Doc - Kaplan - Corriere
La nostra non è un’epoca di democrazia o di terrorismo, ...
L’AUTORE
Cronista da Falluja, negli anni ’80 fu il primo a prevedere la guerra nei Balcani
Robert D. Kaplan, nato nel 1952, è corrispondente per The Atlantic Monthly e autore di saggi di politica internazionale tradotti in venti lingue. Un viaggio solitario compiuto da giovane free lance negli anni Settanta, gli ha ispirato un insolito libro, Mediterranean Winter. Nel 1980 fu il primo scrittore americano a parlare di un possibile conflitto nei Balcani. Il New York Times recensì Balkan Ghosts come uno dei migliori libri del 1993. Recentemente ha affermato in un articolo che con Erdogan «la Turchia rischia di diventare più islamica e l’Europa più turca. Ed entrambe le cose sarebbero buone notizie». Lo scorso aprile, dopo l’uccisione e la mutilazione di quattro civili americani in Iraq, Kaplan si è aggregato ai marines durante l’assalto a Falluja. L’ultimo lavoro, Warrior Politics , spiega come la filosofia antica possa aiutare a sviluppare un pensiero critico utile in epoca di terrorismo. Collabora a Policy Review , da cui è tratto l’articolo qui pubblicato. Tra i suoi lettori, i presidenti Clinton e Bush, che lo ha chiamato alla Casa Bianca per una consulenza . Foto: un marine nella battaglia per la conquista di Falluja (Afp/Baz).
"La nostra non è un’epoca di democrazia o di terrorismo, bensì un momento storico in cui dominano i mass media. Come i sacerdoti dell’antico Egitto, i teorici dell’età classica greca e romana, e i teologi dell’Europa medievale, i mezzi di comunicazione sono il veicolo di una classe brillante e ambiziosa il cui status sociale ed economico permette di influenzare e di scalzare le autorità politiche. L’élite che utilizza i media ha un autentico potere politico, infinitamente ampliato dalla tecnologia. Tale potere non è neppure vincolato dalla necessità di dover renderne conto, così che nessuno è mai incolpabile per quello che propugna.
Non c’è nulla di male nel semplice fatto di esprimere la propria opinione attraverso i media. Anzi, il governo si troverebbe peggio se i media non ci fossero, piuttosto che con troppi di loro. Le persone erudite, in un modo o nell’altro hanno sempre un ruolo da sostenere nelle società libere. Ma la crescente concentrazione delle maggiori fonti di informazione in poche mani, l’amplificazione dell’influenza dei media attraverso vari mezzi elettronici e l’informazione satellitare, la forza dell’immagine ingigantita dai grandi televisori a schermo piatto, stanno creando un nuovo impero autoritario che può portare a conseguenze geopolitiche.
Per esempio, se Fox News (il canale conservatore ndr ) cambiasse leggermente di tono, anche solo per rubare un po’ di audience liberal alla Cnn, oppure se il New York Times dovesse mandare in pensione uno o due dei suoi opinionisti al semplice scopo di alleggerire una pagina dei commenti troppo tediosa e stridente, le conseguenze non sarebbero solo giornalistiche, ma anche politiche. Conseguenze forse capaci di influenzare il risultato di una successiva elezione.
Ma i media non sono promotori di una decentralizzazione del potere, un’azione che implicherebbe una sorta di trasformazione salutare e ordinata. Piuttosto sono i sostenitori dell’indebolimento del pluralismo. I compromessi sempre più cinici che i politici sono costretti a fare in un ambiente guidato dai media li paralizza progressivamente. I politici insomma sono più deboli che mai, e i giornalisti sempre più forti.
Il Medioevo opprimeva la gente col suo anelito al perfezionismo spirituale, rendendo difficile portare a termine qualsiasi iniziativa pratica. La verità, ammoniva Erasmo, doveva essere nascosta sotto un manto di pietà. Oggi i media globali richiedono ai generali e ai civili che decidono le strategie politiche un grado di perfezione con cui le autorità medievali avevano grande familiarità. I giornalisti investigativi spesso potranno rendere un contributo lodevole alla società, ma sono anche diventati i grandi inquisitori della nostra epoca, possono distruggere la reputazione di qualcuno costruita nell’arco di una vita con la semplice esposizione di pochi sordidi dettagli. Quando la redazione dello show 60 Minutes sceglie quali storie perseguire e quali lasciare a metà, nella stanza dove si decidono i tagli, viene silenziosamente determinato il destino di un certo numero di persone.
