Le tentazioni dell’iperpotenza solitaria e la ricerca di nuove relazioni transatlantiche
STATI UNITI SEI ANNI DI RAPPORTI COMPLICATI TRA LE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO E ORA IL BISOGNO SENTITO DA ENTRAMBE LE PARTI DI COLLABORARE
Le tentazioni dell’iperpotenza solitaria e la ricerca di nuove relazioni transatlantiche
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, sabato 24 giugno 2006
Le parole. A giudicare dalle reazioni a caldo al vertice di Vienna, a dividere gli Stati Uniti dall’Europa, resterebbero solo le parole.
Prendiamo la questione del nucleare di Teheran, uno dei temi chiave trattati in questi giorni: «Sull’Iran c'è solo una differenza di linguaggio, ma la posizione è identica», fanno presente fonti europee. Ed è sempre a partire dal dossier Iran che, al Financial Times, il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso esprime soddisfazione per il «netto miglioramento delle relazioni tra la Ue e gli Usa».
Certo, permangono incomprensioni su altre faccende serie, come il rispetto dei diritti umani durante la guerra al terrorismo, voli Cia e carcere di Guantanamo, per intenderci.
Mentre resta aperto il problema della trasmissione dei dati sui passeggeri diretti negli Stati Uniti, o il problema dei visti, che Washington mantiene per dieci dei 25 paesi dell’Unione.
E in piedi lo stallo dei negoziati del Doha Round per la liberalizzazione di settori come agricoltura e il tessile. Ma per dirla con Le Monde, si tratta di questioni «di ordine tecnicoeconomiche piuttosto che politiche», e malgrado Guantanamo «le relazioni transatlantiche sono considerevolmente migliorate».
Insomma, siamo decisamente lontani dal fossato “semantico” (e politico) scavato drammaticamente dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld, che nel gennaio del 2003, a pochi giorni dalla conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza, non esitò a definire «vecchia Europa» l’asse Parigi-Berlino, riluttante ad intervenire in Iraq. O a bollare come «imperdonabile » la linea assunta alla Nato da Francia, Germania e Belgio, che boicottavano ogni programma per assistere la Turchia come eventuale base logistica per i raid aerei contro Saddam Hussein.
Sullo sfondo, l’annosa questione della Politica estera e di sicurezza comune europea (la cosiddetta Pesc): di lì a poco, nel giugno del 2003, viene consegnato al Consiglio europeo il documento Solana dove si legge che gli Stati Uniti «si sono ritrovati in una posizione dominante dal punto di vista militare: nessun paese, né gruppo di paesi, può disporre di capacità paragonabili alle loro.» O note decisamente più di colore, come, sempre nel 2003, la ripubblicazione in francese (sotto il titolo “Nos amis les Français”), di un vecchio manuale militare americano diffuso a Parigi nel 1945 e contenente la summa di tutti i preconcetti americani.
Questa era l’aria che tirava fi- no alla missione decisiva del febbraio del 2005, all’indomani della vittoria su John F. Kerry, con tappe a Bruxelles, Magonza e Bratislava, e incontri chiarificatori con Jacques Chirac e Gerhard Schröder. Quando Bush dichiarava a Le Figaro: «Capisco che ultimamente sia emersa una relazione che funziona male, dalla quale qualcuno ha dedotto che si fosse spalancato un grande fossato» e chiedeva lo stop «del dialogo tra sordi».
Missione che riuscì anche grazie al lavoro preparatorio della Condoleezza Rice che in un tour “monstre” di dieci giorni aveva convinto gli europei (vecchi e nuovi) che il secondo mandato sarebbe stato improntato a maggiore pragmatismo, e anche a ricucire lo strappo inferto alle relazioni transatlantiche dalla precedente politica estera neoconservatrice. Il neo segretario di stato visitò dieci paesi, incontrò sei capi di stato e di governo, due vicari temporanei e i massimi responsabili delle organizzazioni multinazionali basate in Europa, Nato e Ue. Ma al di là dei numeri, decisivo fu il riconoscimento formale del processo di unificazione europea, espresso in diverse occasioni e con accenti inediti per un responsabile di governo statunitense (si pensi all’episodio riportato dal giornalista britannico Timothy Garton Ash. «E allora, vogliamo che l’Unione Europea sia un successo?», avrebbe chiesto Bush a un gruppo di esperti anglo- americani riuniti alla Casa Bianca, nel maggio del 2001).
Di tutt’altro sapore, invece, le parole della Rice, che parlò di «plauso al tentativo europeo di forgiare una politica estera comune», di «favore dell’amministrazione Bush verso un’integrazione Ue più accentuata».
Erano quelli i giorni in cui Tony Blair, dal Forum economico di Davos, parlava di «agenda del consenso» tra gli Usa, Europa (e resto del mondo, Cina e India in primis) da sviluppare sotto la sua presidenza del G-8: clima, conflitto arabo-israeliano, nucleare iraniano, Iraq, dovevano costituirne i capitoli principali.
Gli stessi giorni in cui il premier britannico s’impegnava a stemperare il discorso inaugurale del “Bush 2”. Alle cancelliere europee non era infatti sfuggito il passaggio in cui si sottolineava «l’intenzione di mettere fine alla tirannia e di espandere la democrazia nel mondo».
Pura ideologia neocon? Nient’affatto, per Blair si trattava di un obiettivo «perfettamente progressista.» Lo provava a spiegare al Financial Times: «Gli americani sanno benissimo che non possono andare in giro per il mondo ad invadere ogni nazione che tu pensi debba essere democratica».
