Monday, June 26, 2006

Le tentazioni dell’iperpotenza solitaria e la ricerca di nuove relazioni transatlantiche

STATI UNITI  SEI ANNI DI RAPPORTI COMPLICATI TRA LE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO E ORA IL BISOGNO SENTITO DA ENTRAMBE LE PARTI DI COLLABORARE
Le tentazioni dell’iperpotenza solitaria e la ricerca di nuove relazioni transatlantiche
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, sabato 24 giugno 2006

Le parole. A giudicare dalle reazioni a caldo al vertice di Vienna, a dividere gli Stati Uniti dall’Europa, resterebbero solo le parole.
Prendiamo la questione del nucleare di Teheran, uno dei temi chiave trattati in questi giorni: «Sull’Iran c'è solo una differenza di linguaggio, ma la posizione è identica», fanno presente fonti europee. Ed è sempre a partire dal dossier Iran che, al Financial Times, il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso esprime soddisfazione per il «netto miglioramento delle relazioni tra la Ue e gli Usa».
Certo, permangono incomprensioni su altre faccende serie, come il rispetto dei diritti umani durante la guerra al terrorismo, voli Cia e carcere di Guantanamo, per intenderci.
Mentre resta aperto il problema della trasmissione dei dati sui passeggeri diretti negli Stati Uniti, o il problema dei visti, che Washington mantiene per dieci dei 25 paesi dell’Unione.
E in piedi lo stallo dei negoziati del Doha Round per la liberalizzazione di settori come agricoltura e il tessile. Ma per dirla con Le Monde, si tratta di questioni «di ordine tecnicoeconomiche piuttosto che politiche», e malgrado Guantanamo «le relazioni transatlantiche sono considerevolmente migliorate».
Insomma, siamo decisamente lontani dal fossato “semantico” (e politico) scavato drammaticamente dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld, che nel gennaio del 2003, a pochi giorni dalla conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza, non esitò a definire «vecchia Europa» l’asse Parigi-Berlino, riluttante ad intervenire in Iraq. O a bollare come «imperdonabile » la linea assunta alla Nato da Francia, Germania e Belgio, che boicottavano ogni programma per assistere la Turchia come eventuale base logistica per i raid aerei contro Saddam Hussein.
Sullo sfondo, l’annosa questione della Politica estera e di sicurezza comune europea (la cosiddetta Pesc): di lì a poco, nel giugno del 2003, viene consegnato al Consiglio europeo il documento Solana dove si legge che gli Stati Uniti «si sono ritrovati in una posizione dominante dal punto di vista militare: nessun paese, né gruppo di paesi, può disporre di capacità paragonabili alle loro.» O note decisamente più di colore, come, sempre nel 2003, la ripubblicazione in francese (sotto il titolo “Nos amis les Français”), di un vecchio manuale militare americano diffuso a Parigi nel 1945 e contenente la summa di tutti i preconcetti americani.
Questa era l’aria che tirava fi- no alla missione decisiva del febbraio del 2005, all’indomani della vittoria su John F. Kerry, con tappe a Bruxelles, Magonza e Bratislava, e incontri chiarificatori con Jacques Chirac e Gerhard Schröder. Quando Bush dichiarava a Le Figaro: «Capisco che ultimamente sia emersa una relazione che funziona male, dalla quale qualcuno ha dedotto che si fosse spalancato un grande fossato» e chiedeva lo stop «del dialogo tra sordi».
Missione che riuscì anche grazie al lavoro preparatorio della Condoleezza Rice che in un tour “monstre” di dieci giorni aveva convinto gli europei (vecchi e nuovi) che il secondo mandato sarebbe stato improntato a maggiore pragmatismo, e anche a ricucire lo strappo inferto alle relazioni transatlantiche dalla precedente politica estera neoconservatrice. Il neo segretario di stato visitò dieci paesi, incontrò sei capi di stato e di governo, due vicari temporanei e i massimi responsabili delle organizzazioni multinazionali basate in Europa, Nato e Ue. Ma al di là dei numeri, decisivo fu il riconoscimento formale del processo di unificazione europea, espresso in diverse occasioni e con accenti inediti per un responsabile di governo statunitense (si pensi all’episodio riportato dal giornalista britannico Timothy Garton Ash. «E allora, vogliamo che l’Unione Europea sia un successo?», avrebbe chiesto Bush a un gruppo di esperti anglo- americani riuniti alla Casa Bianca, nel maggio del 2001).
Di tutt’altro sapore, invece, le parole della Rice, che parlò di «plauso al tentativo europeo di forgiare una politica estera comune», di «favore dell’amministrazione Bush verso un’integrazione Ue più accentuata».
Erano quelli i giorni in cui Tony Blair, dal Forum economico di Davos, parlava di «agenda del consenso» tra gli Usa, Europa (e resto del mondo, Cina e India in primis) da sviluppare sotto la sua presidenza del G-8: clima, conflitto arabo-israeliano, nucleare iraniano, Iraq, dovevano costituirne i capitoli principali.
Gli stessi giorni in cui il premier britannico s’impegnava a stemperare il discorso inaugurale del “Bush 2”. Alle cancelliere europee non era infatti sfuggito il passaggio in cui si sottolineava «l’intenzione di mettere fine alla tirannia e di espandere la democrazia nel mondo».
Pura ideologia neocon? Nient’affatto, per Blair si trattava di un obiettivo «perfettamente progressista.» Lo provava a spiegare al Financial Times: «Gli americani sanno benissimo che non possono andare in giro per il mondo ad invadere ogni nazione che tu pensi debba essere democratica».
Lo sanno benissimo, ma forse lo esprimono con parole che gli europei non riescono ancora, pienamente, a comprendere.

Friday, June 23, 2006

La Cia controlla le transazioni bancarie

l governo americano irritato: svelati segreti vitali per la sicurezza
La Cia controlla le transazioni bancarie
Scoop del New York Times: un programma dell'agenzia Usa permette di monitorare dal 2001 migliaia di conti in tutto il mondo

