Saturday, May 27, 2006

Il calciobusiness è una cosa seria. Non in Italia

Per le merchant bank Ubs e Goldman Sachs il pallone misura lo sviluppo di un paese
Il calciobusiness è una cosa seria. Non in Italia

di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, sabato 27 maggio 2006

Lo scorso aprile, a pochi giorni dall’esplosione della cosiddetta “Piedi Puliti”, una simulazione considerata attendibile dava l’Italia vincente nei prossimi mondiali di calcio in Germania. A fare tale previsione non sono stati i soliti bookmakers inglesi, ma gli analisti del Wealth management research dell’Unione delle banche svizzere, in un’edizione speciale dell’“Ubs investor’s guide”.
Il fatto che professionisti in genere dediti ad altre faccende, dichiarino di aver adottato «metodi scientifici paragonabili a quelli usati per fare previsioni economiche e finanziarie», conferma una volta di più quello che tutto il mondo sa e che solo il cosiddetto sistema Italia sembra non vedere, o far finta di non vedere. Ossia che il calcio, oltre ad essere un fenomeno sportivo e di costume, è anche (o soprattutto) business, e come tale pretende di essere trattato. Dunque bando ai tradizionali criteri di valutazione basati sui risultati sportivi, e largo a parametri più efficaci per descrivere ed analizzare il settore.
A partire dal linguaggio.
Goldman Sachs, in un altro rapporto diffuso recentemente dal titolo inequivocabile “The world cup and economics 2006”, analizza senza mezzi termini se e quanto i mercati delle economie emergenti (le cosiddette Bric’s economies) incideranno sul football e viceversa.
E vengono fuori cose sorprendenti.
Se non è una novità che dal rapporto tra pil pro capite e successo sportivo, emerge che i paesi più ricchi hanno generalmente le nazionali più competitive, relativamente inedita è invece la circostanza che il calcio possa assurgere a parametro di sviluppo di un’intera economia. Un po’ come nel secolo scorso quando l’America’s cup era la cartina di tornasole dello sviluppo tecnologico di un paese. In questo senso, se non sorprende che sei dei paesi del G7 siano tra i top 20 della Fifa, più rilevante il fatto che siano i big four europei (Germania, Francia, Italia, Inghilterra), quelli con la maggiore popolazione, a fare la parte del leone.
Ed è proprio il rapporto tra successo sportivo e popolazione a prefigurare inediti scenari. Per la banca d’affari americana «i Mondiali del 2050 potrebbero avere un sapore differente da quelli del 2006». Con la Turchia a insidiare alla Germania il primato nel continente, e la Russia e l’Italia, considerato l’attuale basso tasso di natalità, in declino nel ranking mondiale. Aspettando Cina e India, la tesi s’attaglia già all’America Latina, con i giganti Brasile e Argentina protagonisti.
Dunque, assodato che i numeri della macroeconomia incidono quanto un colpo di tacco di Ronaldinho – anche alla luce di ricerche come quella del Centre for Economics and Business Research che prevedono ben 1,25 miliardi di sterline iniettati nell’economia del Regno Unito durante i mondiali tedeschi – resta da capire la ricaduta degli scandali recenti sul comportamento dei consumatori del nostro paese. Il rischio è che per fare pulizia ci si dimentichi che il calcio è business e si ritorni a considerarlo solo come un fenomeno di costume (anche se culturalmente influente).
Non a caso per ristrutturare parte importante dell’industria, si parla di uomini del secolo scorso come Giampiero Boniperti. Alla guida della Juventus quando, tra una corsa di Cuccureddu e una punizione di Platini, delle Bric’s economies, non se ne sospettava ancora l’esistenza.

Monday, May 22, 2006

Barry McCaffrey Memo

IRAQ  UN MEMORANDUM CHE FOTOGRAFA MOLTO REALISTICAMENTE LA SITUAZIONE MILITARE ATTUALE E PROSSIMA
Il quadro non è nero ma l'occupazione durerà altri cinque anni
Stefano Baldolini
su Europa Quotidiano, sabato 20 maggio 2006
Ci vorranno cinque anni prima che il nuovo esercito iracheno possa essere autosufficiente e fare a meno delle truppe americane, per le quali invece i prossimi 24 mesi saranno decisivi. Ancora molto da fare per riorganizzare le forze di polizia.
Questi i punti principali di un recente rapporto stilato Barry McCaffrey, veterano del Vietnam, comandante nella Guerra del Golfo e “zar antidroga” dell’amministrazione Clinton.
Il documento, un memorandum di sette pagine destinato all’Accademia militare di West Point, segue un tour di sette giorni in Iraq e Kuwait a metà dello scorso aprile, ed è frutto delle osservazioni sul campo e degli incontri con i vertici militari, compreso George Casey, il capo dell’intera coalizione.
Esercito e polizia irachena, i nodi da sciogliere per completare la missione di Gorge W. Bush: portare la democrazia nel paese e riportare a casa le truppe, 132 mila unità allo stato attuale.
L’Iraq Army, per la cui formazione gli Stati Uniti hanno speso 8,7 miliardi di dollari, è «reale, in crescita e disposto a combattere», ma «carente di equipaggiamento di base». Ad un «livello di formazione dei battaglioni in molti casi eccellente» corrispondono uomini «equipaggiati molto male», dotati di «pochi veicoli ed armi leggere», la maggior parte appena «con giubbotto antiproiettile e una o due uniformi.» Scarsità di armi pesanti, mortai, artiglieria, trasporto aereo, elicottero e supporto alle operazioni. «Molto positive e genuine», invece le relazioni tra i soldati iracheni e gli addestratori americani.
Dall’analisi della composizione dei militari – 250 mila - emerge che i sunniti – la minoranza che dominò sotto Saddam Hussein e che oggi è anche minoranza politica – «si stanno unendo alle truppe in grande numero».
Se il giudizio sul giovane esercito iracheno è tutto sommato positivo, non altrettanto si può dire dell’altra forza impegnata sul terreno, la polizia, che è oggetto di un duro atto d’accusa: «profondamente infiltrata dalle forze anti-irachene e dalla milizia sciita», considerata «completamente inaffidabile da parte della popolazione sunnita», ed «incapace di fronteggiare i gruppi armati locali». L’eredità del regime, di «inattività, passività, abusi dei diritti umani e profonda corruzione.» Dieci anni ci vorranno prima di un ricambio completo dei quadri. Ma tale sfida «non è allo stato attuale dotata di risorse adeguate.»
Dal punto di vista politico, il requisito centrale è «la creazione di un governo iracheno di unità nazionale» per il quale le forze di sicurezza locali «possano lottare e morire. » Decisivi saranno i primi 120 giorni dell’amministrazione dello sciita Jawad al-Maliki, premier incaricato il 22 aprile scorso di superare una lunga fase di stallo.
In alternativa, lo scenario paventato è la temuta guerra aperta tra fazioni sunnite e sciite, con a nord, i separatisti curdi pronti ad impegnarsi in un conflitto con la Turchia. «Se nel prossimo anno gli Stati Uniti perderanno la leadership, il paese potrebbe implodere», si legge nel rapporto.
E all’entrata in funzione di un effettivo governo iracheno, è legato anche il «serio dilemma strategico» che attualmente affligge le truppe americane: impegnate in «un’azione di polizia regolata dalla legge» o «un mero strumento a servizio di una campagna contro i ribelli in un paese senza istituzioni»?
Il documento presenta delle note positive. I combattenti stranieri condotti nel paese dal leader di Al Qaeda, Abu Musab Zarqawi, non costituiscono più «una minaccia operativa e strategica per la creazione di un governo.» Migliora la condizione dei prigionieri politici «dopo i problemi del primo anno di Guerra al Terrorismo.» Nessuna traccia dunque di altre Abu Ghraib, la prigione dei soprusi e delle torture scoperta da un’inchiesta di Seymour Hersh sul New Yorker nel maggio 2004.
Analizzando il contingente americano, il generale in pensione (e professore associato di Affari internazionali a West Point) sottolinea come il morale delle truppe resti alto, nonostante le ingenti perdite, le oltre ventimila vittime. «Il morale, la capacità di combattimento, la sicurezza» delle forze americane «continua ad essere impressionante», scrive McCaffrey che mette però in guardia rispetto ad un fenomeno in rapida espansione, ad «una crescente ostilità» nei confronti della stampa. In questo senso, «ciò che mi infastidisce sono le ombre del Vietnam», ha dichiarato. Allora «ci vollero venti anni per uscirne, per cessare di essere considerati nemici dai media.»
Per uscire dall’Iraq invece, i prossimi due anni «di seria crisi» saranno decisivi. Anche in considerazione del decrescente appoggio interno alla campagna, sarà «una corsa contro il tempo.» A sostegno, i progressi compiuti nell’ultimo anno. Gli americani «sono più sicuri oggi che nei primi diciotto mesi che seguirono l’intervento.»
Allora, si era nel luglio 2003, McCaffrey, sempre molto critico rispetto alla “guerra leggera” condotta da Rumsfeld, dichiarò alla Bbc che le truppe Usa sarebbero state costrette a rimanere in Iraq per il prossimo decennio.

