DocumentoCorea del Nord, il poker con l’atomica
Il DocumentoCorea del Nord, il poker con l’atomica
Ralph A. Cossa
La crisi nucleare Annunciando di possedere mezzi di distruzione di massa, il regime di Kim Jong Li ha aperto il fronte asiatico. Ecco perché se gli Usa non riusciranno a ripristinare il tavolo delle trattative, si rischia l’«effetto domino»
L a crisi nucleare in corso nella penisola coreana, che ha origine nel programma di armi nucleari della Corea del Nord, costituisce una sfida molto seria per il regime di non proliferazione e per la stabilità in Asia orientale. La crisi presenta anche una sinistra dimensione terroristica, date le prove sostanziali che organizzazioni come al Qaeda pagherebbero profumatamente per ottenere il plutonio e l’uranio altamente arricchito che la Corea del Nord asserisce di avere già estratto dalle barre di combustibile esaurito in suo possesso. Di conseguenza, l’odierna impasse nucleare mette alla prova la costruzione, se non le fondamenta, del regime di non proliferazione. Mentre i motivi e le intenzioni della Corea del Nord rimangono oggetto di dibattito, un punto è indiscutibile: un fallimento nel gestire con successo questa crisi costituirà un grave passo indietro per lo sforzo globale di fermare la diffusione di armi nucleari; potrebbe anzi incentivare una corsa ulteriore agli armamenti. La cooperazione multilaterale è essenziale, poiché siamo di fronte a un problema internazionale (piuttosto che a una questione bilaterale USA-Nord Corea o tra le due Coree). La preoccupazione crescente è che se alla Corea del Nord fosse permesso di perseguire un programma di armamento nucleare senza incorrere in sanzioni, ciò darebbe avvio a un «domino nucleare» in tutta l’Asia di nordest, con il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan che seguirebbero rapidamente i passi di Pyongyang. Ben oltre la regione, anche l’Iran sta senza dubbio seguendo con attenzione gli sviluppi nella penisola coreana. È probabile che Tokio sia in realtà l’attore regionale meno incline a seguire la Corea del Nord sulla via nucleare, purché mantenga la sua fiducia nell’ombrello nucleare americano. Se il Giappone si sentisse abbandonato da Washington in un contesto che già vede due importanti Stati nucleari a esso potenzialmente antagonisti - Cina e Russia - allora la tentazione di intraprendere la strada nucleare sarebbe molto maggiore, anche indipendentemente dalle capacità della Corea del Nord. È ancora poco chiaro se la Corea del Sud si sentirà costretta a fare altrettanto. Ma sembrano andare in questo senso le recenti rivelazioni di esperimenti nucleari in quel Paese. Ancora più preoccupante è la risposta di Taiwan. Molti a Taipei stanno già discutendo di una «opzione offensiva» in risposta alla crescente minaccia missilistica cinese. Gli Stati Uniti sono già dovuti intervenire, in passato, per bloccare i nascenti programmi nucleari sia della Corea del Sud che di Taiwan; la pressione di Washington sugli attuali governi, e la sua abilità nello scoprire le attività clandestine di entrambi, sono probabilmente diminuite, proprio mentre gli incentivi per l’acquisizione di armi nucleari sembrano crescere. Il domino nucleare asiatico. È utile tenere sempre presente che questa è una crisi indotta dalla Corea del Nord: è stata infatti avviata da una deliberata iniziativa da parte di Pyongyang - la decisione di contravvenire all’ Agreed Framework firmato a Ginevra con gli Stati Uniti nel 1994, e di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione (TNP) perseguendo un programma di arricchimento dell’uranio. Anche le responsabilità di Washington sono notevoli; ma la realtà, confermata dal mercante pakistano di armi nucleari Khan, è che le aspirazioni nucleari di Pyongyang precedono l’amministrazione Bush e il famoso discorso del presidente del gennaio 2002 sull’«asse del male». Per maggiore precisione, la fase attuale della crisi è iniziata con la visita a Pyongyang dell’assistente del segretario di Stato James Kelly nell’ottobre 2002 - il primo viaggio in Nord Corea da parte di un rappresentante dell’amministrazione Bush. Kelly, avvisando gli interlocutori nordcoreani che l’amministrazione Bush era pronta a