NEW YORK (USA) - Dopo il controllo delle telefonate e di Internet, ora anche il tentativo di spiare le transazioni bancarie. In tutto il mondo. Un programma segreto avviato dopo l'11 settembre permette al governo americano di controllare migliaia di transazioni bancarie all'estero e negli Stati Uniti, secondo quanto rivela il New York Times.
PROGRAMMA GESTITO DALLA CIA - Il programma è gestito dalla Central intelligence agency (vale a dire la Cia) e supervisionato dal dipartimento del Tesoro. Secondo fonti dell'amministrazione, ha svolto un ruolo di primo piano nella caccia ai terroristi legati ad Al Qaeda, permettendo fra l'altro la cattura nel 2003 in Thailandia di Riduan Isamuddin, meglio noto come Hambali, legato ad Al Qaeda e considerato la mente dell'attentato del 2002 a Bali (202 morti). Il controllo dei flussi bancari avviene tramite i dati forniti dalla Swift, una cooperativa belga che fornisce servizi per la rete bancaria internazionale attraverso cui passano transazioni di vario tipo per un valore di 6 miliardi di miliardi di dollari al giorno. Il programma, riferiscono fonti del governo, è limitato, per ora, al controllo di persone sospettate di legami con il terrorismo internazionale e si basa sui poteri economici d'emergenza di cui dispone il presidente George Bush dopo l'11 settembre. Tuttavia non mancano i dubbi sui potenziali abusi.
LA RICHIESTA DI NON PARLARE - Diversi esponenti dell'amministrazione americana, interpellati sulla vicenda, hanno chiesto al New York Times di non renderla pubblica. Ma il direttore del quotidiano, Bill Keller, ha deciso diversamente: «Abbiamo ascoltato attentamente gli argomenti dell'amministrazione per non rendere nota l'informazione e abbiamo dato loro seria e rispettosa considerazione. Rimaniamo convinti che lo straordinario accesso dell'amminstrazione a questo vasto deposito di dati finanziari internazionali, per quanto ne possa essere fatto un uso attentamente mirato, è materia di pubblico interesse». Una volta chiarito che la vicenda sarebbe stata pubblicata,il sottosegretario al tesoro Stuart Levey ha accettato di parlarne pubblicamente. Il programma, ha affermato, «ci ha fornito un'unica e potente finestra sulle operazioni delle reti terroristiche il che è senza dubbio un uso proprio e legale da parte delle autoritá». La vice addetto stampa della Casa Bianca Dana Perino, ha poi dichiarato che, dopo l'11 settembre, «il governo ha intrapreso ogni misura legale per impedire un altro attacco al paese. Uno dei maggiori strumenti nella lotta contro il terrorismo è stata la nostra abilitá di bloccare i fondi dei terroristi». La Perino ha quindi aggiunto che ora i terroristi sono a conoscenza di un altro mezzo usato contro di loro, sottolineando come «il presidente sia preoccupato che ancora una volta il New York Times abbia scelto di rendere noto un programma segreto che lavora per la protezione dei cittadini».
23 giugno 2006

Usa: è nato il terrorista di quartiere

Si tratta di adepti senza esperienza che sognano di imitare Zarkawi
Usa: è nato il terrorista di quartiere
Gli arresti di Miami sono il segno di un nuovo tipo di estremismo germogliato nella realtà locale e spesso non legato ad Al Qaeda

La prudenza è d’obbligo. E bisognerà attendere i risultati delle indagini, ancora in corso, per comprendere se le persone arrestate dall’Fbi sono dei veri complottatori, in grado di attaccare la Sears Tower di Chicago. Ma sulla base dei primi dati è possibile trovare punti di contatto con una nuova realtà, difficile da decifrare e inquadrare, composta da persone che non hanno armi, vivono alla luce del sole ma sono pronti a trasformarsi in terroristi. Assomigliano spesso alle gang di quartiere. Più setta che gruppo, con legami basati su rapporti di amicizia, a volte nati in prigione, altre volte nella strada dove abitano.
Altro dato: si tratta di «cellule» completamente locali, composte da cittadini occidentali. Non sono mai andati su un fronte della Jihad (Iraq, cecenia, Afghanistan), spesso non conoscono neppure l’arabo, vengono indottrinati via Internet, non hanno rapporti con i vertici di Al Qaeda. A guidarli c’è un emiro improvvisato, magari uno che studiato più degli altri o che ha maggiore carisma. Esistono due categorie di questa nuova realtà. La prima è quella che racchiude gli autori della strage di Londra: giovani europei d’origine araba o asiatica che riscoprono le loro origini attraverso l’adesione al progetto qaedista. In questo caso può esistere un tenue filo che li lega a strutture più organizzate. La seconda categoria è quella dei «terroristi di quartiere», senza alcun passato o rapporto con il qaedismo. Questi potenziali terroristi stanno cercando di fare il salto di qualità, passando dal proselitismo di strada all’azione. E’ inquietante rilevare come negli ultimi tempi, prima in California e poi in Canada, siano state smantellate due organizzazione che preparavano gravi attentati. Gli adepti non avevano esperienza ma sognavano di imitare Al Zarkawi.
Guido Olimpio
23 giugno 2006

Thursday, June 22, 2006

Bombòn el perro, il fallimento di una nuova specie

Bombòn el perro, il fallimento di una nuova specie
Stefano Baldolini, schermaglie

REGIA: CARLOS SORIN

INTERPRETI: JUAN VILLEGAS, WALTER DONADO, ROSA VALSECCHI, SABINO MORALES

NAZIONALITÁ: ARGENTINA


Una pista d’autodromo. Un omino in tuta bianca corre trainando al guinzaglio un cane bianco. L’omino è un cinquantanenne gentile che ha perso il lavoro (in una pompa di benzina), vive malvoluto dalla figlia nevrotica, e gira nel suo furgone per un’Argentina pragmatica e isterica che cerca di risollevarsi dopo il default finanziario. L’omino per vivere prova a vendere coltelli che fabbrica a mano.

Il cane è di razza, figlio di un campione famoso, e si chiama Bombòn: il suo padrone morto prematuramente era francese e voleva aprire un allevamento in Patagonia. Sua moglie per ringraziarlo di una riparazione alla macchina della figlia, trainata per centinaia di km nel sud del continente, gli offre un the e gli regala il cane, che giace triste e malinconico in un recinto della tenuta.

Immediatamente la vita dei due cambia. Grazia al pedigree dell’animale, l’omino riesce a penetrare in ambienti prima preclusi, come l’ufficio di un direttore di banca o un esclusivo circolo di caccia. E in pochi passaggi arriva da un fantomatico addestratore di cani, un ciccione a suo modo simpatico che lo convince a tentare la strada delle esposizioni canine, “non hai idea di quanti soldi girino” e a cambiare vita. Ma è qui che accade qualcosa, quella che s’avviava ad una commedia sentimentale segnata dall’amicizia tra un uomo e un cane, subisce uno scarto decisivo.

Succede che con la vita cambia il film, che vira da tinte quasi alla Ken Loach ad un grottesco algido, privo del facile realismo magico, pericolo costantemente in agguato per chi in Sud America prova a dire qualcosa.

“Bombòn – el Perro” si trasforma in un film di fantascienza, verrebbe da dire.

Così eccoci tornati alla pista d’autodromo, ai due in tenuta bianca che dopo qualche strattone si muovono meccanici e perfettamente sincronizzati. Pronti per la nuova esistenza. Attrezzati. Perfettamente equipaggiati. Complementari. Così quello che a prima vista sembrerebbe un allenamento in vista di un’esposizione canina, si trasforma in un paradigma dell’attuale condizione umana (solo in Argentina?), che ha bisogno di un cane di razza per ritrovare un senso e fors’anche una dignità.

Comunque all’inizio la cosa funziona. La nuova specie “omino+cane” si muove bene nel nuovo territorio fatto di essere umani spenti completati da animali supercoccolati, i due vincono il terzo premio alla prima esposizione per la felicità dell’addestratore ciccione e ricevono offerte per diverse “monte” con cagnette di razza in calore. La nuova specie non potrebbe che migliorare, e nel presente dell’omino s’intravede persino un amore (una cantante di canzoni siriano-libanesi, di cui non conosce le parole, ma tanto non le conosce nessuno).

