«Simboli, l’Europa non è in grado di vietare»
«Simboli, l’Europa non è in grado di vietare»
Il filosofo Todorov: manca un’idea comune, solo nell’Est svastica e falce e martello sono assimilabili
Secondo lei, professore, avrebbe senso che l’Europa mettesse fuori legge i simboli del nazismo e del comunismo? «Vietare i simboli? Mah, per la verità non ne sono affatto entusiasta... Del resto, su un argomento simile, oggi l’Europa non può certo avere reazioni comuni». Tzvetan Todorov ha sessantacinque anni, ne aveva ventiquattro quando nel ’63 lasciò Sofia e la sua Bulgaria per andare a Parigi e studiare, a proposito di simboli, filosofia del linguaggio con Roland Barthes. È uno dei massimi intellettuali europei, filosofo, studioso di letteratura, storico della cultura, critico, un uomo dall’ingegno rinascimentale che ha insegnato all’École pratique des hautes études e alla Yale University e oggi dirige il Centro di ricerca sulle arti e il linguaggio nella capitale francese. In opere come Nuovo disordine mondiale e Memoria del male, tentazione del bene , ha messo in guardia dallo zelo di chi vuole imporre la strada giusta, «come diceva Montesquieu, chi non conosce limiti è sempre tentato di oltrepassarli»: la tentazione del bene, appunto. Ora riflette con semplicità, la cadenza lenta, la voce limpida: «Vede, noi cerchiamo di compensare l’indebolimento dei legami nella nostra società moltiplicando le leggi, però questo non è necessario, anzi». Daniel Cohn-Bendit diceva al Corriere che vietare la svastica o la falce e martello non serve a nulla, «la nostra società deve smetterla di pensare di poter risolvere con dei divieti un problema grave e doloroso»... «Vero. Basta l’indignazione dell’opinione pubblica, penso al caso del principe Harry vestito con una uniforme nazista, per far nascere la richiesta di divieto. Ma la proibizione, d’altro canto, suscita la tentazione di trasgredire: si vorrà sfidare la legge senza curarsi del suo contenuto». Il rimedio rischia di essere peggiore del male? «Sì, in un certo senso sì. Temo che le proibizioni finiscano con il creare più problemi di quanti ne intendevano risolvere. E temo una moralizzazione eccessiva della nostra società, il che è opposto alla morale autentica. È meglio non fissare nella legge ciò che oggi ci appare politicamente corretto e non limitare la libertà d’espressione». André Glucksmann, sempre al Corriere , diceva che sulla falce e martello dovrebbero piuttosto decidere i Paesi dell’Est. Del resto tutto è nato in due tempi. Dopo lo scandalo del principe Harry, a Bruxelles si è fatta l’ipotesi di vietare la svastica. A quel punto due eurodeputati, il lituano Vytautas Landsbergis e l’ungherese Joszef Szajer, hanno proposto di mettere al bando anche i simboli comunisti. «Appunto. La proposta dei due eurodeputati rivela che i popoli europei non hanno la stessa storia. Solo i Paesi dell’Est sono stati sottomessi al potere sovietico e hanno potuto confrontare sulla propria pelle i misfatti dei due regimi. Per un abitante di questi Paesi, l’assimilazione dei due totalitarismi non ha nulla di sconvolgente». All’Ovest però è ben diverso... «Chiaro. In Bulgaria, per esempio, le vittime del comunismo sono assai più numerose di quelle del fascismo. Ma aspettarsi la stessa reazione in Paesi come la Francia o l’Italia è irrealistico: questi Paesi hanno sofferto il potere nazista , non comunista, e i loro comunisti hanno al contrario combattuto l’occupazione nazista». Come risponderebbe a chi, di contro all’«assimilazione» dei totalitarismi, parla invece di «unicità» del nazismo e della Shoah? «Tutti i grandi avvenimenti della storia sono unici. La morte di sei milioni di contadini ucraini, fra il 1932 e il 1933, una morte per fame pianificata dal regime sovietico, non è forse un evento unico?». E allora, che si fa? «Resta da compiere un grande lavoro di