Come l'Africa rappresenta se stessa attraverso i media
Come l'Africa rappresenta se stessa attraverso i media Il caso del Kenya.
Una ricerca dell'Osservatorio su comunicazione e Africa del dipartimento della comunicazione di Siena Evidente sudditanza al modello di informazione occidentale. A cui si aggiunge il problema dei costi. Guerre e Aids i temi più trattati
GERALDINA COLOTTISIENA
In che modo l'Africa rappresenta se stessa attraverso i media? In che modo influisce «lo sguardo occidentale»? Per due mesi, l'Osservatorio su comunicazione e Africa - promosso dal dipartimento di Scienze della comunicazione di Siena - ha condotto una ricerca sul tema, presentata ieri all'università da docenti e africanisti. Paese campione, il Kenya, sede della ong Amref - una organizzazione non governativa che lavora «per e con gli africani» attraverso progetti sanitari e di sviluppo locale -, partner in questo lavoro. Dal 22 ottobre al 16 novembre 2004, l'indagine - che integra quella, svolta in parallelo, sulla percezione dell'Africa nella stampa italiana - ha considerato i tre principali giornali kenioti: The Daily Nation, The Standard, The East African, due quotidiani e un settimanale economico. In un continente di lunga tradizione orale, in cui il mezzo più seguito resta la radio, il Kenya ha intrecciato la sua storia recente con la carta stampata. Durante la dominazione inglese, l'informazione si occupava principalmente degli affari economici e politici dei coloni. Ma, in parallelo, altri quotidiani si diffondevano fra la popolazione, trasformandosi in giornali «grafici» per sfuggire alla censura. Pagine che risultarono determinanti per il movimento Mau Mau, chiave dell'indipendenza ottenuta nel 1963. In qualche modo erede di quelle pubblicazioni alternative è oggi la stampa di strada - la Gutter press. Un canale sempre più diffuso (a Nairobi bastano 130 dollari per aprire una redazione) a fianco dei grandi media che restano a tutt'oggi nelle mani dei privati. The Daily Nation, è stato fondato nel `59 dall'Aga Khan, ricchissimo capo spirituale dei musulmani ismailiti, e oggi è il primo giornale. The Standard, fondato nel 1902 da un immigrato indiano e acquistato nel `67 dalla multinazionale inglese Lonhro, ha come azionista anche l'ex-presidente Arap Moi del partito Kanu. The East African, settimanale economico modello tabloid, ha una sede in Tanzania e un'altra a Kampala, in Uganda, e appartiene al gruppo di The Nation. Sia Jomo Kenyatta, primo presidente della repubblica dal `64 al `78, che il successore Daniel Arap Moi, determinante fino al 2002, avevano frequentato il giornalismo. E ciò può avere avuto qualche influenza in un paese che, fino agli anni `80, veniva considerato un modello di libertà di stampa in Africa. Oggi, dice la ricerca, appare evidente la «sudditanza al modello d'informazione occidentale». Il totale di articoli dedicati a paesi non africani è 1163 per tutte e tre le testate, ovvero il 17.6% del totale. Nei due quotidiani, il secondo posto va all'Europa, mentre l'East African le dedica solo l'1.3% degli articoli. Il 3.3% riguarda il nord America. Però, la maggioranza dell'informazione sul vecchio continente consiste in notizie brevi o di sport, dispacci di agenzia provenienti non dall'africana Panapress, ma dalle agenzie internazionali come Reuters, Ap e Afp: perché gli inviati costano e per mancanza di una strategia editoriale autonoma. Anche nei giornali kenioti vale il criterio di vicinanza (culturale, geografica o di interessi) nella selezione delle notizie: l'Africa occupa dunque dall'80% al 94% dello spazio. Ma con quali notizie? Particolarmente seguiti i fatti di cronaca e le storie «di riscatto» sociale.Ma, per facilitare il confronto con i risultati della ricerca condotta sulla stampa italiana, l'analisi qualitativa degli articoli si è concentrata sui temi che più concorrono a determinare l'immagine dell'Africa percepita in occidente, guerra e aids. Il monitoraggio ha registrato circa 95 articoli in merito a conflitti in corso o questioni interrelate. Una percentuale importante. L'aids, che colpisce quasi il 14% della popolazione adulta e ha già provocato 600.000 orfani è questione a cui la stampa - invertendo la tendenza a nascondere durata decenni - dedica maggior spazio e attenzione. Ma altri dati riguardano ambiente, diritti umani, libertà delle donne, povertà... e per questo la ricerca diventa anche un modo di leggere la cosiddetta «crisi africana».Nel Kenya di Mwai Kibaki, esponente della Coalizione arcobaleno (Narc), vincitore delle elezioni nel 2002, la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà, i tassi di analfabetismo sono altissimi. Nel 2001 il tasso di crescita ha raggiunto appena l'1%. E la crescita del Pil prevista per il 2004 è stata influenzata negativamente dalla «traballante fiducia degli investitori nei confronti delle riforme annunciate» (leggi privatizzazioni). E la Banca mondiale preme: anche «la svolta» di Kibaki, benvisto dagli Usa, insomma, è troppo lenta. La lentezza «delle riforme incide quindi pesantemente sull'economia», scrivono anche i ricercatori, che pur dichiarano il loro intento non eurocentrico, citando Serge Latouche. Ma sarebbe stato il caso di ricordare che - fermo restando le responsabilità di certi politici africani - lo scacco dei piani di aggiustamento strutturale in Africa e del pagamento del debito è ormai evidente. Nell'arco di vent'anni, la maggioranza della popolazione africana ha visto peggiorare la propria situazione. I costi delle privatizzazioni ricadono sulle fasce deboli. Quanto all'aids, come tacere le responsabilità delle multinazionali farmaceutiche che detengono il monopolio dei brevetti e ricattano i governi che vorrebbero produrre i farmaci da sé? Il governo zambiano ha rifiutato dagli Usa mais gratuito geneticamente modificato. Dal Kenya al Sudafrica si protesta per la terra o l'elettricità. Fatti che riportano al cuore della discussione.
Il manifesto 120105
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