Wednesday, January 31, 2007

Dietro alla cinepresa e di fronte al potere

Sauro Bonelli sull'uscita delle Memorie di Sergej M. Ejzenstein (il Giornale)

Il tunnel che unirà Europa e Africa

Tahar Ben Jelloun sulla Repubblica

quell'Emilia che sogna lo sgambetto a Fassino

Luca Telese sul Giornale

Bush alla radio: se falliamo in Iraq, caos negli Usa

Monday, January 29, 2007

Who Killed the WebMaster?

Tech Barons Take on New Project: Energy Policy

SAN FRANCISCO, Jan. 28 — President Bush set broad goals last week for the adoption of alternative energy. Hoping to take on the role of filling in the details is an unlikely group: Silicon Valley’s technology investors.

These venture capitalists, backers of giants like Google and Genentech, have traditionally been free-market advocates, favoring ideas and innovation over government intervention. Now they are heading to Washington on a crusade to influence energy policy because they have a big stake in the outcome.

Nytimes

Maglia nera alla Cina per il rispetto dell'ambiente

Maglia nera alla Cina per il rispetto dell'ambiente

Stefano Baldolini


 cina, clima, ambiente
A dispetto della sua persistente crescita economica, negli ultimi tre anni la Cina non ha compiuto alcun progresso per salvaguardare l’ambiente. Lo denuncia il “China Modernisation Report 2007”, rapporto governativo redatto dall’Accademia cinese delle scienze, dal ministero della scienza e della tecnologia, e da esperti di prestigiose università. Così, a poche ore dal viaggio del suo presidente Hu Jintao in Africa per «rafforzare l’amicizia» e i legami commerciali con otto importanti paesi del continente, Pechino ammette che ha ancora molta strada da fare per rendere le sue industrie meno inquinanti. In effetti, in tema di protezione ambientale, il paese occupa la centesima posizione su 118 presi in considerazione. La stessa del 2004.

«Confrontato con la sua modernizzazione sociale ed economica, quella ambientale resta molto indietro», ha dichiarato al quotidiano China Daily, He Chuanqi, responsabile della ricerca. Una pessima notizia, considerato che dopo gli Stati Uniti, la Cina è il principale responsabile di emissioni di gas serra nell’atmosfera e che vaste aree del paese sono colpite da inquinamento prodotto da industrie, automobili e impianti alimentati ancora a carbone. E l’inquinamento non risparmia le fonti di acqua e il terreno. I dati ufficiali indicano che oltre 320 milioni di contadini non hanno accesso a fonti d’acqua potabile e che circa 190 milioni bevono acqua inquinata.

Una novità positiva però c’è: dopo anni di industrializzazione “selvaggia”, la sensibilità della popolazione sembra mutata. Secondo una recente indagine dell’Agenzia per la protezione ambientale dello Stato (Sepa), la grave situazione ambientale è la prima preoccupazione per la popolazione cinese. Se è risultata scarsa la conoscenza e l’attenzione su problemi mondiali come il buco nell’ozono e il global warming, acqua, aria e cibi inquinati sono sentiti come «una grave minaccia» dall’80 per cento della popolazione.

Parallelamente cresce l’attenzione della comunità internazionale. Solo sabato scorso Tony Blair, intervenendo al World Economic Forum di Davos, ha lanciato un appello per rivisitare Kyoto in chiave più radicale, cercando di coinvolgere i giganti emergenti Cina e India. Senza i quali «non abbiamo nessuna speranza di successo», ha dichiarato il premier britannico.

Così, fattori interni ed esterni, ma forse anche il recente interesse delle grandi corporation per il “business verde”, considerato sempre più come opportunità che come ostacolo, sembrano produrre almeno un cambiamento di prospettiva di Pechino. Tanto che la protezione dell’ambiente è la terza delle priorità economiche annunciate dal governo centrale per il 2007, dopo il controllo dei parametri macro economici e lo sviluppo dell’agricoltura.

Intanto, mentre la Banca mondiale stima che la Cina crescerà del 6 per cento nei prossimi quindici anni (più del doppio della media mondiale) gli esperti cinesi prevedono per il 2015 la fine della transizione da paese agricolo a industrializzato. In questo senso il “China Modernisation Report 2007” prende in esame dieci indicatori che misurano l’industrializzazione del paese. Buoni i risultati sin qui raggiunti in termini di aspettativa di vita, alfabetizzazione della popolazione adulta ed educazione secondaria, ma rimane molto da fare in altri quattro fattori chiave: il Pil pro capite, qualità nell’industria dei servizi, proporzione di popolazione che lavora nelle campagne, forte urbanizzazione del paese. Solo lavorando anche su questi aspetti, Pechino potrà concludere la sua “seconda lunga marcia”, e gli indicatori socio economici raggiungere il livello che i paesi sviluppati avevano nel 1960.

Pubblicato il: 29.01.07
Modificato il: 29.01.07 alle ore 18.46

Thursday, January 25, 2007

Des PME italiennes créent une zone industrielle au coeur de la Slovaquie

Le imprese italiane creano una zona industriale in
Slovacchia.

Nessuno avrebbe potuto prevedere che i destini di Vicenza,
città storica nel nordest italiano, e Samorin, piccola
città del sudest della Slovacchia, si sarebbero incrociati.
Alcune piccole imprese del Veneto in cerca di opportunità e
un paese diventato la tigre ultraliberale dell'Europa
dell'est si sono incontrati tramite i loro rappresentanti,
il presidente dell'associazione degli industriali della
provincia di Vicenza, Giordano Malfermo, e il sindaco di
Samorin, Karoly Domsitz. In appena sei anni è nata un'area
industriale a venti chilometri da Bratislava. Le filiali
delle imprese italiane impiegano un centinaio di persone,
che hanno la possibilità di imparare l'italiano.
Internazionale

La Monde, Francia
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0,36-828860,0.html

Quanto costano i figli? Ricadute socio-economiche e fiscali per le famiglie italiane.

