Ma Sgalambro ha torto su Sciascia e mafia
DIBATTITO
Il figlio del giornalista assassinato contesta gli «intellettuali da granita»
Ma Sgalambro ha torto su Sciascia e mafia
di CLAUDIO FAVA
Eppure dovremmo averlo capito che la mafia si nutre dei nostri paradossi. I calembour, gli ammiccamenti, i giochi di parole, certi micidiali ossimori… L’ultimo, il più inflazionato, ce l’ha riproposto Sgalambro sul Corriere di venerdì: la mafia dà lavoro, è la vera fonte di ricchezza per la Sicilia. E certi personaggi della terra di mezzo, quei cavalieri di Catania felici di stringere patti con il diavolo pur di collezionare appalti, erano la sola economia possibile. Peccato, dice Sgalambro, che furono eliminati «moralisticamente». Si tratta di vecchie pose retoriche. Che la mafia dia lavoro e distribuisca piccioli al popolo lo diceva anche Vito Ciancimino, negli anni in cui i suoi descamisados venivano mandati ogni mattina a far rumore davanti al municipio di Palermo. E in certi circoli perbene di Catania c’è sempre un brindisi alla memoria dei cavalieri (che non furono eliminati: fallirono, quando appresero dai giudici che gli appalti bisognava vincerli, non comprarli). Uno dei nostri problemi è questa figura letteraria d’intellettuale alla granita: un tavolino che s’affaccia sulle pietre laviche della via Etnea, la brioche calda di forno, le mandorla e i gelsi con uno spruzzo di panna e poi giù, a benedire e rimestare come se si fosse al palco buono della lirica: i mafiosi e gli antimafiosi, i piagnoni e i malacarne… La verità ha tinte più dimesse, immagini slabbrate, verità brevi. Quell’Ercolano, per esempio, il vice di Santapaola che hanno arrestato una settimana fa. Dice Sgalambro che basta guardarlo per capire che è solo una caricatura del male, così vecchio, così sbilenco… Certo, ci si può limitare a questo, un’estetica della mafia, come ai tempi dei Beati Paoli. Altrimenti c’è la cronaca. E cioè la solerzia mafiosa con cui quel vecchio e la sua famiglia controllano da vent’anni l’80 per cento dei cantieri edili della Sicilia Orientale: tutti i movimenti, centinaia di subappalti in nero, giro d’affari da milioni di euro. Il vecchio Ercolano, di venir bene nelle foto segnaletiche - con rispetto parlando - se ne fotteva. Lui faceva soldi, non defilé. È questo il punto. Andare oltre la linea delle granite e accettare di sporcarsi le mani con la verità delle cose non è un hobby da gentiluomini. Ma è l’unico modo per capire di quali vizi siamo figli. E in questo Sciascia c’era d’aiuto. Non perché insegnasse, come dice Sgalambro, le buone maniere: al contrario, Sciascia raccontava le cattive maniere, l’indole reticente, il gusto di non dire mai, l’obliquità della Sicilia. E di fronte a un ceffo come Ercolano, Sciascia non si sarebbe fermato al suo profilo plebeo, che è esercizio facile ma inutile: avrebbe riconosciuto, dietro quello sguardo, la magnificenza di un potere mafioso che non verrà mai scalfito solo dalle manette. Ogni anno l’economia siciliana paga a Cosa nostra una tassa da sette miliardi di euro. Per simmetria, la Sicilia è all’ultimo posto in Europa per investimenti sull’innovazione e la ricerca, e al primo per la disoccupazione giovanile. Un quarto delle famiglie oggi vivono sotto la soglia della povertà, i treni viaggiano alla stessa velocità della Napoli-Portici del 1836 e intanto le campagne crepano di sete per aver permesso ai mafiosi e ai loro amici, negli anni dell’impunità, di costruire mezza dozzina di dighe mescolando sabbia al cemento: crepate e abbandonate il giorno stesso dell’inaugurazione. È questa l’economia mafiosa. Cioè l’accumulazione parassitaria di profitti inimmaginabili nelle mani di pochi, proprio come accade nei malandati vicereami dell’America Latina dove il due per cento della popolazione possiede il 90 per cento delle terre. Quando i cavalieri di Catania erano all’apice della loro gloria, c’era un assessore regionale, uno che tenevano sui libri paga, che dispensava ogni anno metà dei fondi regionali per l’agricoltura alle sole aziende di quei quattro signori. Gli altri trentamila agricoltori siciliani dovevano arrangiarsi con quello che rimaneva. Feudalesimo mafioso, altro che ricchezza! Solo che a raccontare tutto questo, con nomi e cognomi, non si fa filosofia: si fa la storia. Che laggiù puzza, è sporca, ha l’alito pesante delle troppe parole ingoiate. Eccoci alla linea delle granite: se non la oltrepassi, campi cent’anni. Ma non capirai mai un accidente. E a quel punto, come lascia intendere Sgalambro, tanto vale dedicare una piazza di Chicago ad Al Capone. E intitolare a Santapaola il lungomare di Catania.
