenire future catastrofi.
Negli ultimi tempi non stiamo correndo il rischio di una militarizzazione delle Nazioni Unite?
È vero, la dimensione militare sta prevalendo su quella non militare e politica, a cui la Carta dava molta attenzione. Ma se stiamo trascurando altri temi, quelli economico sociali o quelli ambientali, è perché il momento è obiettivamente dif- ficile. I conflitti in corso sono molto seri.
Per arrivare alla risoluzione sul Libano, Israele, Stati Uniti e resto della comunità internazionale hanno negoziato giorno e notte, e così è stato per il Darfur, la risoluzione successiva.
Perché le Nazioni Unite dovrebbero essere riformate?
Bisogna ricordare che con il termine riforma s’intendono diverse cose. Per i conservatori americani come il senatore Jesse Helms, riforma dell’Onu signi fica taglio della burocrazia, dei posti di lavoro e riduzione delle dimensioni. Questa è una visione negativa della riforma. Altri vedono la riforma come un miglioramento dell’intelligence, della preparazione delle truppe di peacekeeping, del coordinamento tra le diverse agenzie. Questo è un altro livello ancora. Ma la riforma su cui tutti si concentrano è quella del Consiglio di sicurezza e del potere di veto dei membri permanenti. Non è realistico avere uno schema che corrisponde a com’era il mondo nel 1945. Di qui la richiesta di introdurre nuovi membri permanenti per rispettare il reale equilibrio di potenza del 2006, e il conseguente gioco dei veti incrociati.
Ogni paese designato, India, Giappone, Brasile… ha un rivale regionale con buoni motivi per pretendere il suo posto.
Perché i tentativi di riforma sono falliti?
Nessuno vuole sostenere che le Nazioni Unite siano perfette. La stessa Carta è frutto di un compromesso.
I due organismi principali esprimono due diverse concezioni. Se l’Assemblea generale è il “Parlamento dell’uomo”, il Consiglio di sicurezza è uno specchio dell’equilibrio delle potenze. Di riflesso le Nazioni unite non lavorano bene quando esistono veti, ma funzionano solo quando esiste cooperazione, quando si arriva ad un compromesso. Anche quello sul Libano è stato un compromesso. Il problema è che per fare una riforma del Consiglio occorre una modifica della Carta costituzionale.
Dunque l’unanimità dei cinque membri permanenti più il voto favorevole di due terzi dell’Assemblea generale.
E questo è estremamente arduo da ottenere.
Qual è la sua proposta di riforma del Consigliodi Sicurezza? Dopo il successo della diplomazia in Libano, aumentano le quotazioni italiane per un seggio?
Non trovo realistico e nemmeno auspicabile che da qui a breve possano venire aggiunti nuovi seggi permanenti.
Forse l’unica candidatura veramente forte è quella dell’India. Per motivi demografici, e perchè è uno dei maggiori contributor. Mentre per rendere più rappresentativo il consiglio porterei a diciotto i membri a rotazione, fermi a dieci dal 1965. Poi abolirei il limite massimo di due anni per i non permanenti.
Se un paese opera bene, e gli viene riconosciuto, perché non dargli un’altra possibilità?
Il titolo del suo libro «The Parliament of Man…» è un verso di Lord Afred Tennyson. Perché ha scelto un poeta, e non un politico?
Il senso del titolo, e anche del mio libro, è che quella di una federazione politica mondiale è una nobile visione, che noi dovremmo sostenere con tutte le forze. Poi come ho scritto in una breve nota introduttiva, circa un secolo dopo esser stati scritti, i versi di Tennyson conobbero un ammiratore d’eccezione: un giovane senatore del Missouri, che si chiamava Henry Truman, e che più tardi da presidente degli Stati Uniti presiederà la conferenza di San Francisco, nel 1945, quando il Parliament of Manvenne istituito.

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