Lo sanno benissimo, ma forse lo esprimono con parole che gli europei non riescono ancora, pienamente, a comprendere.
Le tentazioni dell’iperpotenza solitaria e la ricerca di nuove relazioni transatlantiche
di STEFANO BALDOLINI
Europa Quotidiano, sabato 24 giugno 2006
Le parole. A giudicare dalle reazioni a caldo al vertice di Vienna, a dividere gli Stati Uniti dall’Europa, resterebbero solo le parole.
Prendiamo la questione del nucleare di Teheran, uno dei temi chiave trattati in questi giorni: «Sull’Iran c'è solo una differenza di linguaggio, ma la posizione è identica», fanno presente fonti europee. Ed è sempre a partire dal dossier Iran che, al Financial Times, il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso esprime soddisfazione per il «netto miglioramento delle relazioni tra la Ue e gli Usa».
Certo, permangono incomprensioni su altre faccende serie, come il rispetto dei diritti umani durante la guerra al terrorismo, voli Cia e carcere di Guantanamo, per intenderci.
Mentre resta aperto il problema della trasmissione dei dati sui passeggeri diretti negli Stati Uniti, o il problema dei visti, che Washington mantiene per dieci dei 25 paesi dell’Unione.
E in piedi lo stallo dei negoziati del Doha Round per la liberalizzazione di settori come agricoltura e il tessile. Ma per dirla con Le Monde, si tratta di questioni «di ordine tecnicoeconomiche piuttosto che politiche», e malgrado Guantanamo «le relazioni transatlantiche sono considerevolmente migliorate».
Insomma, siamo decisamente lontani dal fossato “semantico” (e politico) scavato drammaticamente dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld, che nel gennaio del 2003, a pochi giorni dalla conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza, non esitò a definire «vecchia Europa» l’asse Parigi-Berlino, riluttante ad intervenire in Iraq. O a bollare come «imperdonabile » la linea assunta alla Nato da Francia, Germania e Belgio, che boicottavano ogni programma per assistere la Turchia come eventuale base logistica per i raid aerei contro Saddam Hussein.
Sullo sfondo, l’annosa questione della Politica estera e di sicurezza comune europea (la cosiddetta Pesc): di lì a poco, nel giugno del 2003, viene consegnato al Consiglio europeo il documento Solana dove si legge che gli Stati Uniti «si sono ritrovati in una posizione dominante dal punto di vista militare: nessun paese, né gruppo di paesi, può disporre di capacità paragonabili alle loro.» O note decisamente più di colore, come, sempre nel 2003, la ripubblicazione in francese (sotto il titolo “Nos amis les Français”), di un vecchio manuale militare americano diffuso a Parigi nel 1945 e contenente la summa di tutti i preconcetti americani.
Questa era l’aria che tirava fi- no alla missione decisiva del febbraio del 2005, all’indomani della vittoria su John F. Kerry, con tappe a Bruxelles, Magonza e Bratislava, e incontri chiarificatori con Jacques Chirac e Gerhard Schröder. Quando Bush dichiarava a Le Figaro: «Capisco che ultimamente sia emersa una relazione che funziona male, dalla quale qualcuno ha dedotto che si fosse spalancato un grande fossato» e chiedeva lo stop «del dialogo tra sordi».
Missione che riuscì anche grazie al lavoro preparatorio della Condoleezza Rice che in un tour “monstre” di dieci giorni aveva convinto gli europei (vecchi e nuovi) che il secondo mandato sarebbe stato improntato a maggiore pragmatismo, e anche a ricucire lo strappo inferto alle relazioni transatlantiche dalla precedente politica estera neoconservatrice. Il neo segretario di stato visitò dieci paesi, incontrò sei capi di stato e di governo, due vicari temporanei e i massimi responsabili delle organizzazioni multinazionali basate in Europa, Nato e Ue. Ma al di là dei numeri, decisivo fu il riconoscimento formale del processo di unificazione europea, espresso in diverse occasioni e con accenti inediti per un responsabile di governo statunitense (si pensi all’episodio riportato dal giornalista britannico Timothy Garton Ash. «E allora, vogliamo che l’Unione Europea sia un successo?», avrebbe chiesto Bush a un gruppo di esperti anglo- americani riuniti alla Casa Bianca, nel maggio del 2001).
Di tutt’altro sapore, invece, le parole della Rice, che parlò di «plauso al tentativo europeo di forgiare una politica estera comune», di «favore dell’amministrazione Bush verso un’integrazione Ue più accentuata».
Erano quelli i giorni in cui Tony Blair, dal Forum economico di Davos, parlava di «agenda del consenso» tra gli Usa, Europa (e resto del mondo, Cina e India in primis) da sviluppare sotto la sua presidenza del G-8: clima, conflitto arabo-israeliano, nucleare iraniano, Iraq, dovevano costituirne i capitoli principali.
Gli stessi giorni in cui il premier britannico s’impegnava a stemperare il discorso inaugurale del “Bush 2”. Alle cancelliere europee non era infatti sfuggito il passaggio in cui si sottolineava «l’intenzione di mettere fine alla tirannia e di espandere la democrazia nel mondo».
Pura ideologia neocon? Nient’affatto, per Blair si trattava di un obiettivo «perfettamente progressista.» Lo provava a spiegare al Financial Times: «Gli americani sanno benissimo che non possono andare in giro per il mondo ad invadere ogni nazione che tu pensi debba essere democratica».
Lo sanno benissimo, ma forse lo esprimono con parole che gli europei non riescono ancora, pienamente, a comprendere.
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