Sarà l’effetto delle nevicate in California, delle tempeste di ghiaccio in Texas o dei fiori decisamente fuori stagione apparsi a Central Park, ma l’America sta rivedendo le sue posizioni sul problema del cambiamento climatico.
E, se non proprio una rivoluzione, è sicuramente un’importante inversione di rotta nella gestione delle politiche ambientali quella che si registra negli ultimi tempi. Con la Casa Bianca, corporation e movimenti religiosi come le chiese evangeliche che sembrano allinearsi su posizioni vicine agli ambientalisti.
Così, aspettando il discorso sullo stato dell’unione del capofila degli scettici, George W.
Bush, che dovrebbe contenere un capitolo “verde” incentrato su nuove politiche energetiche, ma non un ripensamento su Kyoto (così come ipotizzato dalla stampa britannica), la novità più rilevante arriva da un’inedita coalizione tra giganti dell’industria e gruppi ambientalisti, la United States Climate Action Partnership, che solo ieri ha diffuso un appello a presidente e Congresso per «un programma ambientale che raggiunga significative riduzioni di emissioni dei gas serra».
Ogni ulteriore ritardo potrebbe essere fatale, sostengono nel rapporto (www.uscap.org/climatereport.pdf), dieci grandi compagnie (tra cui Alcoa, BP America, Lehman Brothers, General Electric) e ong come l’Enviromental Defense o il Pew Center on Global Climate Change. Che, con un approccio come si usa dire in questi casi esplicitamente marketfriendly, sottolineano che «i cambiamenti climatici creeranno più opportunità economiche che rischi per l’economia americana».
Per dirla con il Financial Times, l’impegno di soggetti di così alto profilo del mondo del business rispecchia il cambiamento in corso a Washington dove i «democratici sono riusciti a imporre il tema del climate change al centro dell’agenda». E infatti nei giorni scorsi la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha dato vita a una commissione contro l’effetto serra dichiarando: «È molto importante per il futuro dei nostri figli liberare il nostro paese dalla dipendenza dal petrolio straniero e dagli interessi del “Big Oil”». Sempre alla Camera, poi, è passata una legge che prevede l’abolizione di sgravi fiscali e l’imposizione di royalties più pesanti per le concessioni estrattive.
Mentre sono già almeno una decina i progetti di legge per tagliare le emissioni che circolano al senato.
Sul fronte della grande industria, inoltre, va detto che il rapporto di ieri segue un altro importante documento, emesso il mese scorso dall’Energy Security Leadership Council, che chiede un incremento annuale del quattro per cento degli standard energetici del carburante, oltre a incentivi per fonti rinnovabili.
E che la tendenza “verde” delle corporation sia un dato di fatto, lo dimostrano altri importanti segnali. Come la notizia che Wal-Mart – non proprio una garanzia in quanto a temi ambientali e sociali – stia valutando se installare pannelli solari nei suoi centri commerciali, rischiando di diventare uno dei più grandi utilizzatori di energia solare del mondo. La Tesco, leader britannica di prodotti alimentari, ha appena annunciato un contratto di 13 milioni di dollari per installare «il più potente impianto ad energia solare del mondo» sul nuovo centro di distribuzione previsto in California. E la Staples, il gruppo più grande d’America che produce mobili per ufficio, ha appena aperto un enorme centro a energia solare nel Connecticut.
Come si spiega questa attenzione per le energie pulite? Sempre per il quotidiano fi- nanziario della City, «questo nuovo entusiasmo per l’energia solare riflette sia l’impatto delle bollette d’elettricità, che le valutazioni sulla reputazione e l’identità del brand». Insomma, convenienza economica ma anche strategia commerciale.
E tale cambiamento nel sentire dei manager incontra anche l’opinione pubblica. Secondo un sondaggio recente del magazine Time, l’85 per cento dei cittadini americani pensa che il global warming sia effettivamente in corso, mentre l’88 per cento ritiene che potrebbe minacciare le future generazioni.
Stando così le cose, è molto probabile, se non inevitabile, come detto, che nel suo discorso il presidente Bush arrivi a dedicare spazio alle politiche ambientali. Il problema è che potrebbe limitarsi a parlare di un aumento massiccio dell’uso di etanolo nel paese, senza però ripensare l’intera politica delle emissioni fin qui perseguita (gli Usa non hanno ancora ratificato il trattato di Kyoto).
Questo mentre anche gli evangelici, vicini al presidente, sono recentemente scesi in campo appoggiati da un gruppo di scienziati, chiedendo l’avvio di iniziative concrete contro l’effetto serra. «I cambiamenti climatici uniscono scienza e religione», scriveva il New Scientist, citando la coalizione guidata dal Center for Health and the Global Environment della Harvard University e soprattutto dalla National Associations of Evangelicals (Nae), un gruppo che conta ben 45 mila chiese e rappresenta il 40 per cento dei supporter repubblicani. E che ha deciso di andare oltre la politica e scrivere un appello, chiedendo nuovi sforzi per salvare il pianeta «creato da Dio» perché «così non si può andare avanti, neppure per un giorno».
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