I chierici dei media si pavoneggiano del fatto di aver ereditato dai giornalisti d’inchiesta la tradizione d’inizio ’900 di far luce sugli scandali. Ma il giornalismo d’inchiesta è diventato, sia cronologicamente sia filosoficamente, niente più che uno strascico della ribellione giovanile degli anni Sessanta. Anni di cui Samuel Huntington scrisse, nel suo libro più importante, American Politics: The Promise of Disharmony (1981) (Politica americana: la promessa della disarmonia), che «l’arroganza del potere venne superata dall’arroganza della moralità». Verso la fine del decennio, mentre segretezza diventava sinonimo di diabolico, la gogna dell’esposizione sui media da mera tecnica giornalistica fu elevata allo status di principio.
La richiesta di pace e giustizia da parte dei mezzi di comunicazione globali è - proprio come la crescente domanda da parte di quello che una volta si chiamava il Comunista Internazionale del riconoscimento dei diritti dei lavoratori - moralistica, non morale. Pace e giustizia sono princìpi così generali ed evidenti che è sufficiente invocarli. Qualsiasi sostanza tossica può essere estrapolata da questi concetti, qualsiasi tipo di manipolazione, basta utilizzare il giusto tipo di retorica. Per i moralizzatori questi princìpi sono una questione di forma, non di sostanza. Come dire, Kofi Annan non può mai avere torto.
Tuttavia, la Cnn - e in particolare Cnn International - non può essere semplicemente definita una tv di sinistra. Basta guardare le ultime annunciatrici esotiche, così eleganti e con un trucco raffinato. Rosa Luxemburg non ha mai avuto quell’aspetto. Cnn International è una rete televisiva globale e cosmopolita. Al contrario, Fox News è una rete vecchio-stile che sottintende lo Stato come nazione ed è stata sfarzosamente rilanciata dalle ultime diavolerie tecnologiche. Il mondo del Cosmopolita Globale comprende persone che hanno più passaporti e altri i cui affari e le cui entrate economiche permettono un facile accesso a molti Paesi anche se hanno sempre meno poste in gioco in uno qualsiasi di questi stati. Come i giornalisti che non sono tenuti a rendere conto dei propri punti di vista i Cosmopoliti Globali sono sempre meno tenuti a rispondere del loro spazio geografico, non devono rendere conto a nessun governo specifico e se rimangono indifferenti agli appelli di carattere nazionale, rispondono con sensibilità alle richieste «dell’umanità». Loro rappresentano quelli che sono «giustamente preoccupati». Come osservò lo scrittore inglese Somerset Maugham nel suo libro La luna e sei soldi (1919), l’indignazione morale contiene sempre un elemento di autogratificazione.
L’arma principale dei media globali, come per qualsiasi altro tipo di media, è l’esposizione. Dopotutto ci sarà sempre qualcosa di riprovevole da mettere a nudo anche nei governi e nelle burocrazie che funzionano al meglio, poiché per loro natura queste organizzazioni sono estremamente imperfette. Certamente troppa esposizione può immobilizzare il governo, ma se non avete nessun grande interesse in gioco, questo non conta. Il fatto stesso dell’esposizione - e la soddisfazione morale che ne deriva - è piacevole.
L’esposizione è il terreno fertile del giornalista d’inchiesta. È proprio quest’ultimo che ha ereditato il mantello della vecchia sinistra, qualunque siano le tendenze ideologiche individuali dei praticanti di questo mestiere. Il giornalista d’inchiesta non è mai interessato al 90 per cento delle iniziative che stanno andando bene, e non è neanche particolarmente attratto da quel 10 per cento che sta andando male, ciò che lo scatena sulla notizia è quell’1 per cento che può essere considerato moralmente riprovevole. Poiché riesce sempre a definire anche le istituzioni più eroiche attraverso le loro peggiori iniquità, il suo obiettivo finale è sempre l’autorità in quanto tale.
Come con gli uomini di chiesa medievali, la classe dei media «giustamente preoccupata» ha una tendenza a confondere la moralità con l’ipocrisia. Quelli con i megafoni più potenti e nessuna responsabilità burocratica hanno una propensione ad adottare assoluti morali.