5 anni per l'esercito Iracheno

IRAQ  UN MEMORANDUM CHE FOTOGRAFA MOLTO REALISTICAMENTE LA SITUAZIONE MILITARE ATTUALE E PROSSIMA
Il quadro non è nero ma l’occupazione durerà altri cinque anni
di STEFANO BALDOLINI
su Europa quotidiano di sabato 20 maggio 2006
Ci vorranno cinque anni prima che il nuovo esercito iracheno possa essere autosufficiente e fare a meno delle truppe americane, per le quali invece i prossimi 24 mesi saranno decisivi. Ancora molto da fare per riorganizzare le forze di polizia.
Questi i punti principali di un recente rapporto stilato Barry McCaffrey, veterano del Vietnam, comandante nella Guerra del Golfo e “zar antidroga” dell’amministrazione Clinton.
Il documento, un memorandum di sette pagine destinato all’Accademia militare di West Point, segue un tour di sette giorni in Iraq e Kuwait a metà dello scorso aprile, ed è frutto delle osservazioni sul campo e degli incontri con i vertici militari, compreso George Casey, il capo dell’intera coalizione.
Esercito e polizia irachena, i nodi da sciogliere per completare la missione di Gorge W. Bush: portare la democrazia nel paese e riportare a casa le truppe, 132 mila unità allo stato attuale.
L’Iraq Army, per la cui formazione gli Stati Uniti hanno speso 8,7 miliardi di dollari, è «reale, in crescita e disposto a combattere», ma «carente di equipaggiamento di base». Ad un «livello di formazione dei battaglioni in molti casi eccellente» corrispondono uomini «equipaggiati molto male», dotati di «pochi veicoli ed armi leggere», la maggior parte appena «con giubbotto antiproiettile e una o due uniformi.» Scarsità di armi pesanti, mortai, artiglieria, trasporto aereo, elicottero e supporto alle operazioni. «Molto positive e genuine», invece le relazioni tra i soldati iracheni e gli addestratori americani.
Dall’analisi della composizione dei militari – 250 mila - emerge che i sunniti – la minoranza che dominò sotto Saddam Hussein e che oggi è anche minoranza politica – «si stanno unendo alle truppe in grande numero».
Se il giudizio sul giovane esercito iracheno è tutto sommato positivo, non altrettanto si può dire dell’altra forza impegnata sul terreno, la polizia, che è oggetto di un duro atto d’accusa: «profondamente infiltrata dalle forze anti-irachene e dalla milizia sciita», considerata «completamente inaffidabile da parte della popolazione sunnita», ed «incapace di fronteggiare i gruppi armati locali». L’eredità del regime, di «inattività, passività, abusi dei diritti umani e profonda corruzione.» Dieci anni ci vorranno prima di un ricambio completo dei quadri. Ma tale sfida «non è allo stato attuale dotata di risorse adeguate.»
Dal punto di vista politico, il requisito centrale è «la creazione di un governo iracheno di unità nazionale» per il quale le forze di sicurezza locali «possano lottare e morire. » Decisivi saranno i primi 120 giorni dell’amministrazione dello sciita Jawad al-Maliki, premier incaricato il 22 aprile scorso di superare una lunga fase di stallo.
In alternativa, lo scenario paventato è la temuta guerra aperta tra fazioni sunnite e sciite, con a nord, i separatisti curdi pronti ad impegnarsi in un conflitto con la Turchia. «Se nel prossimo anno gli Stati Uniti perderanno la leadership, il paese potrebbe implodere», si legge nel rapporto.
E all’entrata in funzione di un effettivo governo iracheno, è legato anche il «serio dilemma strategico» che attualmente affligge le truppe americane: impegnate in «un’azione di polizia regolata dalla legge» o «un mero strumento a servizio di una campagna contro i ribelli in un paese senza istituzioni»?
Il documento presenta delle note positive. I combattenti stranieri condotti nel paese dal leader di Al Qaeda, Abu Musab Zarqawi, non costituiscono più «una minaccia operativa e strategica per la creazione di un governo.» Migliora la condizione dei prigionieri politici «dopo i problemi del primo anno di Guerra al Terrorismo.» Nessuna traccia dunque di altre Abu Ghraib, la prigione dei soprusi e delle torture scoperta da un’inchiesta di Seymour Hersh sul New Yorker nel maggio 2004.
Analizzando il contingente americano, il generale in pensione (e professore associato di Affari internazionali a West Point) sottolinea come il morale delle truppe resti alto, nonostante le ingenti perdite, le oltre ventimila vittime. «Il morale, la capacità di combattimento, la sicurezza» delle forze americane «continua ad essere impressionante», scrive McCaffrey che mette però in guardia rispetto ad un fenomeno in rapida espansione, ad «una crescente ostilità» nei confronti della stampa. In questo senso, «ciò che mi infastidisce sono le ombre del Vietnam», ha dichiarato. Allora «ci vollero venti anni per uscirne, per cessare di essere considerati nemici dai media.»
Per uscire dall’Iraq invece, i prossimi due anni «di seria crisi» saranno decisivi. Anche in considerazione del decrescente appoggio interno alla campagna, sarà «una corsa contro il tempo.» A sostegno, i progressi compiuti nell’ultimo anno. Gli americani «sono più sicuri oggi che nei primi diciotto mesi che seguirono l’intervento.»
Allora, si era nel luglio 2003, McCaffrey, sempre molto critico rispetto alla “guerra leggera” condotta da Rumsfeld, dichiarò alla Bbc che le truppe Usa sarebbero state costrette a rimanere in Iraq per il prossimo decennio.

Tuesday, May 16, 2006

Maps: Urban Sprawl Steady Since 1976

Maps: Urban Sprawl Steady Since 1976
By Tracy Staedter, Discovery News

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May 12, 2006— An unprecedented survey of urban sprawl in the continental United States is challenging conventional notions about development.

The research, published in the May issue of the Quarterly Journal of Economics, offers a detailed view of how land use varies across the country and, for the first time, explains what may be causing the variation.

"There was a lot of talk about urban sprawl and there were no facts. We put this data set together so that we could get some facts," said Matthew Turner, associate professor of economics at the University of Toronto.

Turner conducted the study with Marcy Burchfield of the Neptis Foundation in Toronto, Hernry Overman of the London School of Economics, and Diego Puga, of the University of Toronto.

Questions and opinions about urban sprawl and its causes have been around for years. But according to Turner, the opinions and policies arising from these debates are based largely on speculation.

To produce meaningful data, the researchers merged high-altitude photography from around 1976 with satellite images from 1992 -- the most recent images available. They divided the space into 8.7 billion grid cells, each representing 900 square meters (a little less than a quarter of an acre).

The scientists pinpointed development by measuring the percentage of impermeable cover, such as that created by buildings and concrete, producing a sprawl index.

The higher the index, the more scattered a city. For example, among metropolitan areas with a population over one million, Atlanta has an index of 56 percent, while New York has an index of 20 percent.

When averaged for all American cities, the numbers reveal that the open space around a typical home did not change much in the 16-year time frame. In 1976, the average sprawl index was 42 percent and in 1992, 43 percent.

The researchers also found a direct relationship between the pattern of sprawl and a city's topography, climate and access to groundwater. In temperate climates, for instance, populations tend to spread out more. In hilly areas, populations extend to build on level ground. And development tends to be more expansive where groundwater is abundant.

"All of this is very useful and it's a great achievement," said Jan Brueckner, a professor of economics at the University of California, Irvine, and the editor of the Journal of Urban Economics. But, he said, "it doesn't get at the fundamental question of whether a city is too built up."

"My idea is it's the spatial size of cities that matter. Their idea is that it's the compactness of development that matters," said Brueckner.

Turner agreed, and in fact, said his team has such data and will be analyzing it extensively until this summer.

TOP CORPORATE AIR POLLUTERS NAMED

TOP CORPORATE AIR POLLUTERS NAMED

AMHERST, MA, May 11, 2006 – Researchers at the Political Economy Research Institute (PERI) at the University of Massachusetts today released the Toxic 100, an updated list of the top corporate air polluters.