Ma… c’è un problema. Il problema è che Bombòn fallisce la missione fondamentale, non prova nessun interesse per le cagnette di razza in calore, manda all’aria i piani di ricchezza, e soprattutto il riscatto della nuova specie. E’ una questione di libido, sentenzia il veterinario. E la questione sembra non riguardare solo Bombòn, ma un intero paese, costretto ad abbandonare la gioia di vivere per rimettersi in carreggiata. Dopo la dissennata gestione dei Menem di turno, a perseguire obiettivi e procedure fissati da altri (si pensi agli organismi internazionali), e mosse da un’inevitabile darwinismo sociale. Chi ce la fa, bene. Gli altri si arrangino.

Privata della gioia di vivere la figlia dell’addestratore ciccione non riesce a declamare la poesia che la madre le ha insegnato e che le dovrebbe procurare qualche premio: la bambina (sovrappeso) diventa afona da prestazione. Dal canto suo, Bombòn sarà al massimo buono per portare il giornale al padrone.

Alla fatale sentenza del veterinario segue la separazione: i due tornano ognuno per la loro strada. Si ritroveranno in una fabbrica di laterizi. Il cane, che si è ribellato alla legge della genetica che vuole cani di razza montare cani di razza, è alle prese con una cagna (bastarda probabilmente) tutta nera. Sembra felice. Come il suo omino, che è tornato indietro a cercarlo, e che per un attimo abbandona l’espressione stralunata e subalterna alla Rain Man per acquistare uno scampolo di dignità. Sembra un uomo che sorride.

Wednesday, June 21, 2006

Nella guerra “nucleare” dei nervi, Teheran ora gioca una parte più soft

IL MINISTRO MOTTAKI ATTESO A ROMA
Nella guerra “nucleare” dei nervi, Teheran ora gioca una parte più soft
di STEFANO BALDOLINI
Europa, martedì 20 giugno 2006

Gioco delle parti o meno, e in attesa della visita romana del capo della diplomazia di Teheran, Manuchehr Mottaki, prevista in settimana, non c’è dubbio che il gioco di forza tra l’Iran e il resto del mondo sia arrivato alla resa dei conti.
Le aspettative della comunità internazionale sembrano confermate dai toni, decisamente più morbidi, assunti recentemente da Mahmoud Ahmadinejad. «Difendiamo i diritti dell’Iran in modo deciso, coerente ma anche razionale e meditato», ha dichiarato solo ieri il presidente iraniano incontrando l’ayatollah Ali Khamenei.
E di «atmosfera positiva che può aiutare le trattative», ha parlato domenica scorsa Manouchehr Mottaki.
Certo, permangono le incertezze. Mottaki stesso non ha precisato se l’Iran risponderà al “pacchetto” di incentivi presentato all’inizio di giugno dal cosiddetto 5+1, i cinque paesi membri con diritto di veto del Consiglio di sicurezza dell’Onu – Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna – più la Germania. Incentivi che scatterebbero però solo in cambio della rinuncia ad arricchire l'uranio, il processo che secondo gli Stati Uniti e i suoi alleati punterebbe alla produzione di armi atomiche, e non di energia elettrica come sostenuto da Teheran.
Su questo punto Washington non è disposta a fare concessioni e rilancia: l’Iran rischia un intervento del Consiglio di sicurezza dell’Onu e sanzioni più severe. «Se i leader iraniani vogliono pace e prosperità e un futuro migliore per il loro popolo, dovrebbero accettare la nostra offerta, abbandonare i piani di armi nucleari e rispettare i loro doveri internazionali», ha detto ieri George W. Bush durante una cerimonia presso l’Accademia della marina mercantile. «Armi nucleari in mano al regime iraniano sarebbero una grave minaccia per tutto il mondo », ha aggiunto il presidente, che alla vigilia della missione in Europa, ha chiesto «un’unità d’intenti» con Bruxelles. E della vicenda dovrebbe discutersi nell’incontro Usa-Ue, in programma domani a Vienna.
Nelle stesse ore l’ex capo degli ispettori Onu, Hans Blix, dichiarava all’Associated Press che l’Iran «sarà in grado di produrre una bomba nucleare entro il 2010» se gli sarà permesso di arricchire l’uranio a scala industriale. «Èun problema di volontà», ha precisato Blix.
I leader iraniani che oggi sembrano escludere la costruzione di ordigni atomici «potrebbero cambiare idea».
La presa di posizione di Bush arriva all’indomani delle indiscrezioni raccolte dal Financial Times , secondo il quale l’Iran «sarebbe pronto a limitare il programma nucleare», ma non a sospendere il processo d’arricchimento. Secondo le fonti ascoltate dal quotidiano finanziario, Teheran farebbe affidamento sull’appoggio di Cina e Russia, che si “sfilerebbero” all’ultimo momento e finirebbero per indebolire la proposta dei Grandi.
In questa ottica vanno lette le dichiarazioni del portavoce degli Esteri, Hamid Reza Asefi. «Non ignoreremo il nostro diritto all’arricchimento», ha ribadito solo domenica scorsa il suo portavoce.
«Se i paesi europei hanno una logica – ha aggiunto Ase- fi– potremo avere negoziati senza alcuna pre-condizione. Se gli Usa vogliono agire in modo saggio, rimuoveranno ogni pre-condizione ».
Insomma, la guerra dei nervi, che ormai dura da quattro anni, si arricchisce di un capitolo decisivo e quella che si preannuncia come una svolta, ossia la risposta ufficiale della repubblica islamica, dovrebbe arrivare tra la fine di giugno o i primi di luglio.
Nel frattempo i segnali di distensione sul programma nucleare fanno registrare ricadute positive sulla quotazione del greggio, che si allontana dalla soglia dei 70 dollari. «Con la questione iraniana in sospeso, non si può davvero prendere una posizione troppo negativa sul mercato», dice alla Reuters David Thurtell di Commonwealth Bank of Australia. «Credo che il greggio potrebbe scendere di 6 o 7 dollari se l’Iran abbandonasse le proprie ambizioni nucleari e credo che lo farà. Sta solo cercando di ottenere in cambio degli incentivi», ha aggiunto.
In questo contesto non sfugge l’importanza dell’accordo firmato dalla compagnia petrolifera cinese Sinopec con l’Iran per l’esplorazione di giacimenti di petrolio e gas ad alta profondità a Garmsar, nella provincia del Serman, nel nord del paese, dove cinquant’anni fa è nato il presidente Ahmadinejad. Nel 2005, la Cina ha importato dall’Iran circa 300 mila barili di greggio al giorno, evidentemente la “fame” di energia di Pechino mal si concilia con i tempi della diplomazia.