Come dire, alcuni dei più prestigiosi corrispondenti hanno ammesso che l’unico favoritismo che si sono concessi è sempre stato nei confronti dei deboli o delle vittime in stato di crisi. Questo atteggiamento può andar bene in chiesa, ma non porta per forza a un’analisi attendibile.
In uno scritto a proposito del crescente antisemitismo in Europa, il sociologo francese Alain Finkielkraut mette in guardia contro quelli che dimostrano «un’infallibile preoccupazione» verso chi commette «azioni discutibili» per il semplice fatto che i loro atti sono frutto dello sfruttamento e dell’oppressione subiti precedentemente. Il suo target non sono i media globali ma le élite europee in genere, però c’è una somiglianza di atteggiamento nelle due situazioni.
Poiché i mezzi di comunicazione confondono la vittimizzazione con i diritti morali, le truppe americane in Iraq a volte hanno dovuto confrontarsi con una copertura stampa poco favorevole per non dire contraria, che in un’epoca in cui dominano i mass media ha delle concrete conseguenze tattiche e strategiche. La primavera scorsa accompagnai i primi Marines statunitensi a Falluja. Dopo diversi giorni di lotta intensa, i marines - rinforzati da un nuovo battaglione più fresco - sembravano essere sul punto di sconfiggere i ribelli. Ma venne ordinato di cessare il fuoco, strappando di mano la possibile vittoria. Non importa quanto pulita fosse la battaglia dei marines, non era comunque mai abbastanza corretta per i media globali, includendo anche Al Jazira che descrisse come un mattatoio indiscriminato quello che in epoche precedenti avrebbe costituito una bassa incidenza di feriti e di morti tra i civili. La nozione che le moschee venissero palesemente utilizzate dai ribelli come posti di comando per organizzare operazioni militari aggressive, per i giornalisti contava meno del fatto che questi edifici religiosi fossero presi di mira dagli attacchi aerei statunitensi. Se la lotta fosse continuata, l’impopolarità politica, dovuta a una simile copertura da parte dei media, avrebbe costretto le autorità irachene appena emergenti ad arrendersi in massa. Così gli ufficiali americani ebbero come unica scelta quella di far cessare il fuoco, sabotando la loro stessa posizione favorevole sul campo di battaglia. Mentre la strategia Usa mancava di coerenza, i marines furono sconfitti meno dai ribelli che dal modo in cui la guerriglia urbana fu seguita dai media globali che avevano adottato in pieno il culto del vittimismo.
Il culto del vittimismo è un altro strascico degli anni intorno al 1960 con le sue immediate conseguenze. Fu un periodo in cui, secondo Peter Novick nel suo lavoro The Holocaust in American Life (1999) (L’Olocausto nella vita americana), ebrei, donne, neri, indigeni americani, armeni e altri rafforzarono il loro senso di identità attraverso riferimenti pubblici alle esperienze passate di oppressione. Il processo era legato al Vietnam, una guerra in cui le foto delle vittime civili - come quella della bimba che fugge dal napalm - «spiazzarono immagini tradizionali di eroismo». Il processo adesso è stato riversato sulle stesse forze militari americane. Quando i soldati non vengono denunciati come criminali implicati in scandali che riguardano l’abuso dei prigionieri, i media sembrano sentirsi a loro agio nel descrivere le truppe americane come delle vittime loro stesse. Vittime di una strategia politica fallimentare per l’Iraq, di un cattivo sistema di riserva, e di una società che li ha fatti diventare degli assassini.
Eppure dai soldati e dai marines con cui ho passato mesi inserito in una unità di combattimento a terra, questo tipo di copertura era considerato altamente offensivo. Nei momenti in cui ci sono state azioni coraggiose sul campo di battaglia in luoghi come Falluja e Najaf, secondo l’esperto militare John Hillen, la copertura dei media di singoli episodi di soldati e marines come guerrieri-eroi è completamente assente. L’eroismo di qualcuno come Jessica Lynch è accettabile per l’orda dei giornalisti perché è unito con il suo vittimismo.
Raccontare l’eroismo militare non significa glorificare l’uccisione. La guerra è una triste realtà dell’esistenza, ma è comunque un fatto da riportare. Il comportamento eroico può essere l’indicatore del carattere di una persona e non il segno di un uomo assetato di sangue. Inoltre, le forze militari americane, attive in dozzine di Paesi ogni settimana, stanno combattendo contro il terrorismo anche lontano dai titoli dei giornali. In un piano più ampio stanno provvedendo alla creazione di uno scudo di sicurezza intorno a una civiltà globale emergente le cui istituzioni sono ancora nella loro primissima infanzia. E mentre le forze militari Usa potrebbero usare una varietà di metodi, compresi gli aiuti umanitari, nella lotta contro il terrorismo, tuttavia l’uso della forza è centrale alla loro impresa.