The Toxic 100's top five companies are E.I. Du Pont de Nemours & Co., US Steel, ConocoPhillips, GE, and Eastman Kodak.

press release PERI

E Moggi conduce la Domenica Sportiva

E Moggi conduce la Domenica Sportiva
Stefano Baldolini

Così per una sera Moggi conduce la Domenica Sportiva. Sullo sfondo lo scontro per la presidenza di Lega tra il presidente della Fiorentina e Galliani. La storica trasmissione RAI presenta pezzi da novanta, l’uomo nuovo Della Valle, il dg della Juve e Carletto Ancelotti che dovrebbe rappresentare la guancia buona del Milan. Peccato che manchino i giornalisti (Mazzocchi escluso s’intende). Così capita che a fare le domande siano due ex calciatori (il fumantino Zibì Boniek e il soporifero Mazzola) e un ex arbitro (Gigi Agnolin) ed ex dirigente sportivo.

Della Valle in collegamento cerca di ristabilire la sua verità sullo scontro con Galliani e dichiara di voler far fruttare ‘la sua esperienza d’imprenditore per il bene del calcio’.
Moggi ha un ragionamento da fare, coerente col suo stile allusivo, dice e non dice, abbozza mille sorrisi per far intendere che Della Valle è un parvenu e ripete fino alla noia che ‘non è detto che i presidenti che ora sono con lei non cambino casacca’. Inoltre ribadisce la fiducia della Juve a Galliani, ‘gran professionista preparato’. Ripeterà queste due cose per tutta la sera, è lì per questo, e cosa più rilevante cercherà di stoppare ogni tentativo di dire qualcos’altro. Detta la linea insomma, e si cucina Della Valle, ma non è la novità.

La novità arriva quando parte il collegamento con Reggio Calabria. E’ appena terminata Reggina-Samp (0-1). Il buon Carlo Paris ha radunato i due presidenti Marotta e Foti. Immaginiamo la fatica e la soddisfazione dell’inviato della Ds. Siamo pronti, in pratica per un micro confronto di Lega.
Ma il dg della Juve vuole finire il ragionamento così decide che da Reggio non devono parlare. ‘Foti, lei ha perso, quindi parla per ultimo’ fa al presidente della Reggina. In studio si ride, Foti mastica amaro ma prova la via dell’ironia (abbozza un ‘pure..’). Moggi continua a parlare. Mazzocchi insiste, ‘Marotta deve prendere l’aereo’, gli dà la linea ma quando Marotta parla il ‘messaggio è arrivato’ e non dice niente, si trincera dietro le frasi di circostanza. Qualcuno in studio fa notare che sembra impaurito. Il buon Carlo Paris e Foti non hanno aperto bocca. La missione è compiuta. A questo punto dovrebbe partire un’intervista a Moratti ma Moggi è contrariato, vorrebbe chiudere il ragionamento.

Comunque l’intervista parte. Il patron dell’Inter ha l’espressione dura, da uomo navigato, di quello che ormai il mondo del pallone lo conosce bene. Gli chiedono se accetterebbe il ruolo di mediatore tra le parti. Lui glissa, ha altre cose a cui pensare, per esempio vincere il primo scudetto e godersi il gioiello Adriano. Si ritorna a studio. Mazzocchi rilancia, ‘Moratti, ipotetico mediatore, Luciano, tu ce lo vedi?’ ‘Noo!’ gli risponde Moggi che poi zittisce Boniek che provava a intervenire (‘Zibì, ho delle cose da dirti su Tor di Valle’). A questo punto temiamo per Zibì ma per fortuna arriva il ragionamento di Moggi. ‘Ci sono rimasto male quando ho letto che Galliani, Giraudo e Moggi hanno troppo potere. Lei sa che il potere è lavorare e dare risultati. Giraudo e Galliani hanno dato tanto al calcio. Il vero problema sono i diritti tv. Se si facesse meno polemica pubblica e più tavoli di lavoro sarebbe meglio, altrimenti facciamo ridere tutta l’Italia’

Della Valle mostra primi segni di stanchezza ma ha ancora energie da spendere ‘Sono d’accordo. La lettera aperta l’ho scritta quando non c’era più nulla da fare. Non si può negare che il potere di Moggi, Giraudo e Galliani è sovradimensionato rispetto agli altri. Noi dovremmo ridare ai presidenti la facoltà di parlare (allude a Marotta) e non di dire cose solo dopo aver sentito le nostre due opinioni.’

Mazzocchi prova ad alzare il polverone ‘sentiamo Ancelotti. A questo punto, Carlo, non ti auguri che Galliani non si ripresenti?’ Moggi fiuta il pericolo ‘ma perché vuoi mettere nei guai anche Carlo Ancelotti?’ In studio c’è voglia di calcio giocato.
Agnolin non ce la fa più, sbotta ‘parliamo delle partite di oggi se Moggi ci fa parlare delle partite. Ha cambiato tutta la scaletta. E’ anche questa un’espressione di potere.
Ancelotti naturalmente si limita ad inarcare le sopracciglia (di cui dispone con grande indipendenza, inarca la destra e la sinistra a turno con un’incredibile agilità) e la trasmissione si normalizza con qualche chicca tra le dichiarazioni di rito.

Del tipo: Mazzocchi ‘ma se cambiano le regole lo rivoterebbe Galliani?’ - Della Valle ‘dopo questa mattina non lo voterò più. Perché è in grave conflitto d’interessi e non ho più fiducia nella persona’ – Moggi ’importante è fare regole che non siano disattese. Che è difficile considerando che un presidente che sta sul tavolo suo si può spostare dalla parte opposta alla sua.

Strepitoso l’intervento di Mazzola – ‘non sono d’accordo con Boniek (aveva alluso al conflitto d’interessi di Galliani’). Secondo la sua teoria Montezemolo che è presidente di Confindustria non dovrebbe essere presidente della Ferrari.

La provocazione cade nel vuoto. Si riparte. Mazzocchi prova ad accendere le polveri. Fa a Moggi ‘Allora domani in Lega che succede?’
Moggi ‘passiamo alle partire. Rientriamo nella scaletta che è meglio’
Mazzocchi ‘vuoi stare al posto mio?’
Moggi ‘ma che vuoi che ne sappia? Io domani non ci vado neppure in Lega.’
Della Valle sostituisce Mazzocchi in evidente difficoltà, ‘lei Moggi cosa consiglierebbe di fare?’
Moggi’ io ho una forte simpatia per la presidenza Galliani. Ma io conto poco. E’ competente e gran lavoratore. Escludo conflitti d’interesse. Con il Milan ogni volta ci meniamo’
Boniek’ ma quello è il campo, è un’altra cosa’
A questo punto Della Valle sposa la linea Agnolin ’14 società di A hanno chiesto lo spostamento del voto. La serie B ha chiesto la sospensione. Porsi la domanda se domani si vota o no le fa capire che ci muoviamo in un ambiente in cui regna l’arroganza’

Segue la pausa pubblicità che probabilmente rimette le cose a posto.
Mazzocchi ‘andiamo a vedere un po’ di calcio, Carlo sei contento?’
‘Credo di sì’ sorride Ancelotti dopo un paio di inarcamenti.
‘Luciano sei contento?’ fa Mazzocchi ammiccante.
‘Finalmente!’ replica Loggi. Tutto lo studio sembra contento. Si passa ad Adriano, sembra finita ma non lo è. Dopo un paio di servizi Della Valle, evidentemente esasperato da troppo calcio giocato, chiede a Mazzocchi ‘le servo ancora?’. Mazzocchi si schermisce, ‘non dica così..se vuole restare..’
Agnolin d’infilata ‘chiediamo a Moggi se può restare’
Moggi non se lo fa dire due volte ‘presidente è meglio che vada che questi tirano tranelli’
Ma Della Valle è grande abbastanza e decide da solo, ‘io credo che quello che dovevamo dire ce lo siamo già detti, saluta tutti e se ne va’.

Così rimane Moggi che risponde per Ancelotti ad una domanda di Agnolin su Crespo, poi invita Mazzocchi a ‘non interpretare, ad andare avanti’ con la trasmissione, che a quel punto non si capisce più di chi è. Chissà se se lo sarà chiesto anche il presidente Foti da Reggio, che immaginiamo ancora lì in attesa, della domanda del buon Carlo Paris.

(Media quotidiano, 18 ottobre 2004)

Allarme rosso sul clima che cambia.