educazione, in particolare nei Paesi dell’Europa occidentale, per far capire a tutti l’ampiezza del male provocato dall’utopia comunista. L’Europa dell’Ovest deve appropriarsi della memoria dell’Europa dell’Est». Ma non per legge... «Ci mancherebbe! Non è un provvedimento legislativo a poter indicare la via giusta, piuttosto serve un’opera di educazione in senso ampio. E questo, certo, è anche una responsabilità delle donne e degli uomini che fanno politica, come lo è di coloro che lavorano nelle scuole o nei giornali». Ma lei che direbbe a un comunista o a un ex comunista occidentale? Nelle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana , per dire, si leggono parole come quelle di Albino Albico, che aveva 24 anni e faceva l’operaio fonditore: «Sono contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia». «Come dicevo, la storia dei Paesi europei dell’Est e dell’Ovest non è la stessa. Non si può certo convincere un vecchio comunista francese o semplicemente un francese a pensare che i comunisti sono stati cattivi quanto i nazisti. Per questo dicevo che non è possibile avere una posizione europea comune sui simboli». C’è un immagine, un ricordo che lei racconterebbe della sua giovinezza sotto il comunismo? «È molto difficile rispondere in poche parole. Direi che la vita in una società totalitaria oscilla tra il parossismo e l’abbandono, e il passaggio fra un momento e l’altro può essere molto facile e improvviso. Il parossismo sono le purghe, le persecuzioni. E poi c’è il quotidiano, che non è solo paura ma un clima che porta l’individuo a identificarsi con la volontà dello Stato: si fa tutto ciò che lo Stato vuole fare. Lo stesso meccanismo per cui nella Germania nazista dei cittadini comuni potevano compiere cose orribili». Ma lei, professore, a 24 anni, ha avuto la forza di andarsene... «No, non si tratta di forza, non c’è stato nulla di eroico. Io ho avuto fortuna».
Gian Guido Vecchi
Politica
Corriere
Il filosofo Todorov: manca un’idea comune, solo nell’Est svastica e falce e martello sono assimilabili
Secondo lei, professore, avrebbe senso che l’Europa mettesse fuori legge i simboli del nazismo e del comunismo? «Vietare i simboli? Mah, per la verità non ne sono affatto entusiasta... Del resto, su un argomento simile, oggi l’Europa non può certo avere reazioni comuni». Tzvetan Todorov ha sessantacinque anni, ne aveva ventiquattro quando nel ’63 lasciò Sofia e la sua Bulgaria per andare a Parigi e studiare, a proposito di simboli, filosofia del linguaggio con Roland Barthes. È uno dei massimi intellettuali europei, filosofo, studioso di letteratura, storico della cultura, critico, un uomo dall’ingegno rinascimentale che ha insegnato all’École pratique des hautes études e alla Yale University e oggi dirige il Centro di ricerca sulle arti e il linguaggio nella capitale francese. In opere come Nuovo disordine mondiale e Memoria del male, tentazione del bene , ha messo in guardia dallo zelo di chi vuole imporre la strada giusta, «come diceva Montesquieu, chi non conosce limiti è sempre tentato di oltrepassarli»: la tentazione del bene, appunto. Ora riflette con semplicità, la cadenza lenta, la voce limpida: «Vede, noi cerchiamo di compensare l’indebolimento dei legami nella nostra società moltiplicando le leggi, però questo non è necessario, anzi». Daniel Cohn-Bendit diceva al Corriere che vietare la svastica o la falce e martello non serve a nulla, «la nostra società deve smetterla di pensare di poter risolvere con dei divieti un problema grave e doloroso»... «Vero. Basta l’indignazione dell’opinione pubblica, penso al caso del principe Harry vestito con una uniforme nazista, per far nascere la richiesta di divieto. Ma la proibizione, d’altro canto, suscita la tentazione di trasgredire: si vorrà sfidare la legge senza curarsi del suo contenuto». Il rimedio rischia di essere peggiore