Friday, September 15, 2006

Pochi stranieri nei nostri atenei. Per la scuola italiana si spende tanto e male

L’OCSE E L’ITALIA  PERMANE IL GAP IN QUALITÀ ED EQUITÀ TRA IL NOSTRO SISTEMA E QUELLO DEGLI ALTRI PAESI. LE DONNE RICEVONO PIÙ ISTRUZIONE DEGLI UOMINI
Pochi stranieri nei nostri atenei. Per la scuola italiana si spende tanto e male
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano venerdì 15 settembre 2006

L’Italia non attrae gli studenti stranieri, che si iscrivono a fatica nelle nostre università. Cresce il numero degli adulti con una preparazione scolastica di base, le donne superano gli uomini in numero di ore d’istruzione ricevuta, ma rimane un gap significativo con gli altri paesi in termini di qualità ed equità del nostro sistema scolastico. E soprattutto, per l’istruzione in Italia, si spende, tanto, e male. Questi a grandi linee, i dati del rapporto Ocse “Education at a Glance 2006”, letto dal nostro punto di vista.
Ma andiamo con ordine.
Dal punto di vista della mobilità degli studenti universitari, l’Italia è uno dei paesi meno internazionalizzati. Solo il 2% degli studenti di tutto il mondo viene in Italia per studiare nei nostri atenei.
Peggio solo la Malaysia, l’Austria, la Svizzera e la Svezia, fermi all’1%. E’ un dato che fa riflettere se confrontato con la tendenza dei 30 paesi Ocse, (è raddoppiato dal ’95 il numero di iscritti fuori dal loro paese d’origine) e non migliora di molto le cose sapere che dal 2000 al 2004, il numero di immatricolazioni di studenti stranieri è cresciuto del 63%.
Altrettanto interessanti i dati che dovrebbero riguardare l’attuale classe dirigente e, di riflesso, chi ragiona in termini di ricambio generazionale. In media gli adulti italiani hanno ricevuto appena più di dieci anni d’istruzione, il quarto peggior risultato tra i paesi Ocse. Solo il 28% di chi oggi ha tra 55 e 64 anni, ha ottenuto un diploma di istruzione superiore, parametro considerato decisivo per raggiungere il successo nelle economie moderne. Diploma, che in compenso, è posseduto dal 64% di chi oggi ha tra i 25 e i 34 anni . In questo senso, solo Grecia, Irlanda, Corea del Sud e Spagna hanno fatto meglio nel periodo considerato.
Impulso a tale dinamica è stata data dalle donne. In linea con la tendenza dei paesi Ocse. In Italia il cosiddetto gender gap – la differenza di genere – nei tassi di conseguimento di un diploma sta invertendo la rotta. Così le donne tra i 45 ai 54 anni hanno oltre un anno in meno di studio che i loro coetanei, mentre quelle tra 25 e 34 hanno ricevuto sei mesi in più d’istruzione.
Ma le note positive sembranofermarsi qui. E il numero di coloro che raggiungono il diploma di istruzione superiore rimane molto sotto la media Ocse. E a giudicare dal programma PISA, i quindicenni italiani sono tra i peggiori in matematica, superati solo da Grecia, Messico e Turchia.
E se sorprende meno, e in senso assoluto e relativo agli altri paesi, che gli studenti provenienti da aree disagiate abbiano meno successo scolastico, decisamente più interessante è il dato che riguarda le qualità delle scuole. Con la forbice tra istituti che si è drammaticamente divaricata (più di dieci punti percentuali) solo nel triennio 2000-2003. Dato preoccupante perché dimostra l’incapacità del sistema scolastico italiano di fornire un’istruzione equivalente su tutto il territorio di propria competenza, e alimenta diversi esiti paradossali. Che c’è più differenza tra scuole nello stesso paese che tra diversi paesi, per esempio.
O che è più grande il divario tra le scuole italiane, che non tra la media dei risultati degli studenti italiani e quella degli studenti degli altri paesi.
Quel che è peggio, come si legge nel rapporto, è che le cattive prestazioni del nostro paese «non possono essere legate a bassi investimenti». Tutt’altro. Così la spesa annua dell’Italia per la scuola primaria e secondaria è molto al di sopra della media Ocse – rispettivamente, 7,366 dollari contro i 5,450, e 7,938 contro 6,962 – e la spesa per studente è cresciuta del 10% tra il 1995 e il 2004. Per coprire l’arco di tempo che va dalla primaria alla secondaria, l’Italia investe 100,437 dollari per studente, la settima cifra più alta dopo paesi come Danimarca, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Svizzera e Stati Uniti, e più del 30 per cento della media Ocse (77,204 dollari).
Dunque, messe così le cose, dov’è che il sistema non funziona? I simboli dell’inefficienza sono due parametri, entrambi sopra la media: il numero di docenti (10.7 studenti per insegnante, il più basso dei paesi Ocse), e le ore d’insegnamento (8mila ore programmate per gli studenti tra i 7 e i 14 anni, secondi solo ad Australia e Paesi Bassi). Questo mentre gli stipendi degli insegnanti continuano ad essere sotto gli standard Ocse (il 20% in meno per la primaria e secondaria) e crescono lentamente: ci vogliono 35 anni per un insegnante italiano a raggiungere il massimo, 24 anni negli altri paesi. E in parte i bassi stipendi sono compensati da una media bassa di numero d’ore d’insegnamento (726 e 594 contro 805 e 704, rispettivamente nella primaria e secondaria inferiore) In contrasto con tale dinamica, de- finita generosamente «non molto chiara » dai relatori del rapporto, c’è poi una certezza: si investe poco nell’università.
Con lo 0,9 per cento del Pil destinato alla scuola terziaria, siamo i soli – insieme alla Slovacchia – sotto l’un per cento. Il tutto a fronte di un contesto demografi- co che dovrebbe essere favorevole perché caratterizzato da un calo della popolazione in età da università. Infine un dato in controtendenza. Con il 27,9% del finanziamento dell’università proveniente da privati, sopra la media (23,6%) l’Italia è uno dei leader della relativa classi fica, dietro Polonia e Regno Unito. E in termini di crescita, nel 1995 era al 17,1%, seconda sola all’Australia.

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