Wednesday, June 14, 2006

vaiolo web

Revealed: the lax laws that could allow assembly of deadly virus DNA

Urgent calls for regulation after Guardian buys part of smallpox genome through mail order

James Randerson, science correspondent
Wednesday June 14, 2006

Guardian

Liberal Activists Boo Clinton

Liberal Activists Boo Clinton
Rejection of Iraq Timetable Gets Cool Reception at Conference

By Dan Balz
Washington Post Staff Writer
Wednesday, June 14, 2006; A10

Sen. Hillary Rodham Clinton (D-N.Y.) drew boos and hisses from an audience of liberal activists yesterday as she defended her opposition to a timetable for withdrawing U.S. forces from Iraq, and later she received an implicit rebuke from Sen. John F. Kerry (D-Mass.) for failing to acknowledge that her support for the war was a mistake.

Clinton's and Kerry's appearances at the Take Back America conference at the Washington Hilton put on vivid display the Democratic Party's divisions over the foreign policy issue that dominates this year's midterm elections, and the two possible 2008 presidential candidates offered a preview of the debate that could dominate the battle for the party's nomination.

Clinton and Kerry supported the 2002 congressional resolution authorizing the Iraq war. Kerry recently renounced that vote, but Clinton has never done so. She finds herself in opposition to a majority of Democratic activists and is the target of passionate criticism from some of them.

Clinton won repeated applause through most of her speech, which dealt at length with domestic issues but also sharply criticized President Bush's handling of the war. But the audience turned against her when, in what she called a difficult conversation, she restated her long-standing position about timetables for withdrawing U.S forces.

"I have to just say it," she began. "I do not think it is a smart strategy either for the president to continue with his open-ended commitment, which I think does not put enough pressure on the new Iraqi government, nor do I think it is smart strategy to set a date certain. I do not agree that that is in the best interest of our troops or our country."

Clinton finished on a more positive note, with an exhortation about winning the November elections that brought audience members to their feet cheering. But within minutes, as she worked the rope line on her way out of the hotel ballroom, she was the target of protesters, who chanted "Bring the troops home" and "Stop the war."

Later, after Clinton's departure, Kerry delivered a fiery denunciation of the war that was continually interrupted with cheers and applause, and he repeated his call for "a hard and fast deadline" for withdrawing troops. At one point, Kerry, the Democrats' 2004 presidential nominee, appeared to be directing his comments at the woman who leads early national Democratic polls for 2008.

"Let me say it plainly," Kerry said. "It's not enough to argue with the logistics or to argue about the details or the manner of the conflict's execution or the failures of competence, as great as they are. It is essential to acknowledge that the war itself was a mistake, to say the simple words that contain more truth than pride. We were misled. We were given evidence that was not true. It was wrong, and I was wrong to vote for that Iraqi resolution."

Kerry struggled throughout the 2004 campaign to square his vote for the resolution and his later opposition to an $87 billion funding bill for the troops. As if to drive home the point that he thinks Clinton and others who share her views are in a similarly untenable position, he told the audience yesterday: "One of the great lessons of life is that you cannot change the future if you're not honest about the past. And we cannot have it both ways in the war in Iraq."

Spokesman David Wade said Kerry's remarks were not directed specifically at Clinton.

Even before Clinton arrived for her speech, it was clear that she faced a potentially hostile audience. Roger Hickey, co-director of the Campaign for America's Future, the conference's sponsor, admonished the audience to be friendly to the morning speakers. "We owe them our courteous attention," he said. As the audience waited for Clinton to arrive, some passed out anti-Clinton literature to reporters.

The Campaign for America's Future, a leading liberal group, has battled with centrist Democrats over the direction of the party.

Clinton and Kerry spoke just as the news was breaking about Bush's secret trip to Baghdad. Administration officials have seized on the formation of the new government in Iraq and the killing last week of Abu Musab al-Zarqawi, the leader of al-Qaeda in Iraq, to mount an offensive to turn around public perceptions about the war that threaten to damage Republicans in the November elections.

House Minority Leader Nancy Pelosi (D-Calif.), who called the war a "grotesque mistake," challenged the administration's claims of progress during her appearance at the conference.

"As we talk about a new direction for America, I think one place that it is very clear that we need a new direction is in the war in Iraq," she said.

Pelosi joined Kerry in calling for a timetable to pull out the troops, saying she supports a plan outlined earlier by Rep. John P. Murtha (D-Pa.).

One Clinton adviser dismissed questions about whether the senator had sought to draw dissents from the crowd as a way to burnish her credentials as a strong-on-national-security centrist. "She had enough respect for her audience not to pander or duck the issue," said strategist Howard Wolfson.

L'allergia italiana a Zapatero

11 giugno 2006
ROMA E MADRID
L'allergia italiana a Zapatero

SE c’è un nome che in Italia quasi non puoi pronunciare, senza sentirti come appesantito da ridicolo cappotto, è il nome di Luis Rodríguez Zapatero. È una sorta di allergia radicale, accanita, che in nessun paese europeo ha l'accaldata intensità italiana e su cui vale dunque la pena meditare. Zapaterista è diventato epiteto insultante, che macchia il destinatario indelebilmente. Zapaterismo è sinonimo di stile politico ignobile: più ignobile ancora d'una dottrina, un'ortodossia. Nel pantheon dei personaggi negativi, il premier spagnolo figura accanto a tipi poco raccomandabili che non gli somigliano punto: Che Guevara, Castro. Deriva zapaterista è stereotipo che potrebbe benissimo comparire nel Dizionario dei Luoghi Comuni di Flaubert: evoca gli impaurenti cosacchi a San Pietro, ha osservato con appropriata ironia Mario Pirani (Repubblica, 13-3-06). Più che un'allergia è una passione, quella che s'abbatte sul successore di Aznar. Per questo urge indagarne l'interna molla, l'irrazionalità, la genealogia: non solo per capire meglio la Spagna, ma per capire un po' meglio noi stessi e la nostra idea della democrazia minacciata.

Tre eventi hanno indisposto un gran numero di politici e intellettuali italiani, dando corpo allo stereotipo che ci impacchetta e ci incarta: la vittoria elettorale del leader spagnolo, successiva all'attentato dell'11 marzo 2004; la decisione - subito dopo - di ritirare le truppe dall'Iraq; la determinazione con cui Madrid resiste a clero e Vaticano in materia di diritti civili. Zapatero è divenuto simbolo del cedimento al terrorismo, del Tutti a Casa in politica estera, dell'anticlericalismo dogmatico. Ma c'è qualcosa di più che muove a sdegno, e che lo trasforma in fiamma. Zapatero irrompe nella discussione sul futuro della sinistra scompigliando discorsi e modelli cui pigramente ci siamo abituati. D'un tratto non è più Blair a rappresentare il socialismo nuovo, non ideologico. Tutti parlano di lui, anche Ségolène Royal a Parigi, ma nel frattempo c'è un altro riformismo possibile, che non consiste semplicemente nell'adottare, su questioni ritenute centrali dell'economia, politiche di destra. Zapatero indica quest'altra via - una via molto europeista d'altronde - cominciando col dire che la discriminante centrale non è l'economia ma la reinvenzione della politica e della democrazia. Un libro uscito nel 2006 da Feltrinelli spiega bene quest'alternativa: Zapatero - Il Socialismo dei Cittadini (curato da Marco Calamai e Aldo Garzia) è documento prezioso.