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Il figlio del giornalista assassinato contesta gli «intellettuali da granita»
Ma Sgalambro ha torto su Sciascia e mafia
di CLAUDIO FAVA
Eppure dovremmo averlo capito che la mafia si nutre dei nostri paradossi. I calembour, gli ammiccamenti, i giochi di parole, certi micidiali ossimori… L’ultimo, il più inflazionato, ce l’ha riproposto Sgalambro sul Corriere di venerdì: la mafia dà lavoro, è la vera fonte di ricchezza per la Sicilia. E certi personaggi della terra di mezzo, quei cavalieri di Catania felici di stringere patti con il diavolo pur di collezionare appalti, erano la sola economia possibile. Peccato, dice Sgalambro, che furono eliminati «moralisticamente». Si tratta di vecchie pose retoriche. Che la mafia dia lavoro e distribuisca piccioli al popolo lo diceva anche Vito Ciancimino, negli anni in cui i suoi descamisados venivano mandati ogni mattina a far rumore davanti al municipio di Palermo. E in certi circoli perbene di Catania c’è sempre un brindisi alla memoria dei cavalieri (che non furono eliminati: fallirono, quando appresero dai giudici che gli appalti bisognava vincerli, non comprarli). Uno dei nostri problemi è questa figura letteraria d’intellettuale alla granita: un tavolino che s’affaccia sulle pietre laviche della via Etnea, la brioche calda di forno, le mandorla e i gelsi con uno spruzzo di panna e poi giù, a benedire e rimestare come se si fosse al palco buono della lirica: i mafiosi e gli antimafiosi, i piagnoni e i malacarne… La verità ha tinte più dimesse, immagini slabbrate, verità brevi. Quell’Ercolano, per esempio, il vice di Santapaola che hanno arrestato una settimana fa. Dice Sgalambro che basta guardarlo per capire che è solo una caricatura del male, così vecchio, così sbilenco… Certo, ci si può limitare a questo, un’estetica della mafia, come ai tempi dei Beati Paoli. Altrimenti c’è la cronaca. E cioè la solerzia mafiosa con cui quel vecchio e la sua famiglia controllano da vent’anni l’80 per cento dei cantieri edili della Sicilia Orientale: tutti i movimenti, centinaia di subappalti in nero, giro d’affari da milioni di euro. Il vecchio Ercolano, di venir bene nelle foto segnaletiche - con rispetto parlando - se ne fotteva. Lui faceva soldi, non defilé. È questo il punto. Andare oltre la linea delle granite e accettare di sporcarsi le mani con la verità delle cose non è un hobby da gentiluomini. Ma è l’unico modo per capire di quali vizi siamo figli. E in questo Sciascia c’era d’aiuto. Non perché insegnasse, come dice Sgalambro, le buone maniere: al contrario, Sciascia raccontava le cattive maniere, l’indole reticente, il gusto di non dire mai, l’obliquità della Sicilia. E di fronte a un ceffo come Ercolano, Sciascia non si sarebbe fermato al suo profilo plebeo, che è esercizio facile ma inutile: avrebbe riconosciuto, dietro quello sguardo, la magnificenza di un potere mafioso che non verrà mai scalfito solo dalle manette. Ogni anno l’economia siciliana paga a Cosa nostra una tassa da sette miliardi di euro. Per simmetria, la Sicilia è all’ultimo posto in Europa per investimenti sull’innovazione e la ricerca, e al primo per la disoccupazione giovanile. Un quarto delle famiglie oggi vivono sotto la soglia della povertà, i treni viaggiano alla stessa velocità della Napoli-Portici del 1836 e intanto le campagne crepano di sete per aver permesso ai mafiosi e ai loro amici, negli anni dell’impunità, di costruire mezza dozzina di dighe mescolando sabbia al cemento: crepate e abbandonate il giorno stesso dell’inaugurazione. È questa l’economia mafiosa. Cioè l’accumulazione parassitaria di profitti inimmaginabili nelle mani di pochi, proprio come accade nei malandati vicereami dell’America Latina dove il due per cento della popolazione possiede il 90 per cento delle terre. Quando i cavalieri di Catania erano all’apice della loro gloria, c’era un assessore regionale, uno che tenevano sui libri paga, che dispensava ogni anno metà dei fondi regionali per l’agricoltura alle sole aziende di quei quattro signori. Gli altri trentamila agricoltori siciliani dovevano arrangiarsi con quello che rimaneva. Feudalesimo mafioso, altro che ricchezza! Solo che a raccontare tutto questo, con nomi e cognomi, non si fa filosofia: si fa la storia. Che laggiù puzza, è sporca, ha l’alito pesante delle troppe parole ingoiate. Eccoci alla linea delle granite: se non la oltrepassi, campi cent’anni. Ma non capirai mai un accidente. E a quel punto, come lascia intendere Sgalambro, tanto vale dedicare una piazza di Chicago ad Al Capone. E intitolare a Santapaola il lungomare di Catania.
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