Allarme rosso sul clima che cambia. Ucciderà a milioni nei paesi più poveri
Secondo il rapporto della ong Christian Aid la Terra è a rischio di inondazioni, carestie, siccità e anche conseguenti conflitti. I più colpiti saranno i paesi poveri, ma le emissioni di anidride carbonica riguardano tutti, Italia compresa.
di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, oggi martedì 16 maggio 2006

I cambiamenti climatici sono una minaccia per lo sviluppo. E almeno 182 milioni di persone nella sola Africa sub sahariana potrebbero morire entro la fi- ne del secolo per malattie direttamente attribuibili agli effetti del cosiddetto climate change. Lo denuncia la ong britannica Christian Aid, in un rapporto diffuso ieri dal titolo Climate of poverty: facts, fears and hope, che paventa inondazioni, carestie, siccità e persino con- flitti.
Come nel nord del Kenya, colpito dalla siccità, dove è in corso una vera e propria guerra tra i pastori per accaparrarsi le fonti d’acqua in diminuzione.
O in Bangladesh, dove praticamente tutta la popolazione vive in aree situate sotto il livello del mare e la situazione è potenzialmente ancora più drammatica: un aumento del livello degli oceani porterebbe a milioni di profughi. Il fenomeno è in parte già visibile, periodicamente, in coincidenza dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya, quando numerose famiglie sono già costrette a migrare.
Per evitare che tali scenari divengano reali, secondo Christian Aid le regioni più povere dovrebbero essere incoraggiate a usare fonti di energia rinnovabili.
Abbandonare i combustibili fossili e adottare fonti energetiche come quella solare o l’eolica «non solo produrrebbero benefici ambientali ma potrebbero avere come risultato un aumento dell’occupazione, migliori condizioni di salute e maggiori opportunità nell’educazione». Si stima, per ogni proprietario di un’abitazione del continente africano, che adottare energie pulite e rinnovabili costerebbe meno che pagare il conto del petrolio nei prossimi dieci anni. Le tecnologie in via di sviluppo potrebbero «trasformare il continente più povero del mondo in una rete esportatrice di energia pulita». Il rapporto esorta il governo Blair a guidare i paesi più ricchi in un’azione urgente per controllare il fenomeno del riscaldamento globale.
In questo senso va ricordato un recente studio condotto da sir David King, consigliere scientifico del governo, secondo il quale la temperatura della Terra sarebbe comunque destinata a salire di 3 gradi entro il 2100 con conseguenze disastrose. Quattrocento milioni di persone a rischio di malnutrizione, tra l’uno e i tre miliardi di uomini senza acqua, la distruzione di metà delle risorse naturali mondiali. Sulla vicenda lo scorso aprile il quotidiano The Independent titolava a otto colonne e scriveva nell’editoriale: «Lo studio prodotto dall’Headley Centre è un’ulteriore conferma delle gravissime conseguenze per l’umanità se si continua su questa strada».
E a proposito di strategie globali, il rapporto di Christian Aid cade nel pieno della due giorni di «dialogo» di Bonn, dove i 189 paesi che hanno ratificato la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici cercano di superare il perdurante stallo, ribadito alla conferenza di Montreal nel dicembre scorso, tra le differenti posizioni. Da una parte, i paesi dell’area Asia-Pacifico, che temono ripercussioni sull’economia e vogliono legare il taglio di emissioni allo sviluppo di nuove tecnologie. Dall’altra, l’Europa, che mira a ridurre le emissioni di gas serra attraverso il meccanismo delle quote.
Su questo fronte, proprio ieri l’Unione europea ha fatto sapere che le emissioni di anidride carbonica nel 2005 sono state oltre 44 milioni di tonnellate in meno della quota prevista.
Spicca il comportamento virtuoso della Germania (495 milioni di tonnellate consentiti, 473,7 emessi), della Francia, della Repubblica ceca e della Finlandia.
Male la Gran Bretagna (che sfora con 33 milioni di tonnellate) e la Spagna (18,9 milioni di tonnellate). L’Italia ha superato la soglia limite di circa 7 milioni di tonnellate, ma ha registrato il più alto numero di installazioni non in regola (647, un’enormità rispetto alle 90 della Germania o alle 16 della Gran Bretagna).
La misurazione però è incompleta. Riguarda solo 21 stati membri e copre solo 9.420 dei circa 11.000 impianti, il 99,1% del totale. Inoltre diversi paesi avrebbero concesso alle proprie aziende nazionali quote di emissioni in eccesso rispetto a quelle di cui avevano realmente bisogno.
Un’altra tegola sulle modalità di applicazione di Kyoto. E dal 17 al 25 maggio si riunisce il «gruppo ad hoc» dei 163 paesi che lo hanno ratificato e che dovranno discutere su come estenderlo dopo il 2012.

Monday, May 15, 2006

VERTICE UE-AMERICA LATINA: CHIUSO CON ‘DICHIARAZIONE DI VIENNA’

INTERNAZIONALE 13/5/2006 10.14
VERTICE UE-AMERICA LATINA: CHIUSO CON ‘DICHIARAZIONE DI VIENNA’
Economia e Politica Economia e Politica, Brief

I capi di Stato e di governo dell’Unione Europea e dell’America Latina e Caraibi hanno archiviato il 4° vertice ordinario nella capitale austriaca esprimendo la volontà di “continuare a promuovere l’associazione strategica bilaterale”: lo si legge nel testo della ‘Dichiarazione di Vienna’, sottoscritta dai 60 partecipanti, che raccoglie le posizioni comuni dei due blocchi soprattutto in tema di sicurezza e sviluppo delle relazioni commerciali. “Non esiste un modello unico di democrazia e questa non è esclusiva di un paese o di una regione” riporta il documento, aggiungendo: “Gli Stati hanno l’obbligo di proteggere i cittadini. Ma nella lotta contro il terrorismo non dobbiamo distruggere quello che difendiamo. I diritti umani, il diritto umanitario internazionale, le libertà fondamentali e lo Stato di diritto devono essere rispettati”. Ue e America Latina hanno quindi sottolineato “l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie” sostenendo “pienamente” la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) e auspicando peraltro “l’adesione universale al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari”. A livello commerciale, a nome dell’America Centrale il presidente nicaraguense Enrique Bolaños ha confermato l’apertura di negoziati per un accordo di libero scambio con i Venticinque; iniziativa analoga per il terzo raggruppamento regionale latinoamericano, la Comunità andina delle nazioni (Can), che tuttavia è al momento in crisi per la decisione del Venezuela di abbandonarla in netta polemica con la decisione di Colombia e Perù di sottoscrivere accordi bilaterali con gli Stati Uniti. Con chiaro riferimento alla nazionalizzazione degli idrocarburi, annunciata il 1° maggio scorso dalla Bolivia, la ‘Dichiarazione di Vienna’ riconosce “il diritto sovrano dei paesi a gestire e regolare le proprie risorse naturali” manifestando al contempo la volontà di consolidare la “cooperazione per stabilire un regime commerciale più equilibrato e normative maggiormente compatibili”. Il documento sostiene infine la “necessità di ampliare i benefici della migrazione tanto per le due regioni quanto per i propri migranti” di cui “devono essere tutelati i diritti fondamentali”.
[FB]

Nakamats

Giappone - Nakamatsu: «Vivrò fino a 144 anni»

Stefano Baldolini
QuadrantEuropa 15/05/2006

Ha inventato oltre 3000 brevetti. E' l'inventore di floppy disk, Cd e orologio digitale. A 77 anni non ha alcuna fretta di invecchiare e ritiene di essere giunto a metà della propria esistenza. Un ritratto dello scienziato giapponese Yoshiro Nakamatsu

Uno come Yoshiro Nakamatsu farebbe la fortuna di Robert K. Graham, il presidente della banca del seme dei Nobel, raccontato da David Plotz in “La fabbrica dei geni” (Lindau, 2006). L’inventore miliardario degli occhiali di plastica infrangibile, che un giorno decide di contrastare il declino del Paese offrendo alle donne americane sperma di genio per l’inseminazione artificiale. In qualche modo è lo stesso NakaMats a confermarlo.

«Mia madre e mio nonno avevano menti creative», dichiara alla Cnn, «perciò il mio Dna non è che il frutto dei miei genitori». Ma come ogni scienziato che si rispetti non lega le sue doti al mero lavorìo della genetica. Anzi, volontà di ferro e fattori ambientali sono stati parimenti decisivi. A partire dalla sua infanzia. Quando, a nemmeno tre anni, la madre, che aveva frequentato l’Università femminile di Tokyo, comincia a insegnargli la fisica, la matematica e la chimica. Negli stessi anni, decisivo, pare, fu il suo interesse per l’aeromodellismo, i giochi con i cugini. Naturale dunque che alla tenera età di cinque anni, uno così si metta a inventare un controllo automatico di gravità per un modellino di aereo. Seguono gli studi a Tokyo, «nell’università più dura del Giappone».