Il nuovo consiste nell'estendere i diritti e le libertà di individui o minoranze, accettando l'enorme varietà delle preferenze esistenziali in società rese insicure da disoccupazione, immigrazione, terrorismo. I soldi mancano per politiche sociali magnanime, agire sull'economia è divenuto tremendamente complicato a causa di vincoli e incompatibilità: meglio allora concentrarsi sulle riforme «a costo zero» - riforme civili più che economiche, dice Antonio Gutiérrez che oggi dirige la Commissione economica del Congresso dei deputati - che danno al cittadino la sensazione di essere ascoltato, rispettato anche quando la vita si fa per lui difficile. Zapatero ha fatto molto in questo campo: ha esteso i Pacs accettati da Aznar rendendo legali i matrimoni tra omosessuali, ha sveltito la legge sul divorzio, ha legalizzato 800 mila immigrati clandestini trasformandoli in cittadini con diritti e doveri fiscali, ha introdotto una legge sulla violenza contro le donne. A queste ha aperto uno spazio senza eguali in Occidente (il 50 per cento delle cariche governative). Ha anche fatto riforme che costano, come gli asili nidi e gli aiuti alle persone non autosufficienti per età o malattia (il cosiddetto quarto pilastro dello Stato sociale, essenziale in società che invecchiano, affiancato a educazione, salute, pensioni). Può darsi che le riforme siano state troppo frettolose: «Non si fa tempo a rispondere al contrattacco della destra e della Chiesa, che il governo già ha aperto un nuovo fronte riformatore», obietta Gutiérrez, che però sostiene Zapatero perché le sue sono pur sempre riforme volute da vaste maggioranze di spagnoli.

Precisamente questa novità indispettisce tanti politici e intellettuali italiani, anche a sinistra. Indispettisce lo spazio dato alla società civile e ai diritti, a scapito non solo della centralità dell'economia ma dei poteri partitici (Prodi stesso fu guardato con diffidenza da apparatchik e benpensanti di sinistra quando propose le primarie, fino al momento in cui le vinse alla grande). Indispettisce quella che per Zapatero è etica politica irrinunciabile: «Mantenere la parola data, fare quel che si dice e dire quel che si farà». Indispettisce, più ancora forse del ritiro dall'Iraq e della strategia latino-americana, l'autonomia dalla Chiesa. Resistere al Papa e alle Conferenze episcopali è inconcepibile, oggi in Italia. Tutti in Italia hanno bisogno di ottenere l'imprimatur da una forza esterna, tutti si sentono in qualche modo minorenni e illegittimi - non solo i Ds - e la Chiesa diventa tutore che non si osa contestare. Ogni riformista deve fare da noi concessioni sulla laicità: Zapatero problemi simili non ne ha. È alle correnti conciliari che egli s'appoggia, a teologi come Enrique Miret Magdalena che nel laico argomentare somiglia al nostro Enzo Bianchi. Solo che Miret Magdalena non è ingiuriato quando ricorda che lo Stato e l'Europa sono aconfessionali, e che fin dalla teologia cinquecentesca di Domingo De Soto o padre Molina «la legge civile è fatta per garantire la convivenza tra i cittadini, non per garantire la morale cattolica». In Spagna è pietra di scandalo che il Papa parli di silenzio di Dio a Auschwitz, e appena nove giorni dopo lasci che lo stesso concetto («eclissi di Dio») sia applicato dal Vaticano a unioni di fatto o matrimoni omosessuali. Non da noi.

Indispettisce infine il rapporto di Zapatero con il passato franchista. Il premier inaugura una politica della memoria che prima era assente, e questo accade nel preciso momento in cui in Italia la memoria accende risse, e la resistenza è ridimensionata. Tutte queste mosse irritano perché scombinano tesi apparentemente dissacranti, ma che in fondo hanno generato nuovi allineamenti. Molto è cambiato da noi ma il conformismo delle élite sembra immutato: è antico, tenace, Jean-François Revel lo denunciava già nel '58, nel libro Pour l'Italie. Per conformismo più che per convinzione si plaude oggi al Papa, e a valori europei uniformi. Per conformismo si dice che la sinistra è buona solo se fa politica di destra, e si scorge in Blair l'unico vero modello. Per conformismo si sostiene che l'etica in politica è qualcosa d'incongruo e risibile: gradito solo a girotondini, attori comici e zapateristi. Qualche giorno fa, replicando a un articolo che sospettava Prodi di ritirarsi dall'Iraq senza coscienza morale, D'Alema ha detto parole che in Italia hanno la freschezza delle dichiarazioni inedite: «La coerenza fra gli impegni che si assumono con i cittadini e le cose che si fanno è a mio avviso un aspetto cruciale del rapporto fra etica e politica» (Corriere della Sera, 30-5-06). È proprio questa l'etica di Zapatero, chiamata da noi deriva e a Madrid mantenimento della parola data. Il conformismo italiano mescola cattolicesimo e economicismo marxista. Neppure s'accorge che le sinistre estreme sono oggi marginali in Spagna, grazie alla preminenza di diritti e laicità sulla classica questione sociale.

In realtà Zapatero innova rispetto a Blair, anche se fa proprie molte sue accortezze economiche. Ha meditato la crisi della democrazia, della politica, e la sua terza via non è quella che aderisce al liberismo e al conservatorismo Usa rinunciando all'identità di sinistra. Come si evince nel libro di Calamai e Garzia, altri sono i riferimenti di Zapatero. Fra questi spicca Philip Pettit, lo studioso che ha teorizzato il repubblicanesimo e il socialismo dei cittadini (i suoi libri son pubblicati da Feltrinelli e dall'Università Bocconi). Nella parola socialdemocratico - dice Zapatero - è il democratico che prevale. Pettit propone un'idea di libertà né liberista né socialista: un'idea più esigente della libertà negativa (libertà dall'interferenza); e meno comunitarista della libertà positiva, che persegue fini collettivi o statali in nome di tutti.

Per il repubblicanesimo può non sussistere interferenza ma può esserci dominio, ed è questo dominio - la paura è una delle sue armi - che occorre controbilanciare con leggi che prevengano sul nascere interferenze sia reali sia potenziali, spingendo gli individui a partecipare alla politica e a contare sullo Stato. Fondamentale, in Pettit, è la vigilanza dei cittadini: «l'eterna vigilanza» nei confronti delle autorità, delle istituzioni, delle degenerazioni tiranniche. Per questo è indispensabile il pluralismo dell'informazione e il rifiuto dei monopoli televisivi, in Pettit come in Zapatero. In una delle prime mosse, quest'ultimo ha restituito al servizio pubblico piena autonomia dal potere politico (un po' come chiesto dall'Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai, in una lettera a Prodi del 5 giugno).