del male? «Sì, in un certo senso sì. Temo che le proibizioni finiscano con il creare più problemi di quanti ne intendevano risolvere. E temo una moralizzazione eccessiva della nostra società, il che è opposto alla morale autentica. È meglio non fissare nella legge ciò che oggi ci appare politicamente corretto e non limitare la libertà d’espressione». André Glucksmann, sempre al Corriere , diceva che sulla falce e martello dovrebbero piuttosto decidere i Paesi dell’Est. Del resto tutto è nato in due tempi. Dopo lo scandalo del principe Harry, a Bruxelles si è fatta l’ipotesi di vietare la svastica. A quel punto due eurodeputati, il lituano Vytautas Landsbergis e l’ungherese Joszef Szajer, hanno proposto di mettere al bando anche i simboli comunisti. «Appunto. La proposta dei due eurodeputati rivela che i popoli europei non hanno la stessa storia. Solo i Paesi dell’Est sono stati sottomessi al potere sovietico e hanno potuto confrontare sulla propria pelle i misfatti dei due regimi. Per un abitante di questi Paesi, l’assimilazione dei due totalitarismi non ha nulla di sconvolgente». All’Ovest però è ben diverso... «Chiaro. In Bulgaria, per esempio, le vittime del comunismo sono assai più numerose di quelle del fascismo. Ma aspettarsi la stessa reazione in Paesi come la Francia o l’Italia è irrealistico: questi Paesi hanno sofferto il potere nazista , non comunista, e i loro comunisti hanno al contrario combattuto l’occupazione nazista». Come risponderebbe a chi, di contro all’«assimilazione» dei totalitarismi, parla invece di «unicità» del nazismo e della Shoah? «Tutti i grandi avvenimenti della storia sono unici. La morte di sei milioni di contadini ucraini, fra il 1932 e il 1933, una morte per fame pianificata dal regime sovietico, non è forse un evento unico?». E allora, che si fa? «Resta da compiere un grande lavoro di educazione, in particolare nei Paesi dell’Europa occidentale, per far capire a tutti l’ampiezza del male provocato dall’utopia comunista. L’Europa dell’Ovest deve appropriarsi della memoria dell’Europa dell’Est». Ma non per legge... «Ci mancherebbe! Non è un provvedimento legislativo a poter indicare la via giusta, piuttosto serve un’opera di educazione in senso ampio. E questo, certo, è anche una responsabilità delle donne e degli uomini che fanno politica, come lo è di coloro che lavorano nelle scuole o nei giornali». Ma lei che direbbe a un comunista o a un ex comunista occidentale? Nelle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana , per dire, si leggono parole come quelle di Albino Albico, che aveva 24 anni e faceva l’operaio fonditore: «Sono contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia». «Come dicevo, la storia dei Paesi europei dell’Est e dell’Ovest non è la stessa. Non si può certo convincere un vecchio comunista francese o semplicemente un francese a pensare che i comunisti sono stati cattivi quanto i nazisti. Per questo dicevo che non è possibile avere una posizione europea comune sui simboli». C’è un immagine, un ricordo che lei racconterebbe della sua giovinezza sotto il comunismo? «È molto difficile rispondere in poche parole. Direi che la vita in una società totalitaria oscilla tra il parossismo e l’abbandono, e il passaggio fra un momento e l’altro può essere molto facile e improvviso. Il parossismo sono le purghe, le persecuzioni. E poi c’è il quotidiano, che non è solo paura ma un clima che porta l’individuo a identificarsi con la volontà dello Stato: si fa tutto ciò che lo Stato vuole fare. Lo stesso meccanismo per cui nella Germania nazista dei cittadini comuni potevano compiere cose orribili». Ma lei, professore, a 24 anni, ha avuto la forza di andarsene... «No, non si tratta di forza, non c’è stato nulla di eroico. Io ho avuto fortuna».
Gian Guido Vecchi
Politica
Corriere
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