Saturday, May 27, 2006

Il calciobusiness è una cosa seria. Non in Italia

Per le merchant bank Ubs e Goldman Sachs il pallone misura lo sviluppo di un paese
Il calciobusiness è una cosa seria. Non in Italia

di STEFANO BALDOLINI
Europa quotidiano, sabato 27 maggio 2006

Lo scorso aprile, a pochi giorni dall’esplosione della cosiddetta “Piedi Puliti”, una simulazione considerata attendibile dava l’Italia vincente nei prossimi mondiali di calcio in Germania. A fare tale previsione non sono stati i soliti bookmakers inglesi, ma gli analisti del Wealth management research dell’Unione delle banche svizzere, in un’edizione speciale dell’“Ubs investor’s guide”.
Il fatto che professionisti in genere dediti ad altre faccende, dichiarino di aver adottato «metodi scientifici paragonabili a quelli usati per fare previsioni economiche e finanziarie», conferma una volta di più quello che tutto il mondo sa e che solo il cosiddetto sistema Italia sembra non vedere, o far finta di non vedere. Ossia che il calcio, oltre ad essere un fenomeno sportivo e di costume, è anche (o soprattutto) business, e come tale pretende di essere trattato. Dunque bando ai tradizionali criteri di valutazione basati sui risultati sportivi, e largo a parametri più efficaci per descrivere ed analizzare il settore.
A partire dal linguaggio.
Goldman Sachs, in un altro rapporto diffuso recentemente dal titolo inequivocabile “The world cup and economics 2006”, analizza senza mezzi termini se e quanto i mercati delle economie emergenti (le cosiddette Bric’s economies) incideranno sul football e viceversa.
E vengono fuori cose sorprendenti.
Se non è una novità che dal rapporto tra pil pro capite e successo sportivo, emerge che i paesi più ricchi hanno generalmente le nazionali più competitive, relativamente inedita è invece la circostanza che il calcio possa assurgere a parametro di sviluppo di un’intera economia. Un po’ come nel secolo scorso quando l’America’s cup era la cartina di tornasole dello sviluppo tecnologico di un paese. In questo senso, se non sorprende che sei dei paesi del G7 siano tra i top 20 della Fifa, più rilevante il fatto che siano i big four europei (Germania, Francia, Italia, Inghilterra), quelli con la maggiore popolazione, a fare la parte del leone.
Ed è proprio il rapporto tra successo sportivo e popolazione a prefigurare inediti scenari. Per la banca d’affari americana «i Mondiali del 2050 potrebbero avere un sapore differente da quelli del 2006». Con la Turchia a insidiare alla Germania il primato nel continente, e la Russia e l’Italia, considerato l’attuale basso tasso di natalità, in declino nel ranking mondiale. Aspettando Cina e India, la tesi s’attaglia già all’America Latina, con i giganti Brasile e Argentina protagonisti.
Dunque, assodato che i numeri della macroeconomia incidono quanto un colpo di tacco di Ronaldinho – anche alla luce di ricerche come quella del Centre for Economics and Business Research che prevedono ben 1,25 miliardi di sterline iniettati nell’economia del Regno Unito durante i mondiali tedeschi – resta da capire la ricaduta degli scandali recenti sul comportamento dei consumatori del nostro paese. Il rischio è che per fare pulizia ci si dimentichi che il calcio è business e si ritorni a considerarlo solo come un fenomeno di costume (anche se culturalmente influente).
Non a caso per ristrutturare parte importante dell’industria, si parla di uomini del secolo scorso come Giampiero Boniperti. Alla guida della Juventus quando, tra una corsa di Cuccureddu e una punizione di Platini, delle Bric’s economies, non se ne sospettava ancora l’esistenza.

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