seguire un «approccio vigoroso» alla questione, insisteva che la Corea del Nord onorasse i suoi impegni precedenti. Pyongyang rispose a Kelly, in tono di sfida, che la Corea del Nord aveva effettivamente un programma di arricchimento dell’uranio (successivamente asserì di aver soltanto manifestato «il diritto» ad averne uno). In sostanza, mentre gli Stati Uniti hanno tentato prima la via diplomatica, Pyongyang ha invece scelto immediatamente il confronto aperto. Una volta emersi i dettagli sulla missione di Kelly, Pyongyang ha aggravato la crisi, prima a parole e poi espellendo gli ispettori della International Atomic Energy Agency (IAEA) e rimuovendo le apparecchiature di monitoraggio e i sigilli posti dalla IAEA ai suoi impianti nucleari. Quando Washington rifiutò di essere «ricattata» - e cioè costretta ad avviare negoziati bilaterali - Pyongyang annunciò (ai primi di gennaio 2003) il suo ritiro dal TNP, rimise in funzione il suo reattore nucleare da cinque megawatt, e (ammettendolo apertamente) cominciò a riprocessare le barre di combustibile esaurito. Si tratta dunque di una pericolosa escalation che ha anche violato il NorthSouth Joint Denuclearization Agreement del 1992 fra le due Coree, che Pyongyang dichiarò semplicemente di considerare «annullato». La variabile terrorismo. La rimozione delle salvaguardie della IAEA, e il successivo riprocessamento, hanno reso la crisi nucleare una questione di antiterrorismo oltre che di non proliferazione, date le ben note aspirazioni di vari gruppi terroristici, soprattutto riguardo a una possibile «bomba sporca». Ciò non implica un legame tra la Corea del Nord e al Qaeda o altri gruppi terroristici internazionali, che a quanto è dato sapere non esistono. In passato, la Corea del Nord non ha finanziato il terrorismo internazionale, accontentandosi di condurlo in casa propria vista la natura del suo regime politico. Ma Pyongyang ha dimostrato una volontà di vendere «armi-tabù» a «nazioni-tabù», e ha notoriamente minacciato di vendere (oltre a sviluppare e testare) le sue armi nucleari. Simili minacce hanno favorito lo sviluppo della Proliferation Security Initiative, multinazionale a guida statunitense. Le intenzioni sudcoreane: serie ma non minacciose . Se Pyongyang sta cercando scuse per evitare il ritorno al tavolo dei negoziati, Seul gliele ha fornite con le rivelazioni dell’estate 2004 secondo cui alcuni scienziati sudcoreani, operando senza l’autorizzazione governativa, avrebbero realizzato alcuni esperimenti di arricchimento dell’uranio quattro anni fa. In un tardivo ma lodevole sforzo di dimostrare un atteggiamento di trasparenza sulla questione nucleare, Seul ha anche riconosciuto di avere compiuto alcuni limitati esperimenti con il plutonio nel 1982. La Corea del Nord, di conseguenza, ha annunciato che potrebbe non procedere con i negoziati a sei, dal momento che «le basi per le trattative sono state distrutte» dagli esperimenti nucleari segreti di Seul e dai «doppi standard sulle questioni nucleari» adottati da Washington. Da allora l’IAEA ha condotto tramite diversi team di suoi esperti una completa ispezione di tutte le strutture sudcoreane di ricerca nucleare: pur rimarcando che l’iniziale inadempienza di Seul nel denunciare i limitati esperimenti di arricchimento sollevava «serie preoccupazioni», non ha rilevato alcuna prova di un tentativo governativo di perseguire clandestinamente un programma di armi nucleari. L’episodio, incidentalmente, ha evidenziato l’importanza del protocollo addizionale del TNP, dal momento che sono state le più intrusive ispezioni previste dal regolamento che hanno spinto la Corea del Sud a indagini interne, fino alle rivelazioni in questione. In teoria, le imbarazzanti rivelazioni di Seul potrebbero davvero offrire alla Corea del Nord una via d’uscita dalla crisi, se si prendesse ad esempio il comportamento sudcoreano. Se alcuni scienziati «rinnegati» possono essere condannati per le trasgressioni di Seul, certamente un simile gruppo di «rinnegati» potrebbe essere scoperto anche in Corea del Nord; una simile scusa era stata usata nel 2002 quando Pyongyang ammise il rapimento di cittadini giapponesi. Qualche sottigliezza diplomatica, e il