Il prodotto di tale fortunata combinazione è l’uomo-inventore per eccellenza, il Leonardo da Vinci che (forse) il genio italiano avrebbe voluto inventare. Peccato che lo stesso Leonardo non figuri tra i cinque più grandi scienziati della storia selezionati dalla U.S. Science Academic Society: Archimede, Faraday, Marie Curie, Nikola Tiesla, e naturalmente Nakamatsu. A cui dobbiamo il floppy disk, il CD, l’orologio digitale. Ma anche una improbabile macchina per sviluppare l’intelligenza umana tramite un cassone dotato di un meccanismo che raffredda il cervello e scalda i piedi, il Love-Jet, uno spray destinato a triplicare la stimolazione sessuale grazie a un ingrediente misterioso, o l’Enerex, un motore in grado di estrarre dall’acqua il triplo dell’energia comunemente liberata dalla benzina nei motori a scoppio.

Insomma, nel bene e nel male, una macchina da brevetti di 77 anni, capace di depositarne oltre 3.000, il triplo di quanto fosse riuscito a fare un certo Thomas Edison, fermo ad “appena” 1.093. E in quanto a capacità di applicare i principi della produzione di massa alla scienza, colui che portò l’energia elettrica nelle case era un altro che non scherzava. Limitandosi spesso, nel mitico laboratorio di ricerca Menlo Park (New Jersey), a soprintendere alle operazioni dei suoi impiegati, ma dimostrando al contempo un’abilità unica nel brevettare, e nel battere i suoi concorrenti. Ma i punti in comune tra i due non sono finiti. Entrambi dormono appena quattro ore a notte, per esempio. Secondo Nakamatsu, che ritiene che più di sei ore di sonno siano dannose alla salute, chi segue i suoi consigli può raggiungere i 144 anni di età. «Così, sono soltanto a metà della mia vita – dice al Japan Times nel 2002 – Posso quasi raddoppiare il numero delle mie invenzioni. Finora sono 3218, quindi alla fine della mia vita potrebbero essere 6000».

Così chiave per un’innovazione di successo è la «libertà dell’intelligenza», ossia la possibilità di lavorare senza legami. Per realizzare questo, Nakamatsu sostiene di non avere mai cercato finanziamenti, e di aver sviluppato e prodotto da sé le proprie invenzioni. Se per Edison le idee erano “un per cento ispirazione e 99 per cento traspirazione”, per NakaMats è l’esatto contrario, e alla “traspirazione”, segue una fase (pari al 99 per cento) per cui ha inventato persino un nome nuovo, l’“ikispiration”.

Dunque, tre gli elementi del suo processo creativo: suji, la teoria della conoscenza; pika, l’ispirazione; e iki: il lato pratico di una cosa, la fattibilità, il successo sul mercato. E i tre stadi hanno luogo in tre differenti spazi del suo ufficio di 110 impiegati di Akasaka, uno dei più costosi quartieri commerciali di Tokyo, ovviamente a comoda distanza dall’ufficio brevetti giapponese. Quando si sviluppa un’idea «la prima regola è che devi stare calmo». Dunque ecco la “static” room. Un luogo di pace e tranquillità, arredato come un giardino giapponese: di rocce, acqua, piante; e muri bianchi. La vista sullo skyline di Tokyo. Né metallo, né cemento. Un luogo dove associare liberamente idee, fare collegamenti, brainstorming. Prima della meditazione vera e propria.

Questo è il secondo passaggio, per cui esiste un'altra stanza, la “dynamic” room completamente opposta alla prima: scura, arredamenti in pelle, e un imponente impianto hi-fi. Per concentrarsi su un’idea, anche la musica segue un percorso preordinato. Prima il jazz, poi musica “easy listening” e infine la Quinta di Beethoven. Infine, la “piscina creativa”. Letteralmente. Dove ristorare la mente, e mentre si nuota sotto il pelo dell’acqua, farsi raggiungere dall’ispirazione. E se c’è il problema di non farsela sfuggire, di gettarla su carta, nessun problema, basta scrivere l’idea su un blocco di Plexiglas. Naturalmente, inventato da NakaMats.

Saturday, May 13, 2006

IL PRIMO ESPERIMENTO DI “WIRELESS REVOLUTION”, IN FLORIDA, NON DÀ I RISULTATI SPERATI

STATI UNITI  IL PRIMO ESPERIMENTO DI “WIRELESS REVOLUTION”, IN FLORIDA, NON DÀ I RISULTATI SPERATI
Internet gratis e ovunque. Un fiasco, il test nella città ideale

di STEFANO BALDOLINI
su Europa Quotidiano di sabato 14 maggio 2006


A sei anni dalla battaglia per le presidenziali che portarono George W. Bush alla Casa Bianca, dal pasticcio delle “macchinette punzonatrici” del 7 novembre del 2000, la Florida ritorna ad essere crocevia decisivo tra politica e tecnologia. Per gli Stati Uniti, ma non solo.
Stiamo parlando della cosiddetta Wireless Revolution, del sogno di mettere in rete, senza fili e gratuitamente, intere comunità con l’obiettivo di gestire online servizi essenziali come acqua, elettricità, sicurezza… ma anche condividere informazioni, cultura ed esperienze, e creare quelle “ideopolis”, quelle “città delle idee” che in futuro dovrebbero essere il motore dello sviluppo basato sulla conoscenza.
Il cuore di regioni dinamiche (in Europa si pensi a Helsinki, Monaco di Baviera, Cambridge) dotate di reti infrastrutturali inedite.
Ma ogni rivoluzione com’è noto deve fare i conti con la realtà. E la realtà questa volta porta il nome di St.Cloud, 28 mila abitanti, sulla carta la prima città degli Stati Uniti che doveva essere completamente coperta grazie ad una rete Wi-Fi (letteralmente Wireless Fidelity) di 15 miglia di superficie completamente gratuita.
Un modello per le trecento città in prima linea nella sperimentazione.
Tra cui Filadelfia, che lo scorso ottobre annunciava di voler creare il più grande sistema Wi-Fi della nazione, o San Francisco, il cui sindaco è arrivato a dichiarare il wireless diritto fondamentale del cittadino, e che sta pianificando investimenti per 15 milioni di dollari.
Il problema è che, invece, a dispetto degli oltre due milioni di dollari messi in cantiere, le cose a St.Cloud non stanno andando affatto bene. Difficoltà tecniche, cadute di segnale, veri e propri buchi neri nella ricezione, hanno reso offline molti cittadini e gettato non poche ombre sulla realizzabilità dell’intera Wireless Revolution. E il fatto che ad essere in crisi sia un progetto che offre l’accesso libero a internet, non è un particolare irrilevante.
Naturalmente infatti, come in ogni guerra commerciale che si rispetti, ognuno gioca la sua parte. Così giganti come Verizon, EartLink o Google sono in prima fila per accreditarsi come protagonisti. Così l’in- fluente rivista online Slate (di proprietà della Microsoft) cavalca il fallimento di St. Cloud, mentre il sindaco prova a ridimensionare la cosa.
O Glenn Fleishman, autorità indiscussa in materia, dal suo sito (Wi- FiNetworkingNews) pur scoraggiato, invita a continuare e a non sottovalutare i problemi incontrati nella cittadina.
Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere cosa c’entri tutto questo con George W. Bush e la politica.
Ebbene, il punto è che sulle wireless city il dibattito non è solo hi-tech. Secondo molti osservatori la trasformazione delle città da industriali o postindustriali a vere e proprie “ideopolis”, potrebbe determinare quel mutamento di geografia politica e sociale necessario per dare la spallata più volte annunciata al cosiddetto trentennio repubblicano.
Già nel 2002 John B. Judis and Ruy Teixeira (The emerging Democratic Majority, Simon & Schuster) inserirono la trasformazione in senso terziario e postindustriale dell’economia, e le sue conseguenze geogra fico-urbanistiche e sociali, tra i fenomeni determinanti per arrivare a un nuovo riallineamento in favore dei Democratici. Il caso del Wireless Philadelphia Executive Committe e del progetto Internet equality destinato agli studenti e ai ceti meno abbienti, è emblematico. Il problema è che per arrivare a Filadelfia, dove nel 1787 nacque la costituzione, oggi si deve passare per St. Cloud.