La separazione di sensibilità e di vedute tra le truppe americane e i reporter statunitensi venne superata, anche se per un breve periodo, nel 2003 durante l’operazione Iraqi Freedom quando una buona parte dei giornalisti inviati per raccontare la guerra si mischiò con i soldati della fanteria impegnati in un’operazione di avanzata tradizionale sul territorio iracheno. Ma dopo, quando la guerra diventò non convenzionale e prese una piega più amara, i reporter tornarono gradualmente alle loro postazioni mischiandosi alla nuova folla di giornalisti dei media globali.
I giornalisti infiltrati che usarono parole come «noi» e «nostri» nei loro reportage furono presi di mira dai critici dei media per il fatto che si sentivano tutt’uno con le truppe; ma l’uso di questa terminologia è pienamente legittima per qualsiasi americano che vive insieme ai soldati.
Quindi nella prossima guerra, mentre i mass media forniranno la prospettiva globale e cosmopolita, le truppe stesse produrranno la versione americana. Il fatto è che la maggior parte dei militari non sopportano di essere rappresentati come vittime. Ne è prova la tendenza che sta crescendo silenziosamente tra i soldati americani e i marines di scrivere a proposito delle loro esperienze da soli e di spedirle come diari su internet piuttosto che vedere le loro vicissitudini interpretate da giornalisti transnazionali.
Quasi tutte le truppe hanno il loro portatile e possono accedere a degli internet café. La prospettiva americana non ignora il problema e tantomeno sostiene che la situazione sia migliore di quello che sembra, però promuove le virtù guerriere e sovrasta il culto del vittimismo. Inoltre riconoscere che l’umore è buono non significa che non ci siano recriminazioni - le truppe si lamentano tutto il tempo, ci sarebbe da sospettare se non lo facessero -. Ma quello che non si affievolisce è la loro volontà di combattere.
(traduzione di Gabriela Lotto)
L’AUTORE
Cronista da Falluja, negli anni ’80 fu il primo a prevedere la guerra nei Balcani
Robert D. Kaplan, nato nel 1952, è corrispondente per The Atlantic Monthly e autore di saggi di politica internazionale tradotti in venti lingue. Un viaggio solitario compiuto da giovane free lance negli anni Settanta, gli ha ispirato un insolito libro, Mediterranean Winter. Nel 1980 fu il primo scrittore americano a parlare di un possibile conflitto nei Balcani. Il New York Times recensì Balkan Ghosts come uno dei migliori libri del 1993. Recentemente ha affermato in un articolo che con Erdogan «la Turchia rischia di diventare più islamica e l’Europa più turca. Ed entrambe le cose sarebbero buone notizie». Lo scorso aprile, dopo l’uccisione e la mutilazione di quattro civili americani in Iraq, Kaplan si è aggregato ai marines durante l’assalto a Falluja. L’ultimo lavoro, Warrior Politics , spiega come la filosofia antica possa aiutare a sviluppare un pensiero critico utile in epoca di terrorismo. Collabora a Policy Review , da cui è tratto l’articolo qui pubblicato. Tra i suoi lettori, i presidenti Clinton e Bush, che lo ha chiamato alla Casa Bianca per una consulenza . Foto: un marine nella battaglia per la conquista di Falluja (Afp/Baz).
"La nostra non è un’epoca di democrazia o di terrorismo, bensì un momento storico in cui dominano i mass media. Come i sacerdoti dell’antico Egitto, i teorici dell’età classica greca e romana, e i teologi dell’Europa medievale, i mezzi di comunicazione sono il veicolo di una classe brillante e ambiziosa il cui status sociale ed economico permette di influenzare e di scalzare le autorità politiche. L’élite che utilizza i media ha un autentico potere politico, infinitamente ampliato dalla tecnologia. Tale potere non è neppure vincolato dalla necessità di dover renderne conto, così che nessuno è mai incolpabile per quello che propugna.