desiderio di entrambe le parti di fare passi avanti, porterebbero ad accettare praticamente qualsiasi scusa fornita dalla Corea del Nord, se il risultato finale fosse quello di far riemergere pienamente alla luce i programmi a base di uranio e plutonio. Un movente poco chiaro. A due anni dall’inizio della crisi, resta poco chiaro ciò che Pyongyang tenti realmente di ottenere. Sta semplicemente puntando a negoziati diretti con Washington per scambiare (ancora una volta) i suoi programmi di armi nucleari con maggiori aiuti e garanzie di sicurezza? O il regime ritiene effettivamente di dovere possedere armi nucleari ed è determinato a perseguire questa opzione a tutti i costi, fingendo intanto di volere negoziare se tutte le sue richieste fossero accolte? Solo il tempo lo dirà; ma, considerati i precedenti di Pyongyang nel prendersi gioco degli accordi passati, non sorprende che gli altri cinque Paesi coinvolti abbiano sottolineato che qualsiasi accordo finale debba includere il completo, verificabile, irreversibile smantellamento del programma militare nucleare nordcoreano. Mentre i servizi di intelligence ipotizzano che la Corea del Nord potrebbe avere già da sei a otto armi nucleari - come risultato delle attività passate e del riprocessamento recente - l’esatta estensione del suo programma di armamento resta sconosciuta. I diplomatici nordcoreani si sono vantati di avere un «potente deterrente nucleare». Ma Pyongyang ha evitato attentamente di dichiararsi formalmente uno Stato nucleare o di dare altri segnali in questo senso, quale sarebbe un test nucleare. Ha chiaro, infatti, che ciò aprirebbe la porta a un’iniziativa del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ci sono, ovviamente, alcune buone ragioni perché la Corea del Nord - fintanto che può evitare le sanzioni o la guerra - possa volere che il mondo, e più specificamente l’amministrazione Bush, pensi che essa possegga armi nucleari. In primo luogo gioca probabilmente l’idea - forse sbagliata - che il possesso di armi nucleari sia un’assicurazione contro la possibilità che il regime di Kim Jong Il possa fare la stessa fine di quello di Saddam Hussein. Si aggiunga il fatto che le minacce di sicurezza sono il principale «bene da esportazione» di Pyongyang, cioè la sola cosa che in passato ha attirato sulla Corea del Nord le attenzioni della comunità internazionale. Ma ci sono altri aspetti della questione che devono entrare nel calcolo. Il presidente sudcoreano Roh Moo-Hyun ha ripetutamente affermato che la Corea del Nord deve scegliere: o godere dei benefici offerti dalla Corea del Sud (commercio e assistenza internazionale), o procedere sulla strada del nucleare. È dunque un aut aut . Anche la Russia ha dichiarato che sarebbe costretta a riconsiderare la sua opposizione alle sanzioni se la Corea del Nord superasse la soglia nucleare, e la Cina ha ammonito con forza che un simile passo non sarebbe nell’interesse di Pyongyang. Il Giappone è pronto a seguire una linea ancora più dura. Così, la sfida del regime nordcoreano sembra consistere nell’essere sufficientemente esplicito da convincere l’amministrazione Bush che il regime possiede effettivamente armi nucleari, ma anche sufficientemente vago da non spingere i suoi vicini a ritorsioni. È un gioco pericoloso - visto che può sfuggire di mano. Se la Corea del Nord minaccia il disastro nucleare quasi quotidianamente, deve anche capire che il risultato di qualsiasi scontro frontale (sia esso nucleare o no) sarà la distruzione dello Stato nordcoreano. Washington, d’altra parte, non è alla ricerca di una soluzione militare, date le sue preoccupazioni altrove e gli alti costi in termini di vite umane qualora si dovesse ricorrere all’opzione militare. Preoccupazioni in termini di costi umani ed economici sono ancora più centrali per la Corea del Sud. Sarebbero in pochi a versare lacrime se cadesse Kim Jong Il; ma l’incertezza e i rischi connessi a un cambio di regime sembrano di gran lunga più alti dei presunti benefici. Da parte loro, Pechino e Mosca ritengono utile la Corea del Nord come Stato cuscinetto. Tutto questo crea incentivi ai negoziati a sei. Alternative vere non esistono. Lo scenario sarebbe comunque peggiore.