Friday, May 12, 2006

Wal-Mart Eyes Organic Foods

Wal-Mart Eyes Organic Foods
By MELANIE WARNER
Nytimes, 12 maggio 06

Starting this summer, there will be a lot more organic food on supermarket shelves, and it should cost a lot less.

Most of the nation's major food producers are hard at work developing organic versions of their best-selling products, like Kellogg's Rice Krispies and Kraft's macaroni and cheese.

Why the sudden activity? In large part because Wal-Mart wants to sell more organic food — and because of its size and power, Wal-Mart usually gets what it wants.

As the nation's largest grocery retailer, Wal-Mart has decided that offering more organic food will help modernize its image and broaden its appeal to urban and other upscale consumers. It has asked its large suppliers to help.

Wal-Mart's interest is expected to change organic food production in substantial ways.

Some organic food advocates applaud the development, saying Wal-Mart's efforts will help expand the amount of land that is farmed organically and the quantities of organic food available to the public.

But others say the initiative will ultimately hurt organic farmers, will lower standards for the production of organic food and will undercut the environmental benefits of organic farming. And some nutritionists question the health benefits of the new organic products. "It's better for the planet, but not from a nutritional standpoint," said Marion Nestle, a professor of nutrition, food studies and public health at New York University. "It's a ploy to be able to charge more for junk food."

Shoppers who have been buying organic food in steadily greater quantities consider it healthier and better for the environment. Organic food — whether produce, meat or grain — must be grown without pesticides, chemical fertilizers and antibiotics. Then, before it is sold, the food cannot be treated with artificial preservatives, flavors or colors, among other things.

When Wal-Mart sells organic food on a much broader scale, it will have to meet the same Agriculture Department requirements. But nutritionists say the health benefits of many of these new offerings are negligible.

Wal-Mart says it wants to democratize organic food, making products affordable for those who are reluctant to pay premiums of 20 percent to 30 percent. At a recent conference, its chief marketing officer, John Fleming, said the company intended to sell organic products for just 10 percent more than their conventional equivalents.

Food industry analysts say that with its 2,000 supercenters and lower prices, Wal-Mart could soon be the nation's largest seller of organic products, surpassing Whole Foods. Already, it is the biggest seller of organic milk.

While organic food is still just 2.4 percent of the overall food industry, it has been growing at least 15 percent a year for the last 10 years. Currently valued at $14 billion, the organic food business is expected to increase to $23 billion over the next three years, though that figure could rise further with Wal-Mart's push.

Harvey Hartman, president of the Hartman Group, a consulting firm in Seattle that is working with Wal-Mart on its organic food initiatives, asserted: "What Wal-Mart has done is legitimized the market. All these companies who thought organics was a niche product now realize that it has an opportunity to become a big business."

Kellogg and Kraft say they began working on organic Rice Krispies and organic macaroni and cheese before having conversations with Wal-Mart. But David Mackay, chief operating officer at Kellogg, says it was helpful knowing that a big customer like Wal-Mart was enthusiastic about the product.

In July, Kellogg is planning to introduce organic Raisin Bran and organic Frosted Mini Wheats, with packages featuring the word 'organic' at the top in giant letters.

Other food companies say they are working on products at Wal-Mart's direction. General Mills and Pepsi say they plan to introduce new organic versions of some of their well-known brands late in 2006. These products are expected to appear in Wal-Mart first and then at other major retailers.

Officials at General Mills, the producer of Cheerios, Yoplait yogurt and Green Giant vegetables, among other things, and at PepsiCo, which owns the Tropicana and Quaker brands, declined to identify those products.

DeDe Priest, senior vice president for dry groceries at Wal-Mart, said the company had been urging food suppliers for the last year to embrace organic foods. At a recent conference in Rogers, Ark., near the company's headquarters in Bentonville, she said, "Once we let the companies know we were serious about this and that they needed to take it seriously, they moved pretty fast."

Bruce Peterson, head of perishable food at Wal-Mart, said that it aimed to change the way people think about the retailer.

"Consumers that gravitate to organic products don't always think of Wal-Mart as a top-of-mind destination to pick up those products," Mr. Peterson said. "We want to let customers know, 'Hey, we're in that business.' "

The strategy of working with food makers to tie in organic products with well-known brands represents a departure from the approach many of Wal-Mart's competitors are taking. Safeway, Kroger and SuperValu, which is set to acquire Albertsons, have private label organic lines with names like Nature's Best and O that they sell at prices below those of brand organic products.

Mr. Peterson said he thought that Wal-Mart's method would be more effective in appealing to customers because it relies on powerful brand names that have million of dollars in advertising backing them up.

But Wal-Mart's new push worries Ronnie Cummins, national director of the Organic Consumers Association, an advocacy group that lobbies for strict standards and the preservation of small organic farms. He said Wal-Mart did not care about the principles behind organic agriculture and would ultimately drive down prices and squeeze organic farmers.

"This model of one size fits all and lowest prices possible doesn't work in organic," Mr. Cummins said. "Their business model is going to wreck organic the way it's wrecking retail stores, driving out all competitors."

Part of the problem, Mr. Cummins said, is that Wal-Mart is making a push into organics at a time there is already heavy demand and not enough supply.

"They're going to end up outsourcing from overseas and places like China," he said, " where you've got very dubious organic standards and labor conditions that are contrary to what any organic consumer would consider equitable."

Currently, some 10 percent of the organic food consumed in the United States is imported, according to the Agriculture Department. Kelly Strzelecki, an agricultural economist there, said she expected that share to increase.

Mr. Peterson, the Wal-Mart executive, says Wal-Mart is not now getting any of its organic products from overseas, but cannot predict if that will change. And he says Wal-Mart does not pay organic farmers less than others do, in part because the demand is so high. He said the lower prices offered to consumers were made possible by Wal-Mart's enormous volume and by having efficient distribution and inventory systems.

Some organic food advocates also fear that large-scale organic farming will not use the crop-rotation practices of the small farms, hurting the fields and reducing the health benefits of organic food.

Mr. Peterson's view of organic agriculture is markedly different from many of those involved in the field.

"Organic agriculture is just another method of agriculture — not better, not worse," he said. "This is like any other merchandising scheme we have, which is providing customers what they want. For those customers looking for an organic alternative in things like Rice Krispies, we now have an alternative for them."

Organic agriculture arose in the 1970's as a reaction to large-scale farms that confined animals and the increased use of pesticides and chemical fertilizers on crops. Many advocates of organic produce consider conventional agriculture to be harmful to the environment and to human health.

But Wal-Mart and some large food manufacturers are careful not to position their organic versions as superior to the original. "We have no intent to send a message that the standard Rice Krispies are somehow not great brands," Mr. Mackay of Kellogg said.

Organic Rice Krispies are made with cane juice instead of high-fructose corn syrup and without the artificial preservative BHT.

Mr. Hartman, the Seattle consultant, said organic now means different things to different people. "It's a multifaceted symbol representing everything from quality to health to ideology, and everything in between," he said. "It's something that lets people feel even better about their choices."

With processed products like organic Rice Krispies and organic macaroni and cheese soon to appear on store shelves, the organic movement seems to be fitting itself more into the wide variety of food available to Americans.

"People want you to offer them organic and natural," said David Driscoll, a food analyst at Citigroup. "But sometimes, they just want to eat a Pop-Tart."

diario dell'America LAtina

lo speciale di Diario della Repubblica sul populismo e Sudamerica

Axis of feeble

George Bush and Tony Blair

Axis of feeble

May 11th 2006
From The Economist print edition

A world-bestriding partnership is drawing to a close


THEY have been improbable soul-mates, the silver-tongued British barrister and the drawling Republican from Texas. But the partnership between Tony Blair and George Bush has shaped world events in the nearly five years since the attacks of September 11th. Over the past year, however, the debacle in Iraq and problems at home have turned both leaders from soaring hawks into the lamest of ducks.

This week Mr Bush's popularity drooped to 31% in the polls; his party faces a beating and the possible loss of one or both houses of Congress in November's mid-term elections (see article). In Britain meanwhile, much of the Labour Party, which Mr Blair reinvented and led through three consecutive election victories, wants to bundle its saviour into retirement and replace him with Gordon Brown (see article and article).


Neither man is going right away. Mr Blair may hang on for another year. Unpopular lame duck though he may be, Mr Bush will stay in office until January 2009. And the path may not be all downhill: the dysfunctionality of the Democrats may yet let the Republicans limp home in the mid-terms. But an era is plainly drawing to an end. No matter how long they remain in office, the self-confident and often self-righteous political partnership that shaped the West's militaryresponse to al-Qaeda and led the march into Afghanistan and Iraq is now faltering. What doesthis mean for the wider world?

