Wednesday, January 24, 2007

Lo stato dell’Unione non è dei migliori. Grazie a un presidente mai così impopolare

USA  IERI NOTTE IL SETTIMO DISCORSO ANNUALE DI BUSH, TERMOMETRO DELLE CONDIZIONI DEL PAESE E DELL’AMMINISTRAZIONE IN CARICA

di STEFANO BALDOLINI

Probabilmente mai nella storia, un leader americano aveva avuto minore sostegno popolare. Sia nel suo paese, sempre più sfi- duciato e ostile, sia nella comunità internazione.
È con questi presupposti che la notte scorsa il presidente Bush ha pronunciato il discorso sullo stato dell’Unione, il suo settimo e penultimo, e il primo da lame duck president, da “anatra zoppa”. Con il Congresso a maggioranza democratica, pronto a contravvenire all’etichetta dell’applauso di rito e a replicare in forma più evidente il dissenso già espresso negli ultimi due anni.
Così il discorso di George W. Bush che dovrebbe dettare l’agenda politica dell’anno che verrà, arriva mentre la Casa Bianca è ai minimi storici nel gradimento degli americani. Mentre, secondo un sondaggio Abc-Washington Post, si è tornati a maggio 2006: il 33 per cento.
La causa di tale impopolarità, «naturalmente è l’Iraq», chiosa Slate, l’autorevole sito web, nella sua consueta rassegna dei quotidiani americani.
Prima di Bush, solo altri due presidenti erano arrivati all’atteso appuntamento annuale con un minor sostegno: Richard Nixon nel 1974, alle prese con lo scandalo Watergate, e Harry Truman nel 1952, in piena guerra di Corea.
E come detto, il calo di popolarità non è solo interno al paese. Anzi, la percezione del ruolo di Washington nel mondo si è gravemente deteriorata. Così, secondo un sondaggio del World Service della Bbc condotto in venticinque paesi compresi gli Stati Uniti, tre cittadini su quattro disapprovano la gestione del conflitto iracheno. E, fatto ancor più serio, in diciotto paesi cala a picco il numero delle persone che considerano quella degli Usa «una positiva influenza» nel mondo. «Un orribile scivolone», per dirla con Doug Miller, numero uno di GlobeScan, l’agenzia di sondaggi che ha condotto la ricerca Bbc. La novità è che le critiche non si fermano alla guerra in Iraq, ma si estendono ad altri temi caldi come la detenzione dei prigionieri a Guantanamo, il recente conflitto tra Israele e gli Hezbollah libanesi, il programma nucleare iraniano e nord coreano, e il global warming. Casi differenti, in cui la costante è che «gli Stati Uniti sono percepiti come “ipocriti” », dichiara al Washington Post, Steven Kull, direttore del Program on International Policy Attitudes.
Ma ieri notte non dovrebbe essere concesso molto spazio all’ipocrisia. Anzi, per evitare di cadere subissato dai fischi dei democratici, Bush dovrà aver compiuto un mezzo miracolo retorico. Da un lato, spostare le lancette dell’orologio a prima dell’11 settembre.
A quando, appena insediato, si concentrò su temi domestici come economia, tasse ed educazione (che definì la sua «top priority»). Temi che, insieme ad un inedito ambientalismo, dovrebbero scaldare i cuori degli avversari (anche se i grandi media hanno già liquidato l’intenzione di trovare un terreno comune parlando di «proposte riciclate»). Dall’altro, Bush dovrebbe riportare le lancette al clima della War on Terror, e ribadire la sua intenzione di inviare altri 21.500 militari in Iraq ai democratici e ai ribelli repubblicani come Chuck Hagel e John Warner. In un muro contro muro che sarebbe un evento inusuale per un presidente in minoranza al Congresso e che per Michael Waldman, speechwriter di Bill Clinton, potrebbe «innescare una drammatica escalation». Perché, per quanto possano essere nuovamente ispirati, è difficile che il paese segua il presidente nei toni usati nel post 11 settembre. Quando, alla presenza del suo più fedele alleato Tony Blair – rinnovando la tradizione per cui gli ospiti stranieri seduti nelle gallerie dell’aula sono funzionali all’inserimento in agenda di temi inediti –, parlò dell’«axis of evil» formato da Iran, Iraq e Corea del Nord.
In ogni caso, è certo che s’aggiungerà un ulteriore tassello alla storia americana. Come sempre, quando si tratta dei discorsi sullo stato dell’Unione.
Dal primo discorso di George Washington, il 21 gennaio 1790, all’ingresso delle telecamere nella sala nel 1947, con Harry Truman. Da Lyndon Johnson, il primo a pronunciarlo la sera per assicurare il massimo share televisivo. E fu proprio l’avvento della tv a modificare la natura dell’evento.
Da freddo elenco di azioni di governo, a rito trasmesso a reti unificate dai grandi network, il momento di massimo ascolto per il presidente. Il che, viste come si sono messe le cose, non è detto che sia un bene.

EUROPA QUOTIDIANO, mercoledì 24 gennaio 2007

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