Wednesday, January 12, 2005

Petrolieri cinesi e indiani si contendono il mercato

Petrolieri cinesi e indiani si contendono il mercato Tra 10 anni lo guideranno
Primi obiettivi: Andamane, Birmania e Bangladesh. Ma si gareggia anche attorno a Teheran e alla russa Yukos
Roma. Le Isole Andamane? Finora note a pochi turisti, alla ricerca del sempre più esotico, sono tristemente venute alla ribalta perché investite dallo tsunami. Ne sentiremo ancora parlare, perché nel mare che da esse prende il nome, al largo della Birmania, sono stati scoperti giacimenti sottomarini di gas naturale ed è cominciata la caccia per assicurarsi il loro sfruttamento. La corsa è guidata dall’India. Il giacimento di Shwe, scoperto lo scorso anno, sembra avere riserve pari a 14 trilioni di piedi cubi. A queste si aggiungono quelle del vicino Bangladesh: oltre 15 trilioni, con altri 32 molto probabili. L’India guarda a questi giacimenti per soddisfare il suo bisogno di energia e le implicazioni politiche delle prospettive economiche non mancano. L’obiettivo di New Delhi è di attivare un gasdotto attraverso il confinante Bangladesh, ma a Dhaka, la capitale, sono prudenti, soprattutto per non rischiare di cadere nella dipendenza dal grande vicino. La Birmania (Myanmar), dove a Rangoon (Yangon) è sempre agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, la battagliera leader e premio Nobel per la pace che si oppone alla giunta militare, ha poca voglia di aprire il paese a uno stretto rapporto con l’India, che è la più grande democrazia asiatica. Teme il contagio, ma è ormai questione di tempo. Il petrolio, e tutto quello che ne segue, bussa alle porte e New Delhi ha fretta. Gli imperativi economici dell’India, che nel 2004 ha avuto un aumento del pil pari al 7,4 per cento, sono prioritari; ma essa guarda con sempre maggiore attenzione alla creazione di un’area d’influenza economico-politica. Bloccata a ovest dal Pakistan, attraverso il cui territorio New Delhi vorrebbe fortemente che passasse un oleodotto proveniente dall’area del Caspio-Caucaso, l’India trova un “ventre molle” a est, in direzione del Bangladesh e di Myanmar, dove però tutta la prospettiva è vista in modo opposto, cioè come destino di sudditanza. Da qui le loro reticenze, ma anche la considerazione che si affacciano sull’Oceano Indiano, e non sul Pacifico. Così l’India fa balenare ai suoi vicini proprio la prospettiva di uscire dall’isolamento e di sfruttare anche a proprio vantaggio l’avvio di una consistente estrazione di gas naturale. Ma c’è chi non sta a guardare. Si tratta della Cina, fino a poco tempo fa considerata la nazione più assetata di petrolio e causa principale degli aumenti del prezzo del greggio negli ultimi mesi. E proprio Pechino a Rangoon ha solide basi di antica amicizia, specie nelle alte sfere delle Forze armate, quindi guarda con sospetto i sempre più insistenti approcci dell’India. Anche la Cina accarezza l’idea di consolidare una zona di influenza economica. Non possono trascurare il Giappone Forse non ha torto chi individua nella competizione India-Cina la ripetizione, a un po’ più di un secolo di distanza, del Grande Gioco tra Gran Bretagna e Russia, che dominò nella seconda metà dell’Ottocento fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Da anni Cina e India ostentano buone relazioni e New Delhi vorrebbe accrescere la sua presenza in Myanmar senza assumere un atteggiamento competitivo con Pechino, affermando di volersi limitare al settore degli idrocarburi. Che è però un terreno incendiario perché, ormai, i due paesi competono proprio per assicurarsi approvvigionamenti sicuri. E non possono trascurare il Giappone, che in prospettiva beneficerà dell’oleodotto che Mosca ha deciso di tracciare secondo i desideri di Tokyo. Questi tre paesi sono