Non c’è nulla di male nel semplice fatto di esprimere la propria opinione attraverso i media. Anzi, il governo si troverebbe peggio se i media non ci fossero, piuttosto che con troppi di loro. Le persone erudite, in un modo o nell’altro hanno sempre un ruolo da sostenere nelle società libere. Ma la crescente concentrazione delle maggiori fonti di informazione in poche mani, l’amplificazione dell’influenza dei media attraverso vari mezzi elettronici e l’informazione satellitare, la forza dell’immagine ingigantita dai grandi televisori a schermo piatto, stanno creando un nuovo impero autoritario che può portare a conseguenze geopolitiche.
Per esempio, se Fox News (il canale conservatore ndr ) cambiasse leggermente di tono, anche solo per rubare un po’ di audience liberal alla Cnn, oppure se il New York Times dovesse mandare in pensione uno o due dei suoi opinionisti al semplice scopo di alleggerire una pagina dei commenti troppo tediosa e stridente, le conseguenze non sarebbero solo giornalistiche, ma anche politiche. Conseguenze forse capaci di influenzare il risultato di una successiva elezione.
Ma i media non sono promotori di una decentralizzazione del potere, un’azione che implicherebbe una sorta di trasformazione salutare e ordinata. Piuttosto sono i sostenitori dell’indebolimento del pluralismo. I compromessi sempre più cinici che i politici sono costretti a fare in un ambiente guidato dai media li paralizza progressivamente. I politici insomma sono più deboli che mai, e i giornalisti sempre più forti.
Il Medioevo opprimeva la gente col suo anelito al perfezionismo spirituale, rendendo difficile portare a termine qualsiasi iniziativa pratica. La verità, ammoniva Erasmo, doveva essere nascosta sotto un manto di pietà. Oggi i media globali richiedono ai generali e ai civili che decidono le strategie politiche un grado di perfezione con cui le autorità medievali avevano grande familiarità. I giornalisti investigativi spesso potranno rendere un contributo lodevole alla società, ma sono anche diventati i grandi inquisitori della nostra epoca, possono distruggere la reputazione di qualcuno costruita nell’arco di una vita con la semplice esposizione di pochi sordidi dettagli. Quando la redazione dello show 60 Minutes sceglie quali storie perseguire e quali lasciare a metà, nella stanza dove si decidono i tagli, viene silenziosamente determinato il destino di un certo numero di persone.
I chierici dei media si pavoneggiano del fatto di aver ereditato dai giornalisti d’inchiesta la tradizione d’inizio ’900 di far luce sugli scandali. Ma il giornalismo d’inchiesta è diventato, sia cronologicamente sia filosoficamente, niente più che uno strascico della ribellione giovanile degli anni Sessanta. Anni di cui Samuel Huntington scrisse, nel suo libro più importante, American Politics: The Promise of Disharmony (1981) (Politica americana: la promessa della disarmonia), che «l’arroganza del potere venne superata dall’arroganza della moralità». Verso la fine del decennio, mentre segretezza diventava sinonimo di diabolico, la gogna dell’esposizione sui media da mera tecnica giornalistica fu elevata allo status di principio.
La richiesta di pace e giustizia da parte dei mezzi di comunicazione globali è - proprio come la crescente domanda da parte di quello che una volta si chiamava il Comunista Internazionale del riconoscimento dei diritti dei lavoratori - moralistica, non morale. Pace e giustizia sono princìpi così generali ed evidenti che è sufficiente invocarli. Qualsiasi sostanza tossica può essere estrapolata da questi concetti, qualsiasi tipo di manipolazione, basta utilizzare il giusto tipo di retorica. Per i moralizzatori questi princìpi sono una questione di forma, non di sostanza. Come dire, Kofi Annan non può mai avere torto.
Tuttavia, la Cnn - e in particolare Cnn International - non può essere semplicemente definita una tv di sinistra. Basta guardare le ultime annunciatrici esotiche, così eleganti e con un trucco raffinato. Rosa Luxemburg non ha mai avuto quell’aspetto. Cnn International è una rete televisiva globale e cosmopolita. Al contrario, Fox News è una rete vecchio-stile che sottintende lo Stato come nazione ed è stata sfarzosamente rilanciata dalle ultime diavolerie tecnologiche. Il mondo del Cosmopolita Globale comprende persone che hanno più passaporti e altri i cui affari e le cui entrate economiche permettono un facile accesso a molti Paesi anche se hanno sempre meno poste in gioco in uno qualsiasi di questi stati. Come i giornalisti che non sono tenuti a rendere conto dei propri punti di vista i Cosmopoliti Globali sono sempre meno tenuti a rispondere del loro spazio geografico, non devono rendere conto a nessun governo specifico e se rimangono indifferenti agli appelli di carattere nazionale, rispondono con sensibilità alle richieste «dell’umanità». Loro rappresentano quelli che sono «giustamente preoccupati». Come osservò lo scrittore inglese Somerset Maugham nel suo libro La luna e sei soldi (1919), l’indignazione morale contiene sempre un elemento di autogratificazione.