L’AUTOREL’ex colonnello che dalle Hawaii interpreta le trame asiatiche
Stratega militare e specialista in sicurezza nazionale, Ralph A. Cossa è un esperto dell’area del sud-est asiatico. Dal 1966 al ’93 è stato un militare, raggiungendo il grado di colonnello dell’esercito americano. Oggi è presidente del Pacific Forum CSIS , un istituto di ricerca non profit con sede a Honolulu e affiliato al Center for Strategic and International Studies di Washington . I suoi interventi appaiono regolarmente sul Japan Times , il Korean Times e l’ International Herald Tribune . Questo articolo è tratto dal numero 27 di Aspenia , la rivista dell’ Aspen Institute diretta da Marta Dassù che affronta le prospettive dello sviluppo nucleare in campo energetico e i rischi della proliferazione in campo militare. Cossa traccia il quadro della situazione creata in Asia dalla corsa agli armamenti della Corea del Nord. Nel 2002, etichettando insieme a Iran e Iraq il regime di Kim Jong Il come uno dei componenti dell’«asse del male», il presidente americano George Bush intese equiparare i tre Paesi all’alleanza nazifascista stretta da Germania, Italia e Giappone durante la seconda Guerra Mondiale. Tre anni dopo, ancora impegnati militarmente in Iraq e minacciati dall’Iran, gli Usa non sembrano intenzionati ad aprire una nuova crisi diplomatica. Nella foto, una manifestazione dell’esercito nordcoreano a Pyongyang.
dal Corriere di sabato 12 febbario 2005
Ralph A. Cossa
La crisi nucleare Annunciando di possedere mezzi di distruzione di massa, il regime di Kim Jong Li ha aperto il fronte asiatico. Ecco perché se gli Usa non riusciranno a ripristinare il tavolo delle trattative, si rischia l’«effetto domino»
L a crisi nucleare in corso nella penisola coreana, che ha origine nel programma di armi nucleari della Corea del Nord, costituisce una sfida molto seria per il regime di non proliferazione e per la stabilità in Asia orientale. La crisi presenta anche una sinistra dimensione terroristica, date le prove sostanziali che organizzazioni come al Qaeda pagherebbero profumatamente per ottenere il plutonio e l’uranio altamente arricchito che la Corea del Nord asserisce di avere già estratto dalle barre di combustibile esaurito in suo possesso. Di conseguenza, l’odierna impasse nucleare mette alla prova la costruzione, se non le fondamenta, del regime di non proliferazione. Mentre i motivi e le intenzioni della Corea del Nord rimangono oggetto di dibattito, un punto è indiscutibile: un fallimento nel gestire con successo questa crisi costituirà un grave passo indietro per lo sforzo globale di fermare la diffusione di armi nucleari; potrebbe anzi incentivare una corsa ulteriore agli armamenti. La cooperazione multilaterale è essenziale, poiché siamo di fronte a un problema internazionale (piuttosto che a una questione bilaterale USA-Nord Corea o tra le due Coree). La preoccupazione crescente è che se alla Corea del Nord fosse permesso di perseguire un programma di armamento nucleare senza incorrere in sanzioni, ciò darebbe avvio a un «domino nucleare» in tutta l’Asia di nordest, con il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan che seguirebbero rapidamente i passi di Pyongyang. Ben oltre la regione, anche l’Iran sta senza dubbio seguendo con attenzione gli sviluppi nella penisola coreana. È probabile che Tokio sia in realtà l’attore regionale meno incline a seguire la Corea del Nord sulla via nucleare, purché mantenga la sua fiducia nell’ombrello nucleare americano. Se il Giappone si sentisse abbandonato da Washington in un contesto che già vede due importanti Stati nucleari a esso potenzialmente antagonisti - Cina e Russia - allora la tentazione di intraprendere la strada nucleare sarebbe molto maggiore, anche indipendentemente dalle capacità della Corea del Nord. È ancora poco chiaro se la Corea del Sud si sentirà costretta