Quanto costano i figli? Ricadute socio-economiche e fiscali per le famiglie italiane.

(CNEL)

I DATI ISTAT AL CNEL Seminario del Cnel , 24 gennaio 2007 L'Italia è oramai un Paese a bassa natalità: nel 2005 solo 1,3 figli per donna, ma, da oltre 20 anni, l'Italia è al di sotto di 1,4 figli per donna. E' da segnalare altresì che le nascite da genitori stranieri sono passate dal 6% del 1995 al 12% del 2004 e che l'età media delle madri straniere è di 27,4 anni contro i 31,1 delle italiane. In realtà non c'è disaffezione verso la maternità in quanto il numero di figli desiderati è più alto di quello reale, ma è il clima sociale sfavorevole alla maternità a dettare questa tendenza. In effetti la divisione dei ruoli all'interno della famiglia è ancora assai rigida e asimmetrica come dimostra il fatto che ben il 73,8% del tempo per lavoro familiare nelle coppie con donne occupate è assorbito dalle donne stesse. Inoltre la rete dei servizi sociali è scarsa : sono cresciuti soprattutto i nidi privati che, essendo molto costosi, non possono essere fruiti dagli strati della popolazione più povera. I figli costituiscono ancora una barriera all'accesso e al mantenimento del lavoro: le donne tra i 35 e i 44 anni sono single per l'84,6% a fronte del 3,4% di donna in coppia con 3 figli e 1 donna su 5 lascia il lavoro alla nascita di un figlio (1 su 4 nel Mezzogiorno). Ciò è anche dovuto alla poca flessibilità per esigenze di famiglia, il poco part-time, e il fatto che la spesa sociale – in particolare per famiglia e figli – è la più bassa di tutta l'Europa. Tale spesa rappresenta nel nostro Paese il 26,1% rispetto al PIL contro il 27,3% di media dell'Europa a 25; in tale contesto la quota destinata alla famiglia è di solo il 4,4,% della spesa sociale, la più bassa insieme alla Spagna. Ciò porta a determinate conseguenze. Così, su 2,585 mila famiglie italiane, la soglia di povertà è dell'11,1% , ma nelle famiglie con figli tale valore sale al 13,3% arrivando al 24,5% in presenza di tre o più figli. La situazione diventa ancora più pesante al Sud che registra sempre valori più elevati rispetto alla media nazionale: infatti nel Mezzogiorno risiede oltre il 70% delle famiglie povere con figli minori.

Data Comunicato: 24/01/2007

Area Tematica: POLITICHE SOCIALI; Welfare

un figlio costa 800 euro al mese

la repubblica (rassegna camera)

Wednesday, January 24, 2007

Genova per Curzio Maltese

La genova che vince tra design e finanza, sabato 20 gennaio 2007 (Rassegna Camera)

Davos e cooperazione

"I grandi riuniti a Davos tra l'agenda Merkel e gli stop dell'"Economist", scrive Danilo Taino oggi sul Corriere (rassegna Camera)

Ieri sul Manifesto bel pezzo di Michele Nardelli (osservatoriobalcani) sui "paradossi della cooperazione" (rassegna Camera)