Un'altra cosa dice Zapatero, che spiega i pregiudizi italiani nei suoi confronti: «Le persone che meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano». Chi lo ama troppo non ritiene che il mondo vada cambiato per il meglio, usando come alibi i passati errori del socialismo: ciò di cui ha orrore è il rischio, e chi rischia mette sempre in gioco il proprio potere.

Si dice che in un'economia dissestata la sinistra ha pochi margini, per forza. Che il terrorismo restringe diritti e libertà, per forza. Che non esiste quindi vero scontro destra-sinistra. Zapatero con tutte le sue precipitazioni dimostra che non è vero, che niente avviene fatalmente, che la politica è l'arte di creare isole di libertà nel mare della necessità. Isole che permettono ai Giusti di Borges - autore che Zapatero cita spesso, di cui si dichiara «estimatore fino all'ossessione» - di esistere: l'uomo giusto è «chi preferisce che abbiano ragione gli altri», i Giusti «che si ignorano stanno salvando il mondo». Il conformismo che affligge l'Italia politica ha come fine la conservazione del potere, più che l'emergere del giusto. Anche accettare un mondo interamente dominato dalla necessità è conformismo. Un conformismo meno diffuso nella società, che i rischi li teme ma non li respinge.

Per questo Zapatero è figura significante. Lui stesso racconta come adottò l'etica della parola data. Fu quando, il giorno della vittoria, sentì gli spagnoli gridare: No nos falles!- Non ci deludere! Lì capì - dice - che «il potere è nelle mani di chi il potere non ce l'ha». Che chi governa deve sempre dire: «Il potere non mi cambierà». Che per far rinascere la politica, la partecipazione dei cittadini, la loro responsabilità, occorre estendere diritti e democrazia. Non a dispetto del terrorismo e dell'economia, ma proprio perché viviamo tempi di terrorismo e di difficoltà economica.
Barbara Spinelli sulla Stampa

Monday, June 12, 2006

Arriva la suoneria per teenager

popola nelle scuole Usa: suona a una frequenza così alta
che solo le orecchie dei più giovani la riescono a percepire
Arriva la suoneria per teenager
I "grandi" non possono sentirla
Ma attenzione ai prof di fresca nomina: loro possono scoprirlo
(Repubblica)

Fashion in Space?

Rosy Bindi Come gestire famiglie complicate prendendo spunto da Nanni Moretti

La Stampa


Rosy Bindi Come gestire famiglie complicate prendendo spunto da Nanni Moretti

12-06-2006

A cipolla è un’altra cosa / Interiora non ne ha / Completamente cipolla / Fino alla cipollità». A Rosy Bindi piacciono questi versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, Nobel per la letteratura nel ‘96. «Cipolluta di fuori, / cipollosa fino al cuore, / potrebbe guardarsi dentro / senza provare timore». Ma non è un caso d’identificazione, come potrebbero essere portati a pensare alcuni tra i suoi detrattori, un Giuliano Ferrara che ebbe a definirla «una che assimila il dubbio al peccato». Bisogna arrivare all’ultimo verso per capire che, al contrario, è una presa di distanza, non da poco per una credente, dall’ «idiozia della perfezione». Non che Rosy si sgomenti quando si guarda dentro, per carità: «sono una persona ferma nelle sue convinzioni»; però osserva, e non da ieri, «un continuo processo di maturazione verso i valori della laicità», beninteso accanto a una fede salda «i cui contenuti cerco di non inventarmi». Dentro di lei, d’altronde, Arthur Schnitzler («riscoperto da poco») convive con Panariello («mi fa ridere su niente, come apre bocca mi metto a ridere»); don Tonino Bello con l’Enciclica «Deus Caritas Est» di Benedetto XVI. E pure De Gregori e Battisti «dentro di me sono sempre andati d’accordo», anche se sul presente aleggia più che altro Venditti: la giornata è stata dura, piena di contrarietà. Il ministro si prende perciò una pausa dal franco dibattito e da se stessa in gessato e conversa a ruota libera mangiando yogurt e banane. E si diceva non di canzonette o di diete - cinque chili persi in un mese, comunque - ma dell’importanza di riconoscere il limite, guardando oltre la propria cipollosità. Il suo limite, spiega Bindi, sarebbe «l’incapacità a mostrare la mia apertura alle ragioni degli altri: so che devo lavorarci»; cosa che ha finito per alimentare il cliché di quella che «quando si mette di traverso, non ci ragioni». Oddio, più che di traverso, alla toscana Rosy Bindi (12-2-51, Acquario) è capitato di prenderla di punta, «è che se niente-niente mi arriva il messaggio subliminale che dovrei essere arrendevole poiché donna, allora gliela fo’ vedere io», spiega. Di punta la prese per esempio col povero Funari, che ospite di Fabrizio Frizzi a «Per tutta la vita» le stava sparando un po’ grosse sugli ospedali italiani. L’allora ministro alla Sanità era in montagna e stava rilassandosi col programma di Raiuno dedicato ai fidanzati; racconta che provò «una ribellione interiore e immediata» e reagì: «Non potevo permettergli di dire tutte quelle menzogne alla tv pubblica. Telefonai in diretta. C’era poco campo, cadeva la linea, richiamai». Richiamò e diede a entrambi, conduttore e ospite, una memorabile ripassata. Impulsiva? «Macché, a volte gli amici me lo dicono, “Rosy dovresti riflettere”, ma i miei non sono impulsi, sono scatti razionali». Ne sa qualcosa Clemente Mastella, da Bindi apostrofato, nel corso d’uno scatto razionale, con una parolaccia, «una brutta cosa, ma poi facemmo pace». Con don Verzè, invece, i conti sono ancora aperti, e alla vicenda che li vide contrapposti il ministro dedica alcune pagine del suo libro «La salute impaziente». In sintesi, comunque, «feci il mio lavoro di ministro senza concedere sconti a nessuno». Eccome se lo fece, a cominciare dalla riforma che scardinò signorie e potentati. Anche con Di Bella, Bindi fece il suo lavoro da ministro, ma si capisce che l’anziano professore l’aveva un po’ mossa a tenerezza, «in fondo lui sapeva d’aver trovato in me un interlocutore», cosa che «Striscia la notizia» non mancò di rilevare nella celebre gag della telefonata sulle note di «Buonasera dottore». Dev’essere che Di Bella, pur sfidando la medicina ufficiale, non ha mai mandato messaggi subliminali al ministro donna chiamato a valutare il suo operato. Mentre in sedi politiche ne sono piovuti e ne piovono, il che spiega certi nervosismi degli ultimi giorni: per citare solo i più recenti, un ministero cambiato in corsa e per di più senza portafoglio e la titolarità congiunta, un mezzo Pacs con la collega Pollastrini, per quanto riguarda le deleghe. Sì, Rosy s’è arrabbiata, «ma non sui numeri, è vero Prodi avrebbe potuto inserire qualche donna in più nell’esecutivo, però pazienza; la delusione è che si faccia così fatica ad accettare che le donne possano avere posizioni di potere. Ma sbagliamo anche noi, il potere si conquista con le armi del potere e dovremmo imparare a usarle». Lei confessa di non sentirsi granché avanti in questo processo d’apprendimento, però si consola con la popolarità e il popolo, due parole che le sono sempre piaciute, e con un cauto ottimismo circa il neonato ministero: «Sono nelle condizioni di poter lavorare». Certo, tra molte prevedibili grane, poiché Bindi, senza portafoglio e con deleghe dimezzate, sta seduta sulle cosiddette questioni «eticamente sensibili», nel punto esatto in cui potrebbe verificarsi la temuta collisione. «Ma vediamola dal lato positivo: in quel punto c’è la possibilità di lavorare per creare un dialogo sereno in un Paese attanagliato dallo scontro tra clericalismo e radicalismo». Rosy, come pure papa Wojtyla la chiamava, si prepara andando al cinema: «Le commedie italiane, Almodóvar, i cowboy gay... ci sono bellissimi film che parlano di famiglia». E ha detto famiglia, mica famiglie come a qualcuno piacerebbe, «non c’è bisogno del plurale, la famiglia italiana è una realtà talmente sfaccettata», e tutta ‘sta bella complessità poi mica sfugge al ministro, capofamiglia come molti di un nucleo composto da una sola persona, figlia di genitori anziani che ogni settimana raggiunge nella natia Sinalunga, zia e zia-bis; oltreché personaggio politico di sesso femminile non sposata in un Paese dove si celebrano più che altro le mogli dei politici (e qui si apre una parentesi per chiedersi come mai farà Rosy a sopportare senza sbroccare i continui riferimenti alla sua castità: sul serio, chapeau). Resterebbero le famose questioni eticamente sensibili, ed è qui che a Rosy viene in soccorso il cinema: «C’è una scena meravigliosa nell’ultimo film di Nanni Moretti, quando Silvio Orlando è in auto con la giovane regista e una sua amica, e scopre che le due sono fidanzate. “Ma come? Siete lesbiche? Ma allora ‘sta bambina come l’avete fatta?... Vabbè, non ditemelo, non lo voglio sape’...». Una terza via, molto popolare, molto italiana, tra clericalismo e radicalismo e, perché no, un’indicazione programmatica: oggi come oggi, tra i diritti da garantire c’è anche quello di stupirsi, via.