a fare altrettanto. Ma sembrano andare in questo senso le recenti rivelazioni di esperimenti nucleari in quel Paese. Ancora più preoccupante è la risposta di Taiwan. Molti a Taipei stanno già discutendo di una «opzione offensiva» in risposta alla crescente minaccia missilistica cinese. Gli Stati Uniti sono già dovuti intervenire, in passato, per bloccare i nascenti programmi nucleari sia della Corea del Sud che di Taiwan; la pressione di Washington sugli attuali governi, e la sua abilità nello scoprire le attività clandestine di entrambi, sono probabilmente diminuite, proprio mentre gli incentivi per l’acquisizione di armi nucleari sembrano crescere. Il domino nucleare asiatico. È utile tenere sempre presente che questa è una crisi indotta dalla Corea del Nord: è stata infatti avviata da una deliberata iniziativa da parte di Pyongyang - la decisione di contravvenire all’ Agreed Framework firmato a Ginevra con gli Stati Uniti nel 1994, e di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione (TNP) perseguendo un programma di arricchimento dell’uranio. Anche le responsabilità di Washington sono notevoli; ma la realtà, confermata dal mercante pakistano di armi nucleari Khan, è che le aspirazioni nucleari di Pyongyang precedono l’amministrazione Bush e il famoso discorso del presidente del gennaio 2002 sull’«asse del male». Per maggiore precisione, la fase attuale della crisi è iniziata con la visita a Pyongyang dell’assistente del segretario di Stato James Kelly nell’ottobre 2002 - il primo viaggio in Nord Corea da parte di un rappresentante dell’amministrazione Bush. Kelly, avvisando gli interlocutori nordcoreani che l’amministrazione Bush era pronta a seguire un «approccio vigoroso» alla questione, insisteva che la Corea del Nord onorasse i suoi impegni precedenti. Pyongyang rispose a Kelly, in tono di sfida, che la Corea del Nord aveva effettivamente un programma di arricchimento dell’uranio (successivamente asserì di aver soltanto manifestato «il diritto» ad averne uno). In sostanza, mentre gli Stati Uniti hanno tentato prima la via diplomatica, Pyongyang ha invece scelto immediatamente il confronto aperto. Una volta emersi i dettagli sulla missione di Kelly, Pyongyang ha aggravato la crisi, prima a parole e poi espellendo gli ispettori della International Atomic Energy Agency (IAEA) e rimuovendo le apparecchiature di monitoraggio e i sigilli posti dalla IAEA ai suoi impianti nucleari. Quando Washington rifiutò di essere «ricattata» - e cioè costretta ad avviare negoziati bilaterali - Pyongyang annunciò (ai primi di gennaio 2003) il suo ritiro dal TNP, rimise in funzione il suo reattore nucleare da cinque megawatt, e (ammettendolo apertamente) cominciò a riprocessare le barre di combustibile esaurito. Si tratta dunque di una pericolosa escalation che ha anche violato il NorthSouth Joint Denuclearization Agreement del 1992 fra le due Coree, che Pyongyang dichiarò semplicemente di considerare «annullato». La variabile terrorismo. La rimozione delle salvaguardie della IAEA, e il successivo riprocessamento, hanno reso la crisi nucleare una questione di antiterrorismo oltre che di non proliferazione, date le ben note aspirazioni di vari gruppi terroristici, soprattutto riguardo a una possibile «bomba sporca». Ciò non implica un legame tra la Corea del Nord e al Qaeda o altri gruppi terroristici internazionali, che a quanto è dato sapere non esistono. In passato, la Corea del Nord non ha finanziato il terrorismo internazionale, accontentandosi di condurlo in casa propria vista la natura del suo regime politico. Ma Pyongyang ha dimostrato una volontà di vendere «armi-tabù» a «nazioni-tabù», e ha notoriamente minacciato di vendere (oltre a sviluppare e testare) le sue armi nucleari. Simili minacce hanno favorito lo sviluppo della Proliferation Security Initiative, multinazionale a guida