Anche in America il clima è cambiato. Ora la parola spetta a Bush

USA  MAGGIORE ATTENZIONE ALL’AMBIENTE DA PARTE DEI GRUPPI INDUSTRIALI E DELLE CHIESE EVANGELICHE VICINE ALLA CASA BIANCA

di STEFANO BALDOLINI

Sarà l’effetto delle nevicate in California, delle tempeste di ghiaccio in Texas o dei fiori decisamente fuori stagione apparsi a Central Park, ma l’America sta rivedendo le sue posizioni sul problema del cambiamento climatico.
E, se non proprio una rivoluzione, è sicuramente un’importante inversione di rotta nella gestione delle politiche ambientali quella che si registra negli ultimi tempi. Con la Casa Bianca, corporation e movimenti religiosi come le chiese evangeliche che sembrano allinearsi su posizioni vicine agli ambientalisti.
Così, aspettando il discorso sullo stato dell’unione del capofila degli scettici, George W.
Bush, che dovrebbe contenere un capitolo “verde” incentrato su nuove politiche energetiche, ma non un ripensamento su Kyoto (così come ipotizzato dalla stampa britannica), la novità più rilevante arriva da un’inedita coalizione tra giganti dell’industria e gruppi ambientalisti, la United States Climate Action Partnership, che solo ieri ha diffuso un appello a presidente e Congresso per «un programma ambientale che raggiunga significative riduzioni di emissioni dei gas serra».
Ogni ulteriore ritardo potrebbe essere fatale, sostengono nel rapporto (www.uscap.org/climatereport.pdf), dieci grandi compagnie (tra cui Alcoa, BP America, Lehman Brothers, General Electric) e ong come l’Enviromental Defense o il Pew Center on Global Climate Change. Che, con un approccio come si usa dire in questi casi esplicitamente marketfriendly, sottolineano che «i cambiamenti climatici creeranno più opportunità economiche che rischi per l’economia americana».
Per dirla con il Financial Times, l’impegno di soggetti di così alto profilo del mondo del business rispecchia il cambiamento in corso a Washington dove i «democratici sono riusciti a imporre il tema del climate change al centro dell’agenda». E infatti nei giorni scorsi la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha dato vita a una commissione contro l’effetto serra dichiarando: «È molto importante per il futuro dei nostri figli liberare il nostro paese dalla dipendenza dal petrolio straniero e dagli interessi del “Big Oil”». Sempre alla Camera, poi, è passata una legge che prevede l’abolizione di sgravi fiscali e l’imposizione di royalties più pesanti per le concessioni estrattive.
Mentre sono già almeno una decina i progetti di legge per tagliare le emissioni che circolano al senato.
Sul fronte della grande industria, inoltre, va detto che il rapporto di ieri segue un altro importante documento, emesso il mese scorso dall’Energy Security Leadership Council, che chiede un incremento annuale del quattro per cento degli standard energetici del carburante, oltre a incentivi per fonti rinnovabili.
E che la tendenza “verde” delle corporation sia un dato di fatto, lo dimostrano altri importanti segnali. Come la notizia che Wal-Mart – non proprio una garanzia in quanto a temi ambientali e sociali – stia valutando se installare pannelli solari nei suoi centri commerciali, rischiando di diventare uno dei più grandi utilizzatori di energia solare del mondo. La Tesco, leader britannica di prodotti alimentari, ha appena annunciato un contratto di 13 milioni di dollari per installare «il più potente impianto ad energia solare del mondo» sul nuovo centro di distribuzione previsto in California. E la Staples, il gruppo più grande d’America che produce mobili per ufficio, ha appena aperto un enorme centro a energia solare nel Connecticut.
Come si spiega questa attenzione per le energie pulite? Sempre per il quotidiano fi- nanziario della City, «questo nuovo entusiasmo per l’energia solare riflette sia l’impatto delle bollette d’elettricità, che le valutazioni sulla reputazione e l’identità del brand». Insomma, convenienza economica ma anche strategia commerciale.
E tale cambiamento nel sentire dei manager incontra anche l’opinione pubblica. Secondo un sondaggio recente del magazine Time, l’85 per cento dei cittadini americani pensa che il global warming sia effettivamente in corso, mentre l’88 per cento ritiene che potrebbe minacciare le future generazioni.
Stando così le cose, è molto probabile, se non inevitabile, come detto, che nel suo discorso il presidente Bush arrivi a dedicare spazio alle politiche ambientali. Il problema è che potrebbe limitarsi a parlare di un aumento massiccio dell’uso di etanolo nel paese, senza però ripensare l’intera politica delle emissioni fin qui perseguita (gli Usa non hanno ancora ratificato il trattato di Kyoto).
Questo mentre anche gli evangelici, vicini al presidente, sono recentemente scesi in campo appoggiati da un gruppo di scienziati, chiedendo l’avvio di iniziative concrete contro l’effetto serra. «I cambiamenti climatici uniscono scienza e religione», scriveva il New Scientist, citando la coalizione guidata dal Center for Health and the Global Environment della Harvard University e soprattutto dalla National Associations of Evangelicals (Nae), un gruppo che conta ben 45 mila chiese e rappresenta il 40 per cento dei supporter repubblicani. E che ha deciso di andare oltre la politica e scrivere un appello, chiedendo nuovi sforzi per salvare il pianeta «creato da Dio» perché «così non si può andare avanti, neppure per un giorno».

Europa Quotidiano, martedì 23 gennaio 2007

Lo stato dell’Unione non è dei migliori. Grazie a un presidente mai così impopolare

USA  IERI NOTTE IL SETTIMO DISCORSO ANNUALE DI BUSH, TERMOMETRO DELLE CONDIZIONI DEL PAESE E DELL’AMMINISTRAZIONE IN CARICA