Government ordered to release secret ID card report

I rischi della democratura

In Russia e Balcani
(La stampa)

democratic tradition

China considering promoting ethanol use - report

China considering promoting ethanol use - report
06.12.2006, 12:06 AM
BEIJING (AFX) - China is considering a change in its energy policy to encourage the wider use of ethanol, a clean fuel made from agricultural products, as a means of improving air quality, the Financial Times reported.

Beijing could set a target by the end of this year to include ethanol in the nation's energy mix, the newspaper said, citing Fabrizio Zichichi, head of ethanol at Noble Group.

Zichichi told the newspaper that government policymakers had informed him of this possibility on a recent trip to China.

Such a move would indicate crucial political support for investment in the production, import and distribution of the biofuel in China and could have an impact on world ethanol prices, which analysts said will soon peak on current consumption patterns, the newspaper said.

China is the third-largest ethanol producer in the world behind the US and Brazil.

'It makes sense for Beijing to look closely at ethanol. Not only will it help the country wean itself off its dependence on oil and coal but a large ethanol market in China could help spread wealth to the rural poor, as Brazil has shown,' the newspaper quoted Zichichi as sayin

Gestire le risorse genetiche in modo durevole

Thursday, June 08, 2006

Operazioni segrete della Cia, quattordici i paesi europei coinvolti

TERRORISMORAPPORTO DEL CONSIGLIO D’EUROPA SUL CIRCUITO DELLE “RENDITIONS”, CHE COMPRENDEVA ANCHE L’ITALIA
Operazioni segrete della Cia, quattordici i paesi europei coinvolti
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, oggi giovedì 8 giugno 2006
Una «ragnatela globale», un vero e proprio circuito delle renditions, architettato da Washington con la complicità di quattordici paesi europei – tra cui l’Italia – che hanno collaborato con la Cia o tollerato il trasferimento aereo di presunti terroristi.
È quanto denuncia il rapporto del Consiglio d’Europa redatto dal senatore svizzero Dick Marty, presentato ieri a Parigi e anticipato martedì scorso dalla Bbc.
«È ormai chiaro, anche se si è ancora lontani dall’aver potuto accertare tutta la verità – ha detto Marty – che le autorità di diversi paesi europei hanno attivamente partecipato, con la Cia, a delle attività illegali e che altri le hanno ignorate con cognizione di causa o che non hanno voluto sapere.» Nel dettaglio, sette paesi europei vengono messi in causa per «violazione dei diritti della persona» in occasione di trasferimenti illegali: Italia, Svezia, Bosnia-Erzegovina, Gran Bretagna, l’ex repubblica iugoslava della Macedonia, Germania e Turchia.
«Altri stati – continua Marty – possono essere considerati responsabili di collusione, attiva o passiva, in materia di detenzioni segrete e di trasferimenti illegali fra stati»: Polonia, Romania, Spagna, Cipro, Irlanda, Portogallo, Grecia.
In più Polonia e Romania avrebbero ospitato centri di detenzione segreti.
Dal rapporto emerge come l’aeroporto romano di Ciampino fosse uno degli scali utilizzati per le soste dei voli, di norma per il rifornimento di carburante.
La base di Aviano invece era stata usata per imbarcare l’egiziano Abu Omar, rapito nel 2003 in pieno centro a Milano.
La relazione, tuttavia, non offre prove, e basa le sue congetture soprattutto sulle registrazioni dei voli fornite dall’agenzia dell’Unione europea per il traffico aereo, Eurocontrol, e su testimonianze dei coinvolti.
L’indagine si svolge parallelamente a quella del parlamento europeo. Secondo quest’ultima i dati dell’Eurocontrol dimostrano che ci sono stati più di mille voli Cia illegali che hanno fatto scalo sul territorio europeo dal dopo 11 settembre. Finora però non è chiaro se, o quanti, detenuti siano stati “consegnati”, e non si è fatto luce sulle presunte prigioni segrete.
Il caso dei voli Cia esplose in novembre scorso quando il Washington Post sollevò il caso. In seguito, l’organizzazione Human Rights Watch identificò Polonia e Romania come le «possibili località» in cui si trovavano le prigioni segrete, ma entrambi i paesi hanno negato il loro coinvolgimento. In gennaio l’anticipazione del rapporto Marty in cui i governi europei «non potevano non sapere.» Naturalmente non sono mancate le reazioni dei paesi interessati.
Il governo polacco ha respinto al mittente le accuse. «Sono calunnie, (il rapporto, ndr) non è basato su nessuna prova», ha dichiarato il primo ministro Kazimierz Marcinkiewicz.
«Lanciare accuse del genere basandosi solo su indizi è inaccettabile», ha detto la portavoce del governo rumeno.
Perentoria la reazione di Tony Blair che liquida il rapporto: «Non aggiunge assolutamente nulla di nuovo». Il governo spagnolo smentisce «categoricamente» che Madrid abbia partecipato «attivamente o passivamente» al trasporto di detenuti, ribadendo inoltre che «il governo non ha la benché minima informazione» su presunti scali in Spagna di aerei Cia.
In Italia, il senatore Enzo Bianco, ex presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, chiede che della vicenda se ne occupi il parlamento e definisce «inaccettabile» il comportamento dell’allora ministro Castelli. Il riferimento è alla mancata richiesta di estradizione in Italia di 22 agenti della Cia coinvolti nella vicenda Abu Omar. L’ex Guardasigilli respinge ogni accusa: «prima di redigere un rapporto di tale importanza occorrerebbe sentire tutte le parti in causa, e non solo una.» Nessun commento dalla Commissione europea, che intende prima avere un «quadro completo» delle due indagini in corso. Il rapporto presentato da Marty sarà discusso il prossimo 27 giugno a Strasburgo, in occasione della sessione plenaria dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