statunitense. Le intenzioni sudcoreane: serie ma non minacciose . Se Pyongyang sta cercando scuse per evitare il ritorno al tavolo dei negoziati, Seul gliele ha fornite con le rivelazioni dell’estate 2004 secondo cui alcuni scienziati sudcoreani, operando senza l’autorizzazione governativa, avrebbero realizzato alcuni esperimenti di arricchimento dell’uranio quattro anni fa. In un tardivo ma lodevole sforzo di dimostrare un atteggiamento di trasparenza sulla questione nucleare, Seul ha anche riconosciuto di avere compiuto alcuni limitati esperimenti con il plutonio nel 1982. La Corea del Nord, di conseguenza, ha annunciato che potrebbe non procedere con i negoziati a sei, dal momento che «le basi per le trattative sono state distrutte» dagli esperimenti nucleari segreti di Seul e dai «doppi standard sulle questioni nucleari» adottati da Washington. Da allora l’IAEA ha condotto tramite diversi team di suoi esperti una completa ispezione di tutte le strutture sudcoreane di ricerca nucleare: pur rimarcando che l’iniziale inadempienza di Seul nel denunciare i limitati esperimenti di arricchimento sollevava «serie preoccupazioni», non ha rilevato alcuna prova di un tentativo governativo di perseguire clandestinamente un programma di armi nucleari. L’episodio, incidentalmente, ha evidenziato l’importanza del protocollo addizionale del TNP, dal momento che sono state le più intrusive ispezioni previste dal regolamento che hanno spinto la Corea del Sud a indagini interne, fino alle rivelazioni in questione. In teoria, le imbarazzanti rivelazioni di Seul potrebbero davvero offrire alla Corea del Nord una via d’uscita dalla crisi, se si prendesse ad esempio il comportamento sudcoreano. Se alcuni scienziati «rinnegati» possono essere condannati per le trasgressioni di Seul, certamente un simile gruppo di «rinnegati» potrebbe essere scoperto anche in Corea del Nord; una simile scusa era stata usata nel 2002 quando Pyongyang ammise il rapimento di cittadini giapponesi. Qualche sottigliezza diplomatica, e il desiderio di entrambe le parti di fare passi avanti, porterebbero ad accettare praticamente qualsiasi scusa fornita dalla Corea del Nord, se il risultato finale fosse quello di far riemergere pienamente alla luce i programmi a base di uranio e plutonio. Un movente poco chiaro. A due anni dall’inizio della crisi, resta poco chiaro ciò che Pyongyang tenti realmente di ottenere. Sta semplicemente puntando a negoziati diretti con Washington per scambiare (ancora una volta) i suoi programmi di armi nucleari con maggiori aiuti e garanzie di sicurezza? O il regime ritiene effettivamente di dovere possedere armi nucleari ed è determinato a perseguire questa opzione a tutti i costi, fingendo intanto di volere negoziare se tutte le sue richieste fossero accolte? Solo il tempo lo dirà; ma, considerati i precedenti di Pyongyang nel prendersi gioco degli accordi passati, non sorprende che gli altri cinque Paesi coinvolti abbiano sottolineato che qualsiasi accordo finale debba includere il completo, verificabile, irreversibile smantellamento del programma militare nucleare nordcoreano. Mentre i servizi di intelligence ipotizzano che la Corea del Nord potrebbe avere già da sei a otto armi nucleari - come risultato delle attività passate e del riprocessamento recente - l’esatta estensione del suo programma di armamento resta sconosciuta. I diplomatici nordcoreani si sono vantati di avere un «potente deterrente nucleare». Ma Pyongyang ha evitato attentamente di dichiararsi formalmente uno Stato nucleare o di dare altri segnali in questo senso, quale sarebbe un test nucleare. Ha chiaro, infatti, che ciò aprirebbe la porta a un’iniziativa del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ci sono, ovviamente, alcune buone ragioni perché la Corea del Nord - fintanto che può evitare le sanzioni o la guerra - possa volere che il