di STEFANO BALDOLINI

Probabilmente mai nella storia, un leader americano aveva avuto minore sostegno popolare. Sia nel suo paese, sempre più sfi- duciato e ostile, sia nella comunità internazione.
È con questi presupposti che la notte scorsa il presidente Bush ha pronunciato il discorso sullo stato dell’Unione, il suo settimo e penultimo, e il primo da lame duck president, da “anatra zoppa”. Con il Congresso a maggioranza democratica, pronto a contravvenire all’etichetta dell’applauso di rito e a replicare in forma più evidente il dissenso già espresso negli ultimi due anni.
Così il discorso di George W. Bush che dovrebbe dettare l’agenda politica dell’anno che verrà, arriva mentre la Casa Bianca è ai minimi storici nel gradimento degli americani. Mentre, secondo un sondaggio Abc-Washington Post, si è tornati a maggio 2006: il 33 per cento.
La causa di tale impopolarità, «naturalmente è l’Iraq», chiosa Slate, l’autorevole sito web, nella sua consueta rassegna dei quotidiani americani.
Prima di Bush, solo altri due presidenti erano arrivati all’atteso appuntamento annuale con un minor sostegno: Richard Nixon nel 1974, alle prese con lo scandalo Watergate, e Harry Truman nel 1952, in piena guerra di Corea.
E come detto, il calo di popolarità non è solo interno al paese. Anzi, la percezione del ruolo di Washington nel mondo si è gravemente deteriorata. Così, secondo un sondaggio del World Service della Bbc condotto in venticinque paesi compresi gli Stati Uniti, tre cittadini su quattro disapprovano la gestione del conflitto iracheno. E, fatto ancor più serio, in diciotto paesi cala a picco il numero delle persone che considerano quella degli Usa «una positiva influenza» nel mondo. «Un orribile scivolone», per dirla con Doug Miller, numero uno di GlobeScan, l’agenzia di sondaggi che ha condotto la ricerca Bbc. La novità è che le critiche non si fermano alla guerra in Iraq, ma si estendono ad altri temi caldi come la detenzione dei prigionieri a Guantanamo, il recente conflitto tra Israele e gli Hezbollah libanesi, il programma nucleare iraniano e nord coreano, e il global warming. Casi differenti, in cui la costante è che «gli Stati Uniti sono percepiti come “ipocriti” », dichiara al Washington Post, Steven Kull, direttore del Program on International Policy Attitudes.
Ma ieri notte non dovrebbe essere concesso molto spazio all’ipocrisia. Anzi, per evitare di cadere subissato dai fischi dei democratici, Bush dovrà aver compiuto un mezzo miracolo retorico. Da un lato, spostare le lancette dell’orologio a prima dell’11 settembre.
A quando, appena insediato, si concentrò su temi domestici come economia, tasse ed educazione (che definì la sua «top priority»). Temi che, insieme ad un inedito ambientalismo, dovrebbero scaldare i cuori degli avversari (anche se i grandi media hanno già liquidato l’intenzione di trovare un terreno comune parlando di «proposte riciclate»). Dall’altro, Bush dovrebbe riportare le lancette al clima della War on Terror, e ribadire la sua intenzione di inviare altri 21.500 militari in Iraq ai democratici e ai ribelli repubblicani come Chuck Hagel e John Warner. In un muro contro muro che sarebbe un evento inusuale per un presidente in minoranza al Congresso e che per Michael Waldman, speechwriter di Bill Clinton, potrebbe «innescare una drammatica escalation». Perché, per quanto possano essere nuovamente ispirati, è difficile che il paese segua il presidente nei toni usati nel post 11 settembre. Quando, alla presenza del suo più fedele alleato Tony Blair – rinnovando la tradizione per cui gli ospiti stranieri seduti nelle gallerie dell’aula sono funzionali all’inserimento in agenda di temi inediti –, parlò dell’«axis of evil» formato da Iran, Iraq e Corea del Nord.
In ogni caso, è certo che s’aggiungerà un ulteriore tassello alla storia americana. Come sempre, quando si tratta dei discorsi sullo stato dell’Unione.
Dal primo discorso di George Washington, il 21 gennaio 1790, all’ingresso delle telecamere nella sala nel 1947, con Harry Truman. Da Lyndon Johnson, il primo a pronunciarlo la sera per assicurare il massimo share televisivo. E fu proprio l’avvento della tv a modificare la natura dell’evento.
Da freddo elenco di azioni di governo, a rito trasmesso a reti unificate dai grandi network, il momento di massimo ascolto per il presidente. Il che, viste come si sono messe le cose, non è detto che sia un bene.

EUROPA QUOTIDIANO, mercoledì 24 gennaio 2007

Friday, January 19, 2007

Another mouse in the house

Another mouse in the house
Jan 19th 2007
From Economist.com

The computer industry targets the living room


LAST week’s headlines were grabbed by Apple’s gorgeous iPhone; a nifty high-definition video disc from Warner: and a high-definition video-disc player from LG Electronics that can cope with two rival formats, HD DVD and Blu-ray. But at the big trade shows where these were unveiled—the Consumer Electronics Show in Las Vegas, and Macworld in San Francisco—the big preoccupation was the computer industry’s quest to take over the living room.

The computer makers have already persuaded us to buy one box for the study and a laptop for the road. Now they want to get a third machine into the household: a “home server”, or entertainment hub.

This latest push began a couple of years back with “media centre” computers, pricey PCs decked out like set-top boxes that hooked up to a TV. Beneath the hood was a souped-up version of Windows XP called Media Centre Edition. You could operate the computer with a remote control, and view the display from ten feet instead of two—for conventional television, video and photographs from disc, or anything streamed from the web. A whole new market was thought to exist here, where the lean-back mode of living-room leisure met the forward crouch of the workspace. Nice try, but no banana.

Now the offer is getting better. In the past month firms such as Apple, Hewlett-Packard, Advanced Micro Devices, NetGear and SanDisk have launched all sorts of gadgetry for showing computer content on television screens. They are exploiting three things that weren’t around before. One is the rapid penetration of high-definition television with flat screens measuring 40 inches or more. Another is the proliferation of home-based wireless networks operating at Ethernet speeds. A third is the humungous size of the hard-drives in new PCs.

Sling Media has been testing the possibilities. It scored a hit a couple of years ago with its Slingbox, which could redirect your home television signal via internet to a computer anywhere in the world. Last week it unveiled a device called Sling Catcher that does the opposite—beaming video content from a computer (think YouTube or webcasts) to the big screen in the living room. True believers see the internet as a big DVR in the clouds, and the PC as the remote control.


They call this a smart TV?

The bandwagon looks unstoppable now that Microsoft has jumped fully on board. Windows Vista, the latest iteration of Microsoft’s operating system, has all the features of Media Centre Edition bundled into its high-end versions. It also has a powerful set of multimedia tools called DirectX 10, which speeds up 3D graphics processing dramatically for video and games. These features alone let a lowly PC double as a high-definition television. And Microsoft has struck a deal with Fox Sports to offer interactive high-definition programming for a new generation of Media Centre PCs that will be in the stores this spring.

The battle for the living room has further to go. The last thing anybody wants is a television beset, as their computer often is, with bugs, spyware, viruses and Trojan horses. Vista may prove more secure than its predecessors, but even then, why would anyone want a machine with the firepower to manage a business, simply to run a telly?

Television makers are going to fight back, borrowing from computers to make their sets smarter. Already they have twigged that hard drives make better storage than magnetic tapes or optical discs. As more improvements follow, smart TVs will need an operating system to manage their internal chores, but this is more likely to be a stripped-down and embedded version of Linux than an overly complicated solution such as Vista.