i maggiori consumatori di petrolio e la produzione asiatica copre appena il 10 per cento del fabbisogno e per il momento soddisfa un quarto del totale con le importazioni dal medio oriente. I produttori, come Malaysia e Indonesia e la stessa Cina, approfittando dell’aumento del greggio a partire dalla seconda metà del 2003, ne hanno esportato per incassare valuta, ma all’interno hanno avuto un aumento dei prezzi. Se il meccanismo dovesse perdurare, ne risentirebbe il loro sviluppo, in misura doppia rispetto ai paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). C’è inoltre un fattore strutturale da considerare. L’industria manifatturiera di questi paesi, rispetto a quelli occidentali globalmente più avanzati sul piano tecnologico, consuma circa il doppio di energia per ogni unità di prodotto. La produzione industriale dell’India è cresciuta del 10,1 per cento nel 2004 rispetto all’anno precedente, ma ha pagato una bolletta petrolifera di 15 miliardi di dollari, ovvero il 3 per cento del Pil del 2003, mentre l’inflazione è salita al 4,6 per cento. Se il prezzo del greggio rimarrà di 40 dollari al barile per tutto quest’anno, per i paesi asiatici, escluso il Giappone, l’inflazione aumenterà dell’1 per cento, l’aumento del Pil sarà decurtato dello 0,8 per cento e la bolletta petrolifera sfiorerà i 29 miliardi di dollari. L’unico vantaggio resta la debolezza del dollaro. Tutto questo spiega perché India e Cina, che sono entrate nel ciclo dello sviluppo sempre più intensivo delle loro economie, finiscono oggettivamente per farsi concorrenza in tema di approvvigionamenti di greggio e rischiano di scontrarsi proprio sulle aree asiatiche in cui sono state scoperte le riserve più promettenti, come i campi offshore di Myanmar e del Bangladesh. Ieri, il ministro indiano per il Petrolio, Mani Shankar Aiyar, ha dichiarato al Financial Times che i tre paesi avevano raggiunto uno stadio da cui potevano partire concreti negoziati. New Delhi ha un po’ giocato a mettere i due Stati uno contro l’altro: rafforzando i legami con Myanmar, ha costretto il Bangladesh a trattare sulla questione del gasdotto su cui potrebbe inserire anche la propria produzione. Oggi il ministro sarà in visita a Myanmar e si recherà nella stazione offshore, del resto parzialmente scoperta dalla compagnia pubblica Gas India Limited. Nel 2025, l’India prevede che il suo fabbisogno di gas sarà di 400 milioni di metri cubi al giorno e, in alternativa al gasdotto attraverso il Bangladesh, studia una soluzione sottomarina attraverso il Golfo del Bengala; oppure un percorso terrestre dal territorio birmano fino allo Stato nord-orientale di Mizoran. Intanto, bisogna accontentarsi di ciò che offre il mercato. Lo scorso 8 gennaio, l’India ha firmato un contratto di 25 anni con la National Iranian Gas Export Corp., che scatterà dal 2009, e altri per l’esplorazione in suolo iraniano di tre nuovi campi petroliferi. La Cina non sta a guardare ed entro gennaio dovrebbe concludere un accordo con il Canada per investimenti nella provincia di Alberta. E si parla anche della China National Offshore Oil Corp. come interessata all’acquisto della Unocal Corp., nona società americana per riserve. Senza contare che entrambi i paesi sono sollecitati a entrare nella Yuganskneftegaz, unità della Yukos. Anche perché Vladimir Putin pensa che la Russia – paese europeo e asiatico con sbocco sul Pacifico – ha diritto a una sua area d’influenza. Lo storico del petrolio Daniel Yergin ha detto che entro i prossimi dieci anni le società petrolifere cinesi e indiane si collocheranno ai primi posti dell’industria petrolifera mondiale. Purché il petrolio serva allo sviluppo.
(12/01/2005

http://www.ilfoglio.it/articolo.php?idoggetto=20572

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