mondo, e più specificamente l’amministrazione Bush, pensi che essa possegga armi nucleari. In primo luogo gioca probabilmente l’idea - forse sbagliata - che il possesso di armi nucleari sia un’assicurazione contro la possibilità che il regime di Kim Jong Il possa fare la stessa fine di quello di Saddam Hussein. Si aggiunga il fatto che le minacce di sicurezza sono il principale «bene da esportazione» di Pyongyang, cioè la sola cosa che in passato ha attirato sulla Corea del Nord le attenzioni della comunità internazionale. Ma ci sono altri aspetti della questione che devono entrare nel calcolo. Il presidente sudcoreano Roh Moo-Hyun ha ripetutamente affermato che la Corea del Nord deve scegliere: o godere dei benefici offerti dalla Corea del Sud (commercio e assistenza internazionale), o procedere sulla strada del nucleare. È dunque un aut aut . Anche la Russia ha dichiarato che sarebbe costretta a riconsiderare la sua opposizione alle sanzioni se la Corea del Nord superasse la soglia nucleare, e la Cina ha ammonito con forza che un simile passo non sarebbe nell’interesse di Pyongyang. Il Giappone è pronto a seguire una linea ancora più dura. Così, la sfida del regime nordcoreano sembra consistere nell’essere sufficientemente esplicito da convincere l’amministrazione Bush che il regime possiede effettivamente armi nucleari, ma anche sufficientemente vago da non spingere i suoi vicini a ritorsioni. È un gioco pericoloso - visto che può sfuggire di mano. Se la Corea del Nord minaccia il disastro nucleare quasi quotidianamente, deve anche capire che il risultato di qualsiasi scontro frontale (sia esso nucleare o no) sarà la distruzione dello Stato nordcoreano. Washington, d’altra parte, non è alla ricerca di una soluzione militare, date le sue preoccupazioni altrove e gli alti costi in termini di vite umane qualora si dovesse ricorrere all’opzione militare. Preoccupazioni in termini di costi umani ed economici sono ancora più centrali per la Corea del Sud. Sarebbero in pochi a versare lacrime se cadesse Kim Jong Il; ma l’incertezza e i rischi connessi a un cambio di regime sembrano di gran lunga più alti dei presunti benefici. Da parte loro, Pechino e Mosca ritengono utile la Corea del Nord come Stato cuscinetto. Tutto questo crea incentivi ai negoziati a sei. Alternative vere non esistono. Lo scenario sarebbe comunque peggiore.
L’AUTOREL’ex colonnello che dalle Hawaii interpreta le trame asiatiche
Stratega militare e specialista in sicurezza nazionale, Ralph A. Cossa è un esperto dell’area del sud-est asiatico. Dal 1966 al ’93 è stato un militare, raggiungendo il grado di colonnello dell’esercito americano. Oggi è presidente del Pacific Forum CSIS , un istituto di ricerca non profit con sede a Honolulu e affiliato al Center for Strategic and International Studies di Washington . I suoi interventi appaiono regolarmente sul Japan Times , il Korean Times e l’ International Herald Tribune . Questo articolo è tratto dal numero 27 di Aspenia , la rivista dell’ Aspen Institute diretta da Marta Dassù che affronta le prospettive dello sviluppo nucleare in campo energetico e i rischi della proliferazione in campo militare. Cossa traccia il quadro della situazione creata in Asia dalla corsa agli armamenti della Corea del Nord. Nel 2002, etichettando insieme a Iran e Iraq il regime di Kim Jong Il come uno dei componenti dell’«asse del male», il presidente americano George Bush intese equiparare i tre Paesi all’alleanza nazifascista stretta da Germania, Italia e Giappone durante la seconda Guerra Mondiale. Tre anni dopo, ancora impegnati militarmente in Iraq e minacciati dall’Iran, gli Usa non sembrano intenzionati ad aprire una nuova crisi diplomatica. Nella foto, una manifestazione dell’esercito nordcoreano a Pyongyang.
dal Corriere di sabato 12 febbario 2005
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