Remember first that this is no pairing of equals. Britain's contribution to the war on terror has been smaller in substance than in symbolism. After September 11th Mr Bush did not need Mr Blair in order to mobilise the domestic support and military power he required for his invasions of Afghanistan and Iraq. But in Mr Blair the president found a supreme political salesman and a dependable ally with a respected voice inside both the UN Security Council and the European Union. Better still, Mr Blair was a true believer, exuding conviction. He attached himself to Mr Bush out of principle, not some British instinct to hold the coat-tails of the superpower. From the start, he believed in a forceful response to terrorism and the need to rid Iraq of Saddam Hussein. As a “progressive” politician from the centre-left, who had got on just as well with Bill Clinton, Mr Blair reached audiences in parts of the world, and of America, that Mr Bush could not reach.

Because Britain is so much the junior partner, neither Mr Blair's new weakness nor his possible ejection from Downing Street will have an immediate impact on America's behaviour in the world. Mr Brown has so far given few clues about his beliefs in foreign policy beyond the fact that he is a Eurosceptic well-disposed to America. Under him Britain will continue to value its transatlantic alliance, not least because the European Union has been at sixes and sevens since the voters' rejection of its new constitution and no longer exerts much of a tug in the opposite direction. The timetable for extracting Britain's small force from southern Iraq, Britain's commitment to peacekeeping in Afghanistan and its opposition to Iran's nuclear programme will almost certainly not change.

Even so, as Mr Blair loses authority at home—and even more when he eventually leaves office—Mr Bush is bound to feel the loss not just of a strong ally but also of a kindred spirit. Growing friendlessness at home will be compounded by increasing loneliness abroad. Lately the president has found a new European friend in Angela Merkel. Germany's chancellor is much closer to Mr Bush's way of thinking than was her predecessor, Gerhard Schröder. She is commendably outspoken, for example, on Iran's nuclear programme and its threats against Israel (though also somewhat feeble in her attitude towards Vladimir Putin's increasingly pushy Russia). But many of Mr Bush's other foreign allies, such as Spain's José María Aznar and Italy's Silvio Berlusconi, have lost their jobs. And none of these allies formed a bond as strong as the one with Mr Blair. When the time comes for Mr Bush to soldier on without his one foreign soul-mate and confidant, it may not be Britain's troops, intelligence advice or Security Council votes he will miss most but the psychological pattern of mutual encouragement: each man's reinforcement of the other's belief in the rightness of his gut convictions.

The long shadow of the 1930s

The fact that the prime minister and president hail from opposite ends of politics has made this pattern all the stronger. What they shared was the same instinctive responses to the attack on the twin towers and all that followed. Both have a strong Christian morality. Both see jihadist terrorism and nuclear proliferation as dangers akin to those posed by Hitler in the 1930s. Both consider it their calling to rise Churchill-like to the challenge. Mr Blair may not have gone so far as Mr Bush in defining his as a wartime administration. But part of the Blairite worldview is that desperate times require desperate measures. Even before September 11th, Mr Blair was citing Rwanda and Kosovo as justifications for a doctrine of liberal interventionism under which great powers had a duty to use force for virtuous ends even without the say-so of the United Nations. On September 12th the prime minister sent the president a five-page memo promising to help with the invasion of Afghanistan. This prime minister is as close as any British Labour leader can come to being an American neo-conservative.

With Mr Blair weakened and his own political capital trickling away, Mr Bush will find it harder to trust his own instincts, let alone rise Churchill-like to the challenges in the remaining two and a half years of his presidency. Critics of the improbable partnership—those who think Mr Bush and Mr Blair overreacted to September 11th, lied their way into Iraq, trampled over law and liberties and inflamed the very clash of religions that Osama bin Laden was so keen to ignite—will rejoice. In a world of one superpower, some say, people are safer when its president is too weak for foreign adventures.

They are wrong. That Mr Bush has made big mistakes in foreign policy is not in doubt. He oversold the pre-war intelligence on Iraq, bungled the aftermath, betrayed America's own principles in Guantánamo and Abu Ghraib, ignored Mr Blair's pleas to restart peace diplomacy in Palestine. But America cannot fix any of these mistakes by folding its tents and slinking home to a grumpy isolation. On the contrary. In his belief that America needed to respond resolutely to the dangers of terrorism, tyranny and proliferation, Mr Bush was mainly right. His chief failures stem from incompetent execution.

What is required when Mr Bush's term ends is a president no less committed to the exercise of American power when it is necessary, and no less willing to rise to external threats. Perhaps that will be a John McCain or a Hillary Clinton. But in the meantime, the world won't wait. However weak he is at home, Mr Bush still has duties abroad. He must ensure that America is not bundled out of Iraq before its elected government has a chance to stand on its own feet. He must hold the line against a nuclear Iran. He needs to push harder for an independent Palestine, continue the fight against al-Qaeda, resist Russia's bullying of its neighbours and help America come to terms with a rising China. If he is wise, he will work harder than before to enlist allies for these aims, even if America must sometimes still act alone. But it will be harder and lonelier without a confident Tony Blair at his side.

Thursday, May 11, 2006

DAL CILE, UN INSOLITO OMAGGIO PER GIORGIO NAPOLITANO

INTERNAZIONALE 11/5/2006 11.55
DAL CILE, UN INSOLITO OMAGGIO PER GIORGIO NAPOLITANO
Cultura Cultura, Brief

Una foto di Giorgio Napolitano, presidente-eletto della Repubblica italiana, figura da ieri, con una sua biografia, sull’homepage del sito-web della ‘Fondacion Pablo Neruda’ dedicato al poeta cileno Pablo Neruda (1904-1973) premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Negli anni ’50, mentre era in esilio in Italia dopo essere stato brevemente senatore in patria, Neruda era stato aiutato da Napolitano – lui stesso autore di poesie con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli – a trovare casa a Capri. Una piccola casa editrice napoletana “ L’arte tipografica” nel 1952 aveva anche pubblicato la raccolta di poesie “Los versos del capitán”. Il vero nome del poeta cileno era in realtà Ricardo Eliecer Neftalí Reyes Basalto; quello che sarebbe poi diventato comunque il suo cognome legale era stato adottato dallo scrittore boemo del XIX secolo Jan Nepomuk Neruda. “Il contributo intellettuale di Napolitano è stato ed è fondamentale nel rinnovamento della sinistra italiana e il suo pensiero ha avuto anche una influenza molto importante nella nostra stessa evoluzione" ha detto intanto il presidente della Camera cilena, Antonio Leal. I giornali di tutto il mondo, dalle Americhe al Giappone, continuano a riportare la notizia dell'elezione di Napolitano facendo quasi sempre ricorso alle definizioni di "ex-comunista", "riformista" e "socialdemocratico". Anche da molti esponenti dell'opposizione italiana si sono susseguiti finora apprezzamenti personali prevalentemente molto positivi per la persona del presidente-eletto.
[MB]

Misna

Sunday, May 07, 2006

Fuori dalla pietà solo false verità

FALSE VERITA'
Scritto da Stefano Baldolini
Fuori dalla pietà solo false verità

Regia: Atom Egoyan
Interpreti: Colin Firth, Kavin Bacon, Rachel Blanchard, Alison Lohman.
Origine: Canada / Gran Bretagna / Stati Uniti d'America 2005