So whatever you end up calling the machine in your living room a couple of years from now, it is likely to be the product of a collision between a smart TV and a super-wide PC. And probably you won’t mind which it most resembles―so long as the picture doesn’t also crash.

Blitz alla Diaz, sparita la prova contro gli agenti

MArco Imarisio sul Corriere online

arriva il cognome fai-da-te

Sebastiano Messina sulla Repubblica 18-01-2007 (Camera)

PAdova, lo sbarco dei calvinisti all'ombra del Santo

Alberto Statera sulla Repubblica 18-01-2007 (Camera)

inchiesta "Chi comanda nelle città"

Donne senza mariti

CHIARA SARACENO
Il matrimonio è sempre meno una condizione che caratterizza tutta la vita adulta. Vale sia per gli uomini che per le donne, ma soprattutto per queste ultime. Negli Stati Uniti nel 2005 per la prima volta le donne che non vivono con un marito hanno superato di numero le coniugate che vivono con il proprio marito. In Italia questo non è ancora avvenuto, ma ci siamo vicini. Nel 2005, le coniugate (che pure possono comprendere una percentuale di persone che non vivono regolarmente con il proprio marito) erano appena 334.690 in più delle non coniugate. Per gli uomini lo scarto era oltre quattro volte tanto: 1 milione 400 mila coniugati in più rispetto ai non coniugati.

Non vivere con il proprio marito non significa non essere mai state sposate, e neppure non avere un marito. Ci sono molte vedove tra le donne senza marito e ciò spiega in larga misura la differenza con gli uomini, data la più lunga sopravvivenza delle donne. Mentre la maggior parte degli uomini termina la propria vita accanto alla propria compagna, la maggior parte delle donne, negli Usa come in Italia, anche se si è sposata e non ha mai divorziato, la termina quando ormai da qualche anno non ha più il proprio compagno. In Italia nel 2005 i vedovi erano 697.226, a fronte di 3.826.586 vedove. Vivere da sole in età anziana è la conseguenza imprevista e non voluta della maggiore longevità femminile.

Tra le «senza marito» ci sono anche le separate e divorziate. C’è anche una piccola percentuale di donne coniugate, ma che vivono lontane dal marito: che hanno, si potrebbe dire, coabitazioni matrimoniali «pendolari», per motivi diversi - lavoro proprio o del marito, servizio nell’esercito, detenzione e così via. Un tempo il pendolarismo per lavoro era quasi esclusivamente dovuto ai mariti. Ma l’aumento dell’occupazione femminile ne incrementa le occasioni. Infine, vivere senza un marito non significa necessariamente non vivere con un partner. La diminuzione delle convivenze con un marito si accompagna infatti ad un aumento delle convivenze more uxorio, ma anche a quella forma di rapporto di coppia «a distanza», o «pendolare», che proprio gli americani anni fa hanno individuato come una delle forme di vita di coppia emergenti: living apart together, vivere separati insieme. Ciascuno a casa propria, decidendo di volta in volta i tempi, i modi, le circostanze della convivenza, ma salvaguardando i propri spazi, anche fisici, di autonomia.

Non vivere con un marito, perciò, può riflettere situazioni molto diverse, oltre che essere una situazione più o meno transitoria, più o meno ricorrente. Ma proprio questa diversità e flessibilità delle e tra le diverse situazioni segnala da un lato come la coabitazione matrimoniale sotto lo stesso tetto sia solo una delle forme delle relazioni di coppia e certamente non più l’istituzione unica della vita relazionale e affettiva delle persone, in particolare delle donne. Anzi, per molte donne, la fine di un matrimonio - per divorzio o per vedovanza - apre alla scoperta che un altro modo di vivere e stare in una relazione di coppia è possibile.

È vero che le divorziate e le vedove si risposano meno spesso dei vedovi e dei divorziati, perché uomini e donne hanno ancora una posizione asimmetrica sul mercato matrimoniale e per le donne l’età è un handicap più forte. Ma è anche vero che molte donne decidono consapevolmente di non risposarsi: visto che il matrimonio non le garantisce dall’abbandono e dalla solitudine, imparano a contare sulle proprie forze e a sviluppare rapporti più negoziali con gli uomini. È lo stesso motivo per cui molte decidono di convivere prima, o invece, di sposarsi: per negoziare meglio, da una posizione anche istituzionale di maggiore autonomia, i diritti e i doveri reciproci e gli spazi di autonomia.

Più che l’esaurimento della voglia di fare coppia e di fare famiglia, questa maggioranza di donne più o meno temporaneamente senza marito - al di là dell’inesorabilità della demografia - segnala complessi processi di ridefinizione dei rapporti e delle aspettative entro cui si costruiscono le coppie e le famiglie. Questi processi sono profondamente segnati dai mutamenti delle aspettative e delle risorse delle donne.