L’arma principale dei media globali, come per qualsiasi altro tipo di media, è l’esposizione. Dopotutto ci sarà sempre qualcosa di riprovevole da mettere a nudo anche nei governi e nelle burocrazie che funzionano al meglio, poiché per loro natura queste organizzazioni sono estremamente imperfette. Certamente troppa esposizione può immobilizzare il governo, ma se non avete nessun grande interesse in gioco, questo non conta. Il fatto stesso dell’esposizione - e la soddisfazione morale che ne deriva - è piacevole.
L’esposizione è il terreno fertile del giornalista d’inchiesta. È proprio quest’ultimo che ha ereditato il mantello della vecchia sinistra, qualunque siano le tendenze ideologiche individuali dei praticanti di questo mestiere. Il giornalista d’inchiesta non è mai interessato al 90 per cento delle iniziative che stanno andando bene, e non è neanche particolarmente attratto da quel 10 per cento che sta andando male, ciò che lo scatena sulla notizia è quell’1 per cento che può essere considerato moralmente riprovevole. Poiché riesce sempre a definire anche le istituzioni più eroiche attraverso le loro peggiori iniquità, il suo obiettivo finale è sempre l’autorità in quanto tale.
Come con gli uomini di chiesa medievali, la classe dei media «giustamente preoccupata» ha una tendenza a confondere la moralità con l’ipocrisia. Quelli con i megafoni più potenti e nessuna responsabilità burocratica hanno una propensione ad adottare assoluti morali.
Come dire, alcuni dei più prestigiosi corrispondenti hanno ammesso che l’unico favoritismo che si sono concessi è sempre stato nei confronti dei deboli o delle vittime in stato di crisi. Questo atteggiamento può andar bene in chiesa, ma non porta per forza a un’analisi attendibile.
In uno scritto a proposito del crescente antisemitismo in Europa, il sociologo francese Alain Finkielkraut mette in guardia contro quelli che dimostrano «un’infallibile preoccupazione» verso chi commette «azioni discutibili» per il semplice fatto che i loro atti sono frutto dello sfruttamento e dell’oppressione subiti precedentemente. Il suo target non sono i media globali ma le élite europee in genere, però c’è una somiglianza di atteggiamento nelle due situazioni.
Poiché i mezzi di comunicazione confondono la vittimizzazione con i diritti morali, le truppe americane in Iraq a volte hanno dovuto confrontarsi con una copertura stampa poco favorevole per non dire contraria, che in un’epoca in cui dominano i mass media ha delle concrete conseguenze tattiche e strategiche. La primavera scorsa accompagnai i primi Marines statunitensi a Falluja. Dopo diversi giorni di lotta intensa, i marines - rinforzati da un nuovo battaglione più fresco - sembravano essere sul punto di sconfiggere i ribelli. Ma venne ordinato di cessare il fuoco, strappando di mano la possibile vittoria. Non importa quanto pulita fosse la battaglia dei marines, non era comunque mai abbastanza corretta per i media globali, includendo anche Al Jazira che descrisse come un mattatoio indiscriminato quello che in epoche precedenti avrebbe costituito una bassa incidenza di feriti e di morti tra i civili. La nozione che le moschee venissero palesemente utilizzate dai ribelli come posti di comando per organizzare operazioni militari aggressive, per i giornalisti contava meno del fatto che questi edifici religiosi fossero presi di mira dagli attacchi aerei statunitensi. Se la lotta fosse continuata, l’impopolarità politica, dovuta a una simile copertura da parte dei media, avrebbe costretto le autorità irachene appena emergenti ad arrendersi in massa. Così gli ufficiali americani ebbero come unica scelta quella di far cessare il fuoco, sabotando la loro stessa posizione favorevole sul campo di battaglia. Mentre la strategia Usa mancava di coerenza, i marines furono sconfitti meno dai ribelli che dal modo in cui la guerriglia urbana fu seguita dai media globali che avevano adottato in pieno il culto del vittimismo.