Tuesday, June 06, 2006

friedman calls for a third party

friedman calls for a third party
oildrum

neocon sulla senna

Non proprio palmeti in cima alle Alpi. Ma la desertificazione insidia l’Europa

Non proprio palmeti in cima alle Alpi. Ma la desertificazione insidia l’Europa
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, oggi martedì 6 giugno 2006
Nel bene e nel male, i deserti sono i protagonisti della giornata mondiale dell’ambiente, istituita dall’Onu nel 1972 a Stoccolma e celebrata ieri per la prima volta in Nord Africa, ad Algeri, all’insegna del motto “Don’t desert drylands!”. Il 2006 peraltro è l’“International year of deserts and desertification”. Un invito a riflettere sul surriscaldamento del pianeta che sta provocando la desertificazione delle terre aride, che interessa il 40 per cento delle terre emerse e un terzo della popolazione mondiale. In pericolo sarebbero l’avvenire degli insediamenti umani lungo i confini del Sahara, del Gobi e di altri deserti minori, come quello del Dashti Kbir in Iran o dell’Atacama in Cile. Diminuiscono le piogge e vengono sprecate le risorse d’acqua del sottosuolo, e gli abitanti di Phoenix così come quelli di Riyadh rischiano l’esodo forzato.
Ma non solo loro. La minaccia potrebbe riguardarci da vicino.
Lo scorso luglio, di fronte alla durissima siccità che colpì gran parte dei paesi mediterranei, Newsweek arrivò a parlare di un possibile Sahara europeo.
Secondo il magazine americano, la situazione in Nordafrica è destinata a peggiorare, gli immigrati sono destinati a riversarsi sulle coste europee e addirittura la malaria sbarcherà nel Vecchio continente. Cavalcando l’ipotesi, non priva di fascino, i più fantasiosi non esitarono a parlare di palmeti sull’arco alpino.
Sotto accusa come al solito, il global warminge i cambiamenti climatici. L’ingegner Andrea Di Vecchia, dell’Ibimet, l’Istituto di biometereologia del Cnr di Firenze, ha studiato la fascia che va dalla Francia al Golfo di Guinea. «Si è notato uno spostamento delle stagioni», dichiara ad Europa, «quello che oggi accade in agosto, prima accadeva in settembre. Il Mediterraneo è oggetto di una grande instabilità. Nell’arco dell’anno la quantità di pioggia è più o meno la stessa ma distribuita in modo diverso da prima.
A piogge estreme si contrappongono lunghi periodi di scarse precipitazioni». Secondo Domenico Vento, direttore dell’Ucea, l’Ufficio centrale di ecologia agraria che sta sviluppando il progetto Climagri sui cambiamenti climatici ed agricoltura, «tutto questo porta a uno spostamento delle colture. Certo non si può arrivare a parlare delle palme sulle alpi. C’è una tendenza in atto, ma non così macroscopica».
Tornati alla realtà, restano da capire i legami tra siccità e desertificazione.
E se desertificazione e deserto siano la stessa cosa.
Secondo Antonio Brunetti, del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, per zone come l’Italia, «più che di rischio desertificazione si deve parlare di vulnerabilità», ossia di una predisposizione al degrado del territorio. «Non necessariamente la siccità porta alla desertificazione. La siccità è una condizione climatica temporanea. Diventa condizione per la desertificazione se la siccità diventa più frequente». «Desertificazione non vuol dire che da un momento all’altro vivremo nel deserto», dichiara Michele Bernardi, segretario dell’Interdepartmental working group on climate change della Fao, «il clima è un concetto dinamico. Anche in Africa stiamo assistendo a delle variazioni. Occorre vedere se sono variazioni permanenti o meno. Ma è difficile paragonare la situazione africana alla situazione europea».
Ci torna in aiuto Andrea Di Vecchia: «Il Sahara non si sta allargando e processo di desertificazione non significa deserto.
La desertificazione è un fenomeno che interessa ambiente e uomo. Senza l’uomo non si può parlare di desertificazione.
Si parla di desertificazione in tutti i territori che rischiano di perdere la capacità di sostenere la gente che ci vive. Il problema è che si tratta di un fenomeno malvagio, nel senso che non è un processo lineare. È non visibile fino ad un certo punto, poi improvvisamente arriva il collasso». Molte le cause. «Nel nord del Mediterraneo – continua l’ingegnere dell’Ibimet - la desertificazione si sta sviluppando per cause diverse dall’Africa: radicalizzazione del clima, incendi che generano erosione, cattiva gestione del territorio, svuotamento delle campagne, inondazioni. Il fenomeno parte dall’alto, dalla fascia pedemontana e montana.
L’abbandono delle campagne, il concentrarsi solo sull’industria turistica, lo sviluppo rurale non più legato al mantenimento del territorio ».
Ma se le cose qui da noi dovessero volgere al peggio, potrebbe consolarci il fatto che il deserto non è per forza sinonimo di morte e povertà. «Lontano dall’essere terre aride, i deserti appaiono come dinamici sul piano biologico, economico e culturale», afferma lo stesso Unep, il programma Onu per l’ambiente, nel “Global deserts outlook”.
Visti sotto questa luce, i deserti sono minacciati «come mai prima», mentre potrebbero essere oltre che fragili ecosistemi, un tesoro di risorse per il pianeta per la produzione di energia solare o piante medicinali.
Purtroppo però la temperatura delle regioni desertiche è aumentata tra 0,5 e 2 gradi centigradi tra il 1976 e il 2000, molto più dell’aumento medio di 0,45 gradi registrato sul resto del pianeta. Così i loro paesaggi unici, le loro culture, la loro flora e fauna rischiano di scomparire. La costruzione di strade, l’inquinamento, il turismo, la caccia, le cause principali. Ed è un vero peccato, considerando che secondo gli studiosi Onu, quei territori «trattati opportunamente potrebbero fornire risposte a numerose sfide», come a quella energetica. Il Sahara per esempio potrebbe catturare energia solare sufficiente a rispondere al fabbisogno di elettricità del mondo intero. Raggiunta o meno l’Europa.