(La Stampa online)

Due figli per donna, è boom

Massimo Nava sul Corriere 17-01-2007 (Camera)

Più vicina la mezzanotte atomica

Riccardo Staglianò sulla Repubblica 17-01-2007 (Camera)

Gabriele Romagnoli sulla Repubblica 17-01-2007 (Camera)

Arrigo Levi sulla Stampa 17-01-2007 (Camera)

La base americana vista da Caldogno

Ilvo Diamanti sulla Repubblica 18-01-2007 (Rassegna Camera)

India, le famiglie scoprono il capitalismo d'assalto

Danilo Taino sul Corriere 18-01-2007 (RAssegna Camera)

La nuova superclasse del potere

Sabino Acquaviva sulla Stampa (rassegna CAmera)

L'America liberista di Bush ora corteggia la classe operaia

Massimo Gaggi sul Corriere (pdf Rassegna Camera)

Le lobbies del veleno

Al Gore intervistato da Enrico Pedemonte (Espresso)

provincie, addio per le nostre metropoli

Aldo Fontanarosa sulla Repubblica (Rassegna Camera pdf)

E ai giovani? Un ceffone

Michele Ainis sulla Stampa

Index of Economic Freedom 2007

Italia troppo lenta per gli eredi Adam Smith (Federico Fubini, Corriere 17-01-2007, rassegna Camera pdf)

Se per la libertà economica l'Italia compete con l'Uganda (Franco Locatelli, il Sole 24 ore 17-01-2007 , rassegna Camera pdf)

Index of Economic Freedom 2007 (Heritage Foundation)

Una bomber, sotto inchiesta un poliziotto

Fiorenza Sarzanini sul Corriere 18-01-2006, (rassegna Camera pdf)

"Vedo la fine del mio incubo. E ora cerchino quel pazzo" (Corriere 18-01-2006, rassegna Camera pdf)

Casson: in quel centro avvenne il depistaggio per la strage di Peteano (Corriere 18-01-2006, rassegna Camera pdf)

L'anno nero della democrazia

Freedom's Report Card Mixed - Nonpartisan Group's World Report Describes 'Stagnation'

(Washington Post 18-01-2006)

L'anno nero della democrazia. Nel mondo ora si è fermata. (Danilo Taino, Corriere 18-01-2006, Rassegna camera pdf)

"Dietro ai successi economici dell'Asia ci sono regimi semifascisti e repressivi" (Tony Judt intervistato da Ennio Caretto, Corriere 18-01-2006, Rassegna camera pdf)

Il rapporto della Freedom House

Wednesday, January 10, 2007

Bullismo, così cambia ai tempi di Internet

La prima mossa è di Angela. Il ritorno al nucleare non è più tabù?

