Monday, May 22, 2006

5 anni per l'esercito Iracheno

IRAQ  UN MEMORANDUM CHE FOTOGRAFA MOLTO REALISTICAMENTE LA SITUAZIONE MILITARE ATTUALE E PROSSIMA
Il quadro non è nero ma l’occupazione durerà altri cinque anni
di STEFANO BALDOLINI
su Europa quotidiano di sabato 20 maggio 2006
Ci vorranno cinque anni prima che il nuovo esercito iracheno possa essere autosufficiente e fare a meno delle truppe americane, per le quali invece i prossimi 24 mesi saranno decisivi. Ancora molto da fare per riorganizzare le forze di polizia.
Questi i punti principali di un recente rapporto stilato Barry McCaffrey, veterano del Vietnam, comandante nella Guerra del Golfo e “zar antidroga” dell’amministrazione Clinton.
Il documento, un memorandum di sette pagine destinato all’Accademia militare di West Point, segue un tour di sette giorni in Iraq e Kuwait a metà dello scorso aprile, ed è frutto delle osservazioni sul campo e degli incontri con i vertici militari, compreso George Casey, il capo dell’intera coalizione.
Esercito e polizia irachena, i nodi da sciogliere per completare la missione di Gorge W. Bush: portare la democrazia nel paese e riportare a casa le truppe, 132 mila unità allo stato attuale.
L’Iraq Army, per la cui formazione gli Stati Uniti hanno speso 8,7 miliardi di dollari, è «reale, in crescita e disposto a combattere», ma «carente di equipaggiamento di base». Ad un «livello di formazione dei battaglioni in molti casi eccellente» corrispondono uomini «equipaggiati molto male», dotati di «pochi veicoli ed armi leggere», la maggior parte appena «con giubbotto antiproiettile e una o due uniformi.» Scarsità di armi pesanti, mortai, artiglieria, trasporto aereo, elicottero e supporto alle operazioni. «Molto positive e genuine», invece le relazioni tra i soldati iracheni e gli addestratori americani.
Dall’analisi della composizione dei militari – 250 mila - emerge che i sunniti – la minoranza che dominò sotto Saddam Hussein e che oggi è anche minoranza politica – «si stanno unendo alle truppe in grande numero».
Se il giudizio sul giovane esercito iracheno è tutto sommato positivo, non altrettanto si può dire dell’altra forza impegnata sul terreno, la polizia, che è oggetto di un duro atto d’accusa: «profondamente infiltrata dalle forze anti-irachene e dalla milizia sciita», considerata «completamente inaffidabile da parte della popolazione sunnita», ed «incapace di fronteggiare i gruppi armati locali». L’eredità del regime, di «inattività, passività, abusi dei diritti umani e profonda corruzione.» Dieci anni ci vorranno prima di un ricambio completo dei quadri. Ma tale sfida «non è allo stato attuale dotata di risorse adeguate.»
Dal punto di vista politico, il requisito centrale è «la creazione di un governo iracheno di unità nazionale» per il quale le forze di sicurezza locali «possano lottare e morire. » Decisivi saranno i primi 120 giorni dell’amministrazione dello sciita Jawad al-Maliki, premier incaricato il 22 aprile scorso di superare una lunga fase di stallo.
In alternativa, lo scenario paventato è la temuta guerra aperta tra fazioni sunnite e sciite, con a nord, i separatisti curdi pronti ad impegnarsi in un conflitto con la Turchia. «Se nel prossimo anno gli Stati Uniti perderanno la leadership, il paese potrebbe implodere», si legge nel rapporto.
E all’entrata in funzione di un effettivo governo iracheno, è legato anche il «serio dilemma strategico» che attualmente affligge le truppe americane: impegnate in «un’azione di polizia regolata dalla legge» o «un mero strumento a servizio di una campagna contro i ribelli in un paese senza istituzioni»?
Il documento presenta delle note positive. I combattenti stranieri condotti nel paese dal leader di Al Qaeda, Abu Musab Zarqawi, non costituiscono più «una minaccia operativa e strategica per la creazione di un governo.» Migliora la condizione dei prigionieri politici «dopo i problemi del primo anno di Guerra al Terrorismo.» Nessuna traccia dunque di altre Abu Ghraib, la prigione dei soprusi e delle torture scoperta da un’inchiesta di Seymour Hersh sul New Yorker nel maggio 2004.
Analizzando il contingente americano, il generale in pensione (e professore associato di Affari internazionali a West Point) sottolinea come il morale delle truppe resti alto, nonostante le ingenti perdite, le oltre ventimila vittime. «Il morale, la capacità di combattimento, la sicurezza» delle forze americane «continua ad essere impressionante», scrive McCaffrey che mette però in guardia rispetto ad un fenomeno in rapida espansione, ad «una crescente ostilità» nei confronti della stampa. In questo senso, «ciò che mi infastidisce sono le ombre del Vietnam», ha dichiarato. Allora «ci vollero venti anni per uscirne, per cessare di essere considerati nemici dai media.»
Per uscire dall’Iraq invece, i prossimi due anni «di seria crisi» saranno decisivi. Anche in considerazione del decrescente appoggio interno alla campagna, sarà «una corsa contro il tempo.» A sostegno, i progressi compiuti nell’ultimo anno. Gli americani «sono più sicuri oggi che nei primi diciotto mesi che seguirono l’intervento.»
Allora, si era nel luglio 2003, McCaffrey, sempre molto critico rispetto alla “guerra leggera” condotta da Rumsfeld, dichiarò alla Bbc che le truppe Usa sarebbero state costrette a rimanere in Iraq per il prossimo decennio.

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