«L’attacco ai pozzi, pessimo segnale per il regno Saud»
PARLA CRAIG UNGER
«L’attacco ai pozzi, pessimo segnale per il regno Saud»
di STEFANO BALDOLINI
Un duplice attacco suicida contro la più grande raffineria del mondo è stato sventato dalle forze di sicurezza saudite che hanno aperto il fuoco contro due vetture a pochi metri dai cancelli dello stabilimento petrolifero di Abqaiq, nella provincia orientale del regno, regione a maggioranza sciita.La raffineria, che gestisce i due terzi della produzione del paese – complessivamente un sesto delle esportazioni mondiali con sette milioni e mezzo barili al giorno – non avrebbe risentito dell’incidente.Ma per Craig Unger, esperto di terrorismo ed industria petrolifera ascoltato da Europa, non ci sono dubbi, «siamo vicini alla resa dei conti con al Qaeda», che vuole far impennare i prezzi del barile, così come dichiarato da bin Laden un anno fa.
Per l’autore di House of Bush, House of Saud, l’inchiesta sulle relazioni pericolose tra la dinastia Bush e la famiglia reale saudita ripresa da Michael Moore in Fahrenheit 9/11, l’attacco di ieri rappresenta un’accelerazione nella «guerra civile a bassa intensità» in corso da anni nel paese.
Era dal maggio del 2003 che al Qaeda non colpiva.
Non è esattamente così. I media non ne hanno parlato ma ci furono attacchi ben più gravi da allora.Una battaglia di tre giorni uccise circa centocinquanta persone sempre nelle province orientali del paese, per esempio.Comunque ad oggi, si può guardare la questione in due modi: da un lato i sauditi sono riusciti a proteggere i loro impianti, dall’altro al Qaeda ha aspettato il momento favorevole per concentrarsi sul suo ultimo obiettivo: far impennare i prezzi del petrolio con un enorme ricaduta sull’economia mondiale.
Come chiesto dal capo...
Non è un caso che l’attacco di ieri si sia verificato un anno dopo che Osama bin Laden ha esortato i suoi sostenitori ad attaccare le raffinerie nel Golfo Persico.Ma queste, le raffinerie saudite, sono ancora da considerarsi come un’appendice dell’Occidente?
Nel recente discorso sullo stato dell’Unione, Gorge W. Bush ha parlato esplicitamente della necessità di uscire dalla dipendenza dal petrolio.È vero in parte che Bush si sia espresso per un mutamento di rotta.
Non credo che la politica energetica degli Stati Uniti cambierà così radicalmente e in maniera tanto rapida. L’America e l’intero Occidente sono ancora troppo dipendenti dal petrolio e in particolare di tre paesi: Iraq, Iran e Arabia Saudita.Attaccare gli oleodotti rimane il modo più ef- ficace e il più immediato. Ne passerà del tempo prima che colpire un impianto petrolifero non vorrà dire automaticamente attaccare l’Occidente.
Sintomatico della persistente dipendenza mondiale dall’oro nero è il possibile accordo tra l’Iran e la Cina, di cui si parla in questi giorni. Non è trascurabile che Pechino, ottenuta un’importante fornitura di petrolio, potrebbe essere un prezioso alleato alle Nazioni unite dove Teheran è sotto pressione per i piani sul nucleare.
Insomma, i legami tra la famiglia Bush e quella saudita, raccontati dal suo libro, sono ben lontani dall’essere recisi?
Esattamente. Persistono ancora forti relazioni, ma qui il discorso va approfondito. D’altro canto, solo ad un primo sguardo questi possono considerarsi “forti”. A Riyad, com’è noto, c’è una teocrazia, la religione di stato rimane wahabita, decisamente si tratta di un paese dai tratti fondamentalisti.E la stessa casa regnante è percorsa da pulsioni differenti.Da parte nostra, chiedere con troppa perentorietà di bilanciare la tendenza alle riforme con altri aspetti radicati nella realtà saudita, potrebbe portare ad una sorta di guerra civile.
Lei in passato ha parlato di una «guerra civile a bassa intensità» in corso nel paese.
Già, ma recentemente le cose sono cambiate. I sauditi hanno dovuto fronteggiare in sequenza dei momenti di crisi molto evidenti. La questione della successione di Re Fahd per esempio.È innegabile però che l’attacco di ieri possa rappresentare l’ennesima accelerazione di tale guerra civile a bassa intensità.