SCENARI LA CONVERGENZA TRA GLOBAL WARMING E “GUERRA DELL’ENERGIA” STA RAFFORZANDO I SOSTENITORI DELLE CENTRALI ATOMICA

di STEFANO BALDOLINI

Europa Quotidiano, mercoledi 10 gennaio 2007

La convergenza tra emergenza climatica e “guerra dell’energia” sta producendo come effetto collaterale il rafforzamento dei sostenitori del nucleare.
Oggi l’Unione Europea adotterà la nuova “Strategic Energy Review” con l’obiettivo di ridurre entro il 2020 le proprie emissioni di gas serra di almeno il venti per cento rispetto al 1990. Sul nucleare il collegio dei commissari europei dovrebbe limitarsi a locuzioni che evitino di innescare ulteriori conflitti tra i paesi membri, ma avvertendo comunque che, se si vorrà chiudere alcune delle centrali oggi esistenti, la loro produzione di energia dovrà essere rimpiazzata da fonti che non producono emissioni di carbonio.
Ma la novità politica più rilevante arriva dalla Germania. La chiusura in Bielorussia del principale oleodotto che porta in Europa il petrolio russo ha indotto Angela Merkel, già ministro federale dell’ambiente e della sicurezza nucleare nell’ultimo governo Kohl, a riaprire il dibattito sull’uscita dal nucleare. «Bisogna puntare sulle energie rinnovabili, – ha detto la Bundeskanzlerin intervistata dalla prima rete tv pubblica Ard – ma è anche necessario riflettere su quali conseguenze si possono avere se chiudiamo le centrali nucleari».
Il tema divide i partiti della “Grosse Koalition”, dopo che una legge approvata nel 2002 dal passato governo rosso-verde di Gerhard Schroeder ha deciso lo spegnimento, entro il 2021, delle diciassette centrali ancora attive (già quest’anno è prevista la chiusura del reattore Biblis A, in Assia, cui seguiranno altri tre stop nei prossimi due anni). Se i cristiano-democratici della Cdu, guidati dalla Merkel, e i cugini bavaresi della Csu chiedono di prolungare l’attività delle centrali, reazioni di segno contrario sono arrivate dagli esponenti socialdemocratici ed ecologisti. Dal canto suo la Merkel incassa il sostegno della Vea, la più grande associazione tedesca di acquirenti di energia, che rappresenta soprattutto medie aziende e istituzioni pubbliche.
Oltre a trattarsi di una novità in senso assoluto – è la prima volta dalla nascita della “Grosse Koalition” che si tocca l’argomento, chiuso per “rispetto” nei confronti della Spd –, l’apertura della Merkel assume un particolare significato. Intanto perché avviene in concomitanza con l’avvio del semestre tedesco di presidenza della Ue. E proprio ieri il presidente della commissione, Josè Manuel Barroso si è espresso per una nuova strategia energetica europea. che «parli con una sola voce». Poi perché si lega a un’altra recente (e clamorosa) apertura al nucleare, quella di Tony Blair, che lo scorso luglio, alla vigilia del G8 di San Pietroburgo, annunciava la costruzione di una nuova generazione di impianti nucleari in sostituzione di quelli esistenti.
La decisione fece scalpore perché rappresentò una vera e propria inversione di rotta: solo nel 2003 l’esecutivo laburista aveva deciso di abbandonare il nucleare per investire in forme di energia rinnovabile. Nelle previsioni del governo, le spese di costruzione e di gestione delle nuovi centrali (dotate dei più moderni e sofisticati sistemi di sicurezza) sarebbero ricadute quasi interamente sul settore privato. La svolta di Blair provocò le reazioni degli ambientalisti che denunciarono «l’ossessione nucleare» del premier britannico e lo accusarono di aver ceduto alla pressione delle lobby delle aziende di settore. Greenpeace rincarò la dose ricordando l’alto numero di incidenti avvenuti nell’impianto di Sellafield e la pericolosità delle operazioni di trasporto dei materiali radioattivi. Alle associazioni ambientaliste si associarono molti deputati laburisti che non erano convinti del piano: non aggiungeva nulla sulla sicurezza degli impianti, possibili target di attentati terroristici, e non affrontava in dettaglio la questione dello smaltimento delle scorie.
Come detto, le proposte del governo di Londra caddero proprio alla vigilia del vertice di San Pietroburgo, che vide Stati Uniti e Russia in prima fila per un rilancio della produzione nucleare come alternativa ecologica alla più inquinante energia prodotta dagli idrocarburi.
Secondo Mosca e Washington, si doveva addirittura permettere ai paesi in via di sviluppo di utilizzare energia prodotta attraverso il nucleare, pur sotto il rigido controllo delle superpotenze, per evitare la proliferazione per usi non civili. In ogni caso, la discussione non decollò, e anche a causa dello spauracchio atomico di Teheran, piuttosto vivace nel frattempo, si arrivò ad un accordo annacquato.
Così alcuni osservatori decretarono il fallimento del G8, che preferì nel documento finale parlare di “Sicurezza energetica globale” piuttosto che affrontare il tema della regolazione dei mercati energetici lasciando il campo a chi – come Vladimir Putin – ha tutto l’interesse a giocare un ruolo indipendente e a sfruttare posizioni di vantaggio ai fini della pura contrattazione politica. Infine, dettaglio non trascurabile – anche alla luce delle parole della Merkel –, è il fatto che dell’asse Londra e Berlino, allora principali avversari del piano di Mosca e Washington, oggi rimane poca cosa, e non resta che registrare un ri-allineamento dei maggiori governi dell’Unione europea.
Di cui ora andrebbero convinti i cittadini. Secondo l’ultimo sondaggio di eurobarometro, infatti, solo il venti per cento degli europei si dichiara favorevole all’uso dell’energia nucleare. Ma ad onor del vero va detto che il fronte dei contrari non è così compatto come può sembrare. Di recente sono registrate clamorose prese di posizione anche da parte di ambientalisti “storici” che confidano nel nucleare come rimedio all’effetto serra. È il caso, ad esempio, di James Lovelock, il padre della teoria di “Gaia”, che nel maggio 2004, con riferimento ai rischi di riscaldamento globale, dichiarava: «non abbiamo più tempo per fare esperimenti con fonti di energia visionarie; la civiltà è in pericolo imminente e deve utilizzare il nucleare – una fonte di energia sicura e disponibile – ora, oppure sopportare la sofferenza che sarà a breve imposta dal nostro pianeta oltraggiato.» E grande affidamento si fa sugli impianti di cosiddetta “terza” e “quarta generazione” (il cui lancio è previsto per il 2020) e che, secondo Georges Van Goethem, per esempio, responsabile di fissione e radioprotezione della commissione europea, fornirebbero «credenziali di sicurezza ed ecologiche inaspettate». Tutto questo mentre secondo l’Iaea (l’Agenzia per l’energia atomica delle Nazioni Unite) nel gennaio del 2006 erano in costruzione nel mondo ben 24 reattori nucleari (di cui otto in India, quattro in Russia, due in Cina, due in Ucraina, due a Taiwan, uno in Giappone, uno in Romania).
Insomma, la Germania non è un caso isolato e concreti segnali di rinnovato interesse verso l’atomo giungono anche da tutti quei paesi (occidentali in primis) ove negli ultimi anni sembrava farsi strada l’ipotesi di una moratoria di fatto.

il re dei noodle

il re dei noodle
I vermicelli istantanei che fecero il Giappone
Momofuku Ando È morto a Osaka, all'età di 96 anni, il businessman che nel 1958 inventò gli spaghettini precotti. In patria è celebrato come il padre della scoperta del XX secolo. I suoi rivoluzionari «ramen al pollo», pronti in 3 minuti, hanno cambiato fruizione, sapori e cultura del cibo contemporaneo, a est ma anche a ovest
Giulia Sbarigia