Il culto del vittimismo è un altro strascico degli anni intorno al 1960 con le sue immediate conseguenze. Fu un periodo in cui, secondo Peter Novick nel suo lavoro The Holocaust in American Life (1999) (L’Olocausto nella vita americana), ebrei, donne, neri, indigeni americani, armeni e altri rafforzarono il loro senso di identità attraverso riferimenti pubblici alle esperienze passate di oppressione. Il processo era legato al Vietnam, una guerra in cui le foto delle vittime civili - come quella della bimba che fugge dal napalm - «spiazzarono immagini tradizionali di eroismo». Il processo adesso è stato riversato sulle stesse forze militari americane. Quando i soldati non vengono denunciati come criminali implicati in scandali che riguardano l’abuso dei prigionieri, i media sembrano sentirsi a loro agio nel descrivere le truppe americane come delle vittime loro stesse. Vittime di una strategia politica fallimentare per l’Iraq, di un cattivo sistema di riserva, e di una società che li ha fatti diventare degli assassini.
Eppure dai soldati e dai marines con cui ho passato mesi inserito in una unità di combattimento a terra, questo tipo di copertura era considerato altamente offensivo. Nei momenti in cui ci sono state azioni coraggiose sul campo di battaglia in luoghi come Falluja e Najaf, secondo l’esperto militare John Hillen, la copertura dei media di singoli episodi di soldati e marines come guerrieri-eroi è completamente assente. L’eroismo di qualcuno come Jessica Lynch è accettabile per l’orda dei giornalisti perché è unito con il suo vittimismo.
Raccontare l’eroismo militare non significa glorificare l’uccisione. La guerra è una triste realtà dell’esistenza, ma è comunque un fatto da riportare. Il comportamento eroico può essere l’indicatore del carattere di una persona e non il segno di un uomo assetato di sangue. Inoltre, le forze militari americane, attive in dozzine di Paesi ogni settimana, stanno combattendo contro il terrorismo anche lontano dai titoli dei giornali. In un piano più ampio stanno provvedendo alla creazione di uno scudo di sicurezza intorno a una civiltà globale emergente le cui istituzioni sono ancora nella loro primissima infanzia. E mentre le forze militari Usa potrebbero usare una varietà di metodi, compresi gli aiuti umanitari, nella lotta contro il terrorismo, tuttavia l’uso della forza è centrale alla loro impresa.
La separazione di sensibilità e di vedute tra le truppe americane e i reporter statunitensi venne superata, anche se per un breve periodo, nel 2003 durante l’operazione Iraqi Freedom quando una buona parte dei giornalisti inviati per raccontare la guerra si mischiò con i soldati della fanteria impegnati in un’operazione di avanzata tradizionale sul territorio iracheno. Ma dopo, quando la guerra diventò non convenzionale e prese una piega più amara, i reporter tornarono gradualmente alle loro postazioni mischiandosi alla nuova folla di giornalisti dei media globali.
I giornalisti infiltrati che usarono parole come «noi» e «nostri» nei loro reportage furono presi di mira dai critici dei media per il fatto che si sentivano tutt’uno con le truppe; ma l’uso di questa terminologia è pienamente legittima per qualsiasi americano che vive insieme ai soldati.
Quindi nella prossima guerra, mentre i mass media forniranno la prospettiva globale e cosmopolita, le truppe stesse produrranno la versione americana. Il fatto è che la maggior parte dei militari non sopportano di essere rappresentati come vittime. Ne è prova la tendenza che sta crescendo silenziosamente tra i soldati americani e i marines di scrivere a proposito delle loro esperienze da soli e di spedirle come diari su internet piuttosto che vedere le loro vicissitudini interpretate da giornalisti transnazionali.
Quasi tutte le truppe hanno il loro portatile e possono accedere a degli internet café. La prospettiva americana non ignora il problema e tantomeno sostiene che la situazione sia migliore di quello che sembra, però promuove le virtù guerriere e sovrasta il culto del vittimismo. Inoltre riconoscere che l’umore è buono non significa che non ci siano recriminazioni - le truppe si lamentano tutto il tempo, ci sarebbe da sospettare se non lo facessero -. Ma quello che non si affievolisce è la loro volontà di combattere.
(traduzione di Gabriela Lotto)
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