Quando la guerra porta democraziaPIERLUIGI BATTISTA
RETICENZEQuando la guerra porta democrazia
Si può esprimere gioia ed entusiasmo per il trionfo democratico in Iraq prescindendo dall’antefatto logico e storico che ne ha consentito il successo? Ci si può compiacere e finanche commuovere per quello straordinario spettacolo di democrazia e partecipazione senza tener conto che le lunghe file di donne di Bagdad in attesa del voto, gli iracheni che in massa hanno sfidato le minacce terroriste pur di deporre la loro scheda nell’urna, tutto questo è avvenuto non malgrado, ma grazie all’azione militare anglo-americana? Si può insomma continuare a dichiararsi imperturbabilmente contrari alla guerra se è stata proprio una guerra a creare le condizioni della grande festa democratica di domenica scorsa? Sono interrogativi che si tende a espungere dal discorso pubblico e che invece dovrebbero tormentare quanti (a cominciare da chi scrive e dai tanti commentatori di questo stesso giornale) hanno espresso critiche se non aperta contrarietà all’intervento armato in Iraq. Fino a domenica scorsa la rappresentazione di ciò che accadeva a Bagdad, a Falluja, a Najaf, a Bassora sembrava dar ragione a chi aveva osteggiato la guerra di Bush e di Blair e in uno scenario di guerriglia scatenata, di decapitazioni rituali, di terrore vedeva una clamorosa conferma della dissennatezza sottesa alla scelta di intervenire militarmente in Iraq. Malgrado l’uscita di scena di Saddam Hussein e la fine di una feroce dittatura, il tragico dopoguerra è stato letto come il risultato di una guerra insensata, di un progetto ideologico forsennato e irrealistico, quello dell’«esportazione» armata della democrazia, destinato a infrangersi contro il muro del realismo. Ci si è spinti anche oltre, quasi a ipotizzare un nesso tra la fine di Saddam, tiranno efferato ma capace di tenere a bada l’Iraq, e l'apocalittico caos portato dai velleitari esportatori della democrazia a bordo dei loro carri armati. E ora? Purtroppo adesso, anche da parte di chi si è sinceramente congratulato per l’esito entusiasmante della prova democratica in Iraq, quel nesso viene oscurato. Nelle più sorprendenti manifestazioni di ripensamento indotto dalla massiccia partecipazione elettorale in Iraq, a cominciare dalle coraggiose dichiarazioni di Alberto Asor Rosa rese con onestà intellettuale proprio al nostro giornale, traspare pur sempre la sindrome del «fermo restando». Si plaude agli iracheni votanti, «ferma restando» l’ostilità primigenia alla guerra. Si saluta la nuova democrazia di Bagdad, «fermo restando» il giudizio sull’inutilità della guerra. Si contemplano i riti democratici del nuovo Iraq, «ferma restando» la più dura deplorazione della guerra sbagliata. Ma in quel «fermo restando» si annida l’ultimo residuo di una visione comunque demonizzante della guerra, secondo la quale sempre la guerra, oltre ad essere atroce e portatrice di lutti sarebbe per definizione «inutile». Si fa inoltre fatica a rivedere in profondità il giudizio (e il pre-giudizio) sull’efficacia della guerra angloamericana, come se il compiacimento per la grande partecipazione democratica non riuscisse a saldarsi con l’ammissione che la caduta di Saddam per mezzo della forza militare abbia rappresentato la precondizione necessaria per la seminagione democratica i cui frutti si sono visti nelle urne piene di domenica scorsa. Eppure quel ripensamento appare necessario, oltre che doveroso. Le cose in Iraq, ovviamente, possono finire molto male. Ma restare aggrappati all’idea che la fragile democrazia irachena non abbia niente a che fare con la guerra rischia di apparire una forma di puerile ostinazione. Malgrado la sincerità delle autocritiche più dolorose.
di PIERLUIGI BATTISTA
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Si può esprimere gioia ed entusiasmo per il trionfo democratico in Iraq prescindendo dall’antefatto logico e storico che ne ha consentito il successo? Ci si può compiacere e finanche commuovere per quello straordinario spettacolo di democrazia e partecipazione senza tener conto che le lunghe file di donne di Bagdad in attesa del voto, gli iracheni che in massa hanno sfidato le minacce terroriste pur di deporre la loro scheda nell’urna, tutto questo è avvenuto non malgrado, ma grazie all’azione militare anglo-americana? Si può insomma continuare a dichiararsi imperturbabilmente contrari alla guerra se è stata proprio una guerra a creare le condizioni della grande festa democratica di domenica scorsa? Sono interrogativi che si tende a espungere dal discorso pubblico e che invece dovrebbero tormentare quanti (a cominciare da chi scrive e dai tanti commentatori di questo stesso giornale) hanno espresso critiche se non aperta contrarietà all’intervento armato in Iraq. Fino a domenica scorsa la rappresentazione di ciò che accadeva a Bagdad, a Falluja, a Najaf, a Bassora sembrava dar ragione a chi aveva osteggiato la guerra di Bush e di Blair e in uno scenario di guerriglia scatenata, di decapitazioni rituali, di terrore vedeva una clamorosa conferma della dissennatezza sottesa alla scelta di intervenire militarmente in Iraq. Malgrado l’uscita di scena di Saddam Hussein e la fine di una feroce dittatura, il tragico dopoguerra è stato letto come il risultato di una guerra insensata, di un progetto ideologico forsennato e irrealistico, quello dell’«esportazione» armata della democrazia, destinato a infrangersi contro il muro del realismo. Ci si è spinti anche oltre, quasi a ipotizzare un nesso tra la fine di Saddam, tiranno efferato ma capace di tenere a bada l’Iraq, e l'apocalittico caos portato dai velleitari esportatori della democrazia a bordo dei loro carri armati. E ora? Purtroppo adesso, anche da parte di chi si è sinceramente congratulato per l’esito entusiasmante della prova democratica in Iraq, quel nesso viene oscurato. Nelle più sorprendenti manifestazioni di ripensamento indotto dalla massiccia partecipazione elettorale in Iraq, a cominciare dalle coraggiose dichiarazioni di Alberto Asor Rosa rese con onestà intellettuale proprio al nostro giornale, traspare pur sempre la sindrome del «fermo restando». Si plaude agli iracheni votanti, «ferma restando» l’ostilità primigenia alla guerra. Si saluta la nuova democrazia di Bagdad, «fermo restando» il giudizio sull’inutilità della guerra. Si contemplano i riti democratici del nuovo Iraq, «ferma restando» la più dura deplorazione della guerra sbagliata. Ma in quel «fermo restando» si annida l’ultimo residuo di una visione comunque demonizzante della guerra, secondo la quale sempre la guerra, oltre ad essere atroce e portatrice di lutti sarebbe per definizione «inutile». Si fa inoltre fatica a rivedere in profondità il giudizio (e il pre-giudizio) sull’efficacia della guerra angloamericana, come se il compiacimento per la grande partecipazione democratica non riuscisse a saldarsi con l’ammissione che la caduta di Saddam per mezzo della forza militare abbia rappresentato la precondizione necessaria per la seminagione democratica i cui frutti si sono visti nelle urne piene di domenica scorsa. Eppure quel ripensamento appare necessario, oltre che doveroso. Le cose in Iraq, ovviamente, possono finire molto male. Ma restare aggrappati all’idea che la fragile democrazia irachena non abbia niente a che fare con la guerra rischia di apparire una forma di puerile ostinazione. Malgrado la sincerità delle autocritiche più dolorose.
di PIERLUIGI BATTISTA
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