EUROPA di oggi, sabato 25 febbraio 2006
«L’attacco ai pozzi, pessimo segnale per il regno Saud»
di STEFANO BALDOLINI
Un duplice attacco suicida contro la più grande raffineria del mondo è stato sventato dalle forze di sicurezza saudite che hanno aperto il fuoco contro due vetture a pochi metri dai cancelli dello stabilimento petrolifero di Abqaiq, nella provincia orientale del regno, regione a maggioranza sciita.La raffineria, che gestisce i due terzi della produzione del paese – complessivamente un sesto delle esportazioni mondiali con sette milioni e mezzo barili al giorno – non avrebbe risentito dell’incidente.Ma per Craig Unger, esperto di terrorismo ed industria petrolifera ascoltato da Europa, non ci sono dubbi, «siamo vicini alla resa dei conti con al Qaeda», che vuole far impennare i prezzi del barile, così come dichiarato da bin Laden un anno fa.
Per l’autore di House of Bush, House of Saud, l’inchiesta sulle relazioni pericolose tra la dinastia Bush e la famiglia reale saudita ripresa da Michael Moore in Fahrenheit 9/11, l’attacco di ieri rappresenta un’accelerazione nella «guerra civile a bassa intensità» in corso da anni nel paese.
Era dal maggio del 2003 che al Qaeda non colpiva.
Non è esattamente così. I media non ne hanno parlato ma ci furono attacchi ben più gravi da allora.Una battaglia di tre giorni uccise circa centocinquanta persone sempre nelle province orientali del paese, per esempio.Comunque ad oggi, si può guardare la questione in due modi: da un lato i sauditi sono riusciti a proteggere i loro impianti, dall’altro al Qaeda ha aspettato il momento favorevole per concentrarsi sul suo ultimo obiettivo: far impennare i prezzi del petrolio con un enorme ricaduta sull’economia mondiale.
Come chiesto dal capo...
Non è un caso che l’attacco di ieri si sia verificato un anno dopo che Osama bin Laden ha esortato i suoi sostenitori ad attaccare le raffinerie nel Golfo Persico.Ma queste, le raffinerie saudite, sono ancora da considerarsi come un’appendice dell’Occidente?
Nel recente discorso sullo stato dell’Unione, Gorge W. Bush ha parlato esplicitamente della necessità di uscire dalla dipendenza dal petrolio.È vero in parte che Bush si sia espresso per un mutamento di rotta.
Non credo che la politica energetica degli Stati Uniti cambierà così radicalmente e in maniera tanto rapida. L’America e l’intero Occidente sono ancora troppo dipendenti dal petrolio e in particolare di tre paesi: Iraq, Iran e Arabia Saudita.Attaccare gli oleodotti rimane il modo più ef- ficace e il più immediato. Ne passerà del tempo prima che colpire un impianto petrolifero non vorrà dire automaticamente attaccare l’Occidente.
Sintomatico della persistente dipendenza mondiale dall’oro nero è il possibile accordo tra l’Iran e la Cina, di cui si parla in questi giorni. Non è trascurabile che Pechino, ottenuta un’importante fornitura di petrolio, potrebbe essere un prezioso alleato alle Nazioni unite dove Teheran è sotto pressione per i piani sul nucleare.
Insomma, i legami tra la famiglia Bush e quella saudita, raccontati dal suo libro, sono ben lontani dall’essere recisi?
Esattamente. Persistono ancora forti relazioni, ma qui il discorso va approfondito. D’altro canto, solo ad un primo sguardo questi possono considerarsi “forti”. A Riyad, com’è noto, c’è una teocrazia, la religione di stato rimane wahabita, decisamente si tratta di un paese dai tratti fondamentalisti.E la stessa casa regnante è percorsa da pulsioni differenti.Da parte nostra, chiedere con troppa perentorietà di bilanciare la tendenza alle riforme con altri aspetti radicati nella realtà saudita, potrebbe portare ad una sorta di guerra civile.
Lei in passato ha parlato di una «guerra civile a bassa intensità» in corso nel paese.
Già, ma recentemente le cose sono cambiate. I sauditi hanno dovuto fronteggiare in sequenza dei momenti di crisi molto evidenti. La questione della successione di Re Fahd per esempio.È innegabile però che l’attacco di ieri possa rappresentare l’ennesima accelerazione di tale guerra civile a bassa intensità.
EUROPA di oggi, sabato 25 febbraio 2006