La giornalista Karen O’ Connor decide di indagare sulla separazione della celebre coppia dello spettacolo americano “Lanny & Vince”. Nella loro camera d’albergo venne ritrovato il cadavere di una ragazza. Non ci sono prove contro di loro e i due riescono a cavarsela, ma il loro sodalizio è minato per sempre. Questa in soldoni è la trama di False Verità. Ma anche il punto di vista di un osservatore esterno alla vicenda. Dunque considerato che gli spettatori sono coinvolti sin dalla prima scena, i protagonisti pure, ad essere estraneo rimane il solito vecchio dalla barba bianca, che la vulgata usa chiamare Dio.Ebbene, noi una volta tanto al Dio (di Egoyan) siamo riconoscenti. Perché ci risparmia la potenziale morbosità che una storia del genere avrebbe potuto produrre in menti meno resistenti al peccato, un David Lynch per esempio (ma vedi anche il George Clooney de Le confessioni di una mente pericolosa). Invece siamo lieti che lo spettatore sia tenuto a debita distanza. E gliene siamo talmente che arriviamo a perdonare il regista armeno-canadese (e i suoi sceneggiatori) per scelta di decostruire la trama, scelta che sì allontana il pubblico dal fuoco della vicenda, ma lo fa nel modo peggiore. Ne sono prova le innumerevoli serate perse a ricostruire i fatti e cercare nessi insignificanti (che se poi un giorno qualcuno tornerà a raccontare le cose in maniera profonda ma lineare gliene saremo grati). Ma vedete? Ci siamo ricascati. La questione della sceneggiatura ci ha di nuovo allontanato dal senso ulteriore della storia. La distanza, dicevamo. Ebbene, questa è prodotta dalla narrazione in soggettiva da parte di tutti i protagonisti, che si sovrappongono e generano le possibili verità. Il punto è: tale narrazione generalmente considerata onesta (perché fa capire al lettore la presenza del reporter, o allo spettatore quella dell’io narrante) è anche garanzia di verità? Il fatto che ci sia qualcuno che fuori d’ogni evidenza si sbatte per noi/sia costretta a mentire/a drogarsi/a fare l’amore con una donna (pur conturbante ex Alice nel paese delle meraviglie)/a rischiare di impazzire, implica necessariamente che si riesca ad arrivare alla verità? In tempi mitici dell’inside story come gli anni ’70 (il periodo in cui la protagonista si muove) la risposta parrebbe automatica, e ogni sforzo ricompensato. Invece niente da fare, per Egoyan, più ci si muove, meno si tira fuori. E le storie sono solo un pretesto per generare parziali menzogne. O viceversa.Così c’è la storia raccontata dalla giornalista, che parte da un’ossessione. Negli anni ’50, il suo idolo, Lanny (Kevin Bacon) all’indomani della notte nera in camera d’albergo, in piena maratona Telethon, prima sospira ad una ragazzina che ha appena terminato l’esibizione un “sei bravissima”, poi le dice piangendo “perdonami”. La ragazzina naturalmente è la giornalista da piccola, che ha sconfitto la poliomelite: non ha fatto in tempo a conoscere la grazia, che gli si para davanti terribile la responsabilità.Fatale che per liberarsene, da grande, cerchi di capire il senso di quel “perdonami”. Altrettanto fatale che per farlo debba scavare nella vita dei due attori, nella loro omosessualità non dichiarata, nel loro amore mai esplicitato, nelle loro menzogne fonti di verità.Fatale che la ragazza uccisa, non sia la brava studentessa in carriera, ma un’arrivista un po’ zoccola pronta a ricattare i due. Fatale (ed aderente al genere del thriller psicologico) che a ricattare i due, e ad uccidere la studentessa sia il maggiordomo (sempre il maggiordomo). E che infine l’unica verità possibile, una volta scoperta e dissipato il gioco delle false verità, sia data dalla parola non detta alla madre della studentessa uccisa. Nel giardino dell’Eden in cui è seppellito il corpo della ragazza. Sotto il solito albero del peccato. Dove, in altre parole (parole che il Dio di Egoyan siamo sicuri apprezzerà) si ripropone un antico e decisivo interrogativo: se, senza la pietà, sia data alcuna verità.
[maggio 2006]
schermaglie

Saturday, May 06, 2006

Web/Vota con il blog

Nel marketing stelle e strisce, è l'ora dei video online. Anche in politica. Secondo la società di consulenza finanziaria Merrill Lynch, nel 2006 gli investimenti pubblicitari negli Usa cresceranno del 5,3%. In gran parte grazie alle campagne online. Di recente Yahoo, Coca Cola e Msnbc (news) hanno lanciato importanti iniziative. Ma l'exploit sarà legato alle elezioni di medio termine in novembre, dove si prevede un uso del web mai visto prima. "Investimenti tra i 20 e i 50 milioni di dollari", scrive il Washington Post. Contro i 10 milioni delle ultime presidenziali, che segnarono comunque una mezza rivoluzione. Podcasting e blog saranno decisivi per sedurre in primis i giovani. Nel mirino, le presidenziali del 2008.
Stefano Baldolini
D - La Repubblica delle Donne, sabato 6 maggio 2006

Tuesday, May 02, 2006

Su Ibs

fino al 22 maggio Sconto 15%
http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?isbn=8875271100

Bush incontra le big three

Bush incontra le big three
STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, sabato 29 aprile 2006
«Lasciate a casa l’auto», così George W. Bush lo scorso settembre, nel post-Katrina, il ciclone che oltre a devastare New Orleans bloccava da giorni la produzione di carburante nelle riserve strategiche di Texas e Luoisiana.
Sarà difficile che il prossimo 18 maggio, la data fissata per il primo incontro congiunto (l’ultimo fu nell’era Clinton nel maggio del ‘93), il presidente arrivi a ripetere alle Big Three - General Motors, Ford e Chrysler - l’appello lanciato ai suoi concittadini.
Ma di certo, quello che si svolgerà a Washington si annuncia come un momento decisivo per tutti i protagonisti. Per i dirigenti delle tre case di produzione di auto alle prese con la crisi che attanaglia il settore. Per il presidente che si troverà in un colpo solo ad affrontare i key-issues del suo secondo mandato: energia e welfare. Le priorità sollevate nel recente discorso sullo stato dell’Unione, lo scorso 31 gennaio.
Dunque tre i temi che saranno in agenda, secondo le indiscrezioni anticipate dal New York Times: la questione dei carburanti ecologici alternativi, gli oneri pensionistici e sanitari a carico delle società, e l’incidenza dei cambi valutari sulle vendite di compagnie concorrenti, come la giapponese Toyota.
Non c’è dubbio che con la benzina ad oltre tre dollari il gallone, e le elezioni di mid term alle porte, la questione abbia trasceso l’economia per diventare politica. Così martedì scorso ecco George W. Bush annunciare alla platea della Renewable Fuels Coalition i quattro punti del suo piano energetico. Aumentare la disponibilità di carburante presente sul mercato; verificare eventuali manipolazioni dei prezzi della benzina; promuovere una maggiore efficienza nel consumo dei carburanti; ed incoraggiare l’utilizzazione di energia alternativa.
In questo senso, la formula magica è “etanolo”. Secondo il presidente, «la via migliore e più rapida» per uscire dalla dipendenza del petrolio. E ad etanolo, saranno prodotti entro il 2008, 500 mila nuovi veicoli della Daimler Chrysler. Ford e General Motors hanno venduto milioni di vetture ibride che impiegano carburante con etanolo all’85 per cento (l’E85).
Ma se sembrano convergere politica e produzione, rimane in piedi il vero ostacolo alla diffusione del biocarburante: l’accessibilità. Sono ancora troppo pochi i distributori nel paese. Meno dell’un per cento delle stazioni di servizio, secondo le stime della National Ethanol Vehicle Coalition, e quasi tutte concentrate nel Midwest, la regione quasi interamente e naturalmente preposta alla produzione di mais, che è la materia prima per la produzione di etanolo.
Come detto, la riconversione della produzione, troppo concentrata su veicoli di grossa cilindrata (i cosiddetti Suv), si salda all’altro grande tema, quello del welfare.
Da anni, Big Three e United Auto Workers, il sindacato dei lavoratori del settore automobilistico, stanno negoziando duramente per rivedere il sistema di prestazioni prima accantonate poi erogate dal datore di lavoro. La spesa per pensioni e sanità comporta costi per centinaia di dollari per ogni vettura prodotta a Detroit, che le compagnie non sono più disposte a sostenere. D’altra parte, si corre il rischio della chiusura di numerosi piani pensionistici con evidenti ripercussioni per i lavoratori.
Quello della riforma della Social Security, introdotta da Roosevelt nel 1935 e che coinvolge 46 milioni di americani, è uno scoglio su cui l’amministrazione Bush s’è infranto già nella primavera del 2005. Ma il problema rimane. Nel 2006 toccheranno i sessant’anni i primi baby boomers, i 78 milioni di americani che furono protagonisti della crescita economica, e che potrebbero contribuire all’esplosione della spesa pensionistica e sanitaria nel 2018.
A tutto questo si somma la concorrenza asiatica, la sempre maggiore competitività delle compagnie favorite da cambi favorevoli, come nel caso dello yen per la Toyota.
General Motors e Ford hanno minacciato tagli per 60 mila posti di lavoro e la chiusura di oltre due dozzine di impianti entro il 2012. Incalzato a proposito di possibili sostegni governativi alle compagnie, così come avvenne nel 1979 quando il Congresso salvò la Chrysler dalla bancarotta, Bush per ora ha respinto ogni ipotesi al riguardo e invitato le grandi case americane a produrre «auto competitive».