Una risoluzione dell’Onu perché il mondo si accorga della vicenda birmana.
Questo l’obiettivo degli oppositori al regime di Rangoon, uno dei più longevi e dimenticati dalla comunità internazionale.
Dal 1962 al potere dopo un colpo di stato, poi nel 1988 un cambio della guardia, e nel 1990 la farsa delle elezioni. Con la National League for Democracy (Nld) che conquista l’80 per cento dei seggi in parlamento ma non arriva mai al potere. I suoi membri sistematicamente arrestati o uccisi. La stessa leader e premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi sottoposta dal 1989, tranne alcune interruzioni, agli arresti domiciliari.
«Il problema – dichiara a Europa Maureen Aung-Thwin, direttrice del Burma Project, iniziativa della Fondazione Soros – è che il paese è molto ricco di risorse e la giunta militare potrebbe resistere a lungo».
«I prigionieri politici sono oltre mille e cento», aggiunge Mark Farmaner, della Burma Campaign, ong londinese, «il regime ha adottato una campagna d’intimidazione di bassa intensità.
Con minacce ai parenti dei dissidenti, boicottaggio dei negozi, perdita del lavoro.
Inoltre non è permesso ai giornalisti stranieri di entrare nel paese.» A parte Al Jazeera, a cui lo scorso agosto fu concessa la rara opportunità di fare un reportage. Peccato che, come scrive l’anchorwomanVeronica Pedrosa, le autorità abbiano acconsentito perché ritengono che «Al Jazeera sia anti americana.» Lo scorso 14 novembre, di ritorno da una missione di quattro giorni nel paese, il vice segretario generale Onu, Ibrahim Gambari, dichiarava al Financial Times che la palla è nel campo delle autorità militari, che sta a loro dimostrare la disponibilità a collaborare con la comunità internazionale.
Comunità internazionale che è divisa sulla questione. Lo scenario riflette il gioco classico di equilibri della geopolitica asiatica. Da un lato, Usa, Gran Bretagna e in parte l’Unione Europea (ma non l’Italia degli ultimi anni) a chiedere il conto al regime. Dall’altra la Cina e la Russia (e fino a qualche tempo fa l’India) a fare buon viso a cattivo gioco.
Intanto, la situazione non accenna a migliorare. Recentemente ha suscitato indignazione, la diffusione di un un video delle nozze della figlia di Than Shwe, il capo della giunta militare. Diffuso sul web (www.Irrawaddy.org), mostrava la sposa indossare fili di perle e pietre preziose, e il marito versare champagne in centinaia di bicchieri.
Uno scandalo, in un paese che conta circa 800mila persone costrette al lavoro forzato, tanto che per la prima volta nella sua storia l’International Labor Organization (Ilo) nel giugno del 2000 ha adottato una risoluzione appellandosi alla Forced Labor Convention del 1930.
E la questione birmana è stata toccata anche da altri organismi delle Nazioni Unite.
Ad oggi l’Assemblea generale Onu ha approvato ben quattordici risoluzioni sulla Birmania e anche la controversa commissione per i diritti umani ne ha approvate tredici.
Quello che non è arrivato è l’intervento del Consiglio di Sicurezza.
Così nel settembre del 2005 in occasione del rapporto “Threat to the Peace”, un appello viene lanciato dall’ex presidente della repubblica ceca Vaclav Havel e dal premio nobel della pace Desmond Tutu. L’obiettivo è che si obblighi il regime militare a lavorare con il segretariato generale in vista di un piano nazionale di riconciliazione; che vi sia un resoconto periodico al Consiglio stesso; che gli aiuti umanitari possano arrivare a destinazione, e che si ottenga la liberazione immediata di Aung San Suu Kyi. In- fine l’appello ai paesi membri del Consiglio – tra cui l’Italia, fresca di nomina – affinché non esercitino il loro potere di veto.
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