«La pace è assicurata quando la fame è saziata», amava ripetere Momofuku Ando, il businessman inventore dei noodle istantanei, fondatore e presidente della Nissin Food Products Co. Momofuku Ando è morto per un collasso cardiaco in un ospedale di Ikeda, nella prefettura di Osaka, pochi giorni fa - precisamente venerdì scorso, dopo la cena aziendale apparecchiata per festeggiare il 2007 e a base di prodotto della casa, riferiscono le cronache locali. Aveva 96 anni e in Giappone è considerato il padre della scoperta più geniale del XX secolo: i tagliolini pronti da mangiare in 3 minuti, che nella graduatoria delle invenzioni made in Japan si attesta davanti al karaoke, al walkman della Sony e alla console Nintendo.
La rivoluzione asiatica del fast food, un pugno di spaghettini disidratati al gusto di pollo da far rinvenire in poca acqua bollente, risale al 1958, ha fatto il giro del mondo e ha modificato fruizione, sapori e cultura del cibo contemporaneo. L'idea balenò a Momofuku Ando in un villaggio vicino a Osaka mentre guardava le interminabili file al mercato nero. Le rovine della seconda guerra mondiale fumavano ancora, il paese era affamato e doveva essere ricostruito, l'industria si espandeva aggressivamente e all'orizzonte si intravedeva la nascente era high-tech. Il flash che abbagliò sensei Ando e lo fece diventare miliardario, è raccontato nella sua biografia, Come ho inventato i noodle magici, scritta nel 2002: una notte del 1957 una lunga coda di persone si srotolava davanti a un chiosco per una ciotola di vermicelli caldi, erano operai e impiegati costretti tutto il giorno al superlavoro per rimettere in piedi il Giappone. Iperproduzione e pancia vuota, poco tempo e infinite attese per riempirla. Eureka.
Momofuku Ando all'epoca aveva 48 anni, uno spiccato senso degli affari e della modernità. Era nato nel 1910 in un piccolo paese di Taiwan, al tempo colonia giapponese, aveva ereditato il piglio imprenditoriale dal padre, un mercante di tessuti, a Osaka commerciava stoffe e cibo, qualche hanno prima aveva anche fondato una società di risparmio e credito, operazione che gli costò due anni di prigione per bancarotta fraudolenta. Da qui in poi, con il racconto di Ando orfano bambino, delle sue cadute e dei sui successi - fino ai 3 miliardi di dollari annui fatturati dalla multinazionale Nissin Foods Co. con le sue 29 aziende sussidiarie sparse in 11 paesi - la biografia del Re dei noodle si riempie di particolari imprescindibili per ogni self made man che si rispetti. Il climax di tutta la vicenda si colloca appunto alla fine degli anni Cinquanta, gusto pionieristico e sapore di pollo, tecniche antiche e tempi moderni, tutto in via sperimentale, prove su prove effettuate in un laboratorio improvvisato dove i tagliolini venivano lessati e insaporiti nel brodo quindi fritti nell'olio di palma e poi disidratati seguendo il procedimento di essiccazione al sole e affumicatura che garantiva la conservazione della materia. La ricetta degli avveniristici ramen di pollo, così Ando li chiamò fin dalla prima porzione, fu messa a punto ispirandosi alla preparazione della tempura: tuffata nella padella incandescente la pastella liquida composta da acqua e farina è sottoposta a micro eruzioni, le bolle d'acqua a contatto con l'olio bollente vaporizzano immediatamente lasciando sulla superficie croccante dei piccoli crateri. Ando osservò che versando dell'acqua sull'impasto cotto questo tornava soffice, proprio grazie a quelle piccole asole dorate.
Il principio era semplice, ma in effetti a nessuno era mai venuto in mente di avviarci un business. In poco tempo l'Andy Warhol del tagliolino invase il mercato con il suo prodotto, la diffusione di massa del cibo ready-made, che andava di pari passo alla proliferazione dei supermercati, abbattè anche i puristi della gastronomia: 10.000 razioni furono consumate solo nell'arco del primo anno nonostante il prezzo fosse di 35 yen a confezione, sei volte superiore a quello degli udon, i tagliolini freschi, e il salario medio di un lavoratore raggiungesse 13.000 yen al mese. Il tempo sospeso tra eros e vitalità, il sublime piacere impiegato per preparare la magistrale zuppa di Tampopo (quasi un Sette samurai del ramen con la regia di Juzo Itami), viene irrimediabilmente soppresso.
Con l'ingresso della televisione nelle case dei giapponesi la Nissin fiutò l'occasione per accelerare ulteriormente la popolarità dei ramen pronti in 3 minuti. Il lancio di una delle prime campagne pubblicitarie televisive dell'epoca, che a guardarla ora è il massimo del lounge, fece guadagnare ai vermicelli gusto pollo sintetico lo status di icona culturale del paese. Il 1971 è la data della svolta globale, oltre i confini, che farà coniare a Ando lo slogan della sua azienda: «fare cibo per il mondo», da mangiare in ogni posto e in ogni momento. Gli spaghettini magici iniziavano a essere importati negli Stati uniti, gli americani li consumavano in tazza tirandoli su con la forchetta, ecco allora l'idea fusion: la cup-noodle, package e nutrimento rapido da asporto per pochi centesimi di dollaro e non c'era più bisogno di lavare i piatti. La forchetta di plastica pieghevole incorporata, incastrata sotto il coperchio di stagnola, sarebbe arrivata poco più tardi.
Gli anni Ottanta guardano all'Occidente, fino al 1990 il testimonial dell'azienda per il mercato nipponico fu infatti Arnold Schwarzenegger. Un altro traguardo fondamentale nella biografia di Momofuku Ando è il lancio in orbita della sua invenzione. Era il luglio del 2005 e i vermicelli a zero gravità della Nissin, confezionati appositamente sottovuoto, costituivano pranzo e cena dell'astronauta giapponese Soichi Noguchi a bordo dello shuttle Usa Discovery. Mostrando i suoi space ram ai giornalisti, Ando, sempre proiettato nel futuro, non mancò di commentare: «Sono felice di aver realizzato il mio sogno: i ramen possono andare nello spazio!».
Le stime del 2006 dicono che nel mondo sono stati venduti 85.7 miliardi di pacchetti di noodle precotti: in Cina ne sono stati consumati oltre 44 miliardi, segue l'Indonesia con 12.4 miliardi e il Giappone con 5.4. Negli Usa sono 3.9 miliardi le confezioni vendute lo scorso anno, le cifre sono meno esaltanti in Europa dove la Gran Bretagna si è convertita ai prodotti di Ando negli anni Settanta, mentre la Germania si è accodata negli anni Novanta


il manifesto, 9 gennaio 2007

Monday, January 08, 2007

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Ogni anno sottratti al Fisco 115 miliardi di imposte

L'inchiesta del Sole 24 ore sull'evasione fiscale