IN MEMORIA DI MARTIN LUTHER KING
USA 17/1/2005 7:17
IN MEMORIA DI MARTIN LUTHER KING E DEL SUO SOGNO, QUELLO VERO
Peace/Justice, Standard
Chi, quanti, dove e come in questi giorni si sono ricordati che Martin Luther King”, se non fosse stato barbaramente e misteriosamente ammazzato nell’aprile del 1968, sabato scorso avrebbe compiuto 76 anni? Negli Stati Uniti, la ricorrenza è una festa nazionale che, secondo tradizione, ricorre il primo lunedì successivo, cioè oggi. Ieri, in uno dei suoi numerosi discorsi tenuti nel fine-settimana in diverse località americane, il reverendo nero Jessie Jackson, che 37 anni fa vide con i suoi occhi l’attentato a King, ha detto: “La sua eredità, per ogni anno che passa, viene sempre più diluita... Facile da ammirare, King è difficile da seguire...”. Già nel 1986, Jackson aveva scritto: “ Dobbiamo opporci a questa memoria debole e anemica dei media nei confronti di un uomo grande. Credere che il dottor King fosse soltanto un sognatore significa fare ingiustizia a lui e a alla sua memoria. Perchè tanti uomini politici vogliono ricordarlo solo come un sognatore?” La voce di Paul Rockwell, già docente di filosofia alla Midwestern University, è stata tra le poche levatesi con competenza in questi giorni per commemorare King: “ Nel suo profetico discorso del 1967 alla Riverside Church , Martin Luther King sottolineò 4 punti: 1) il militarismo americano avrebbe distrutto la lotta alla povertà; 2) la superficialità americana produce violenza, disperazione e disprezzo per la legge negli stessi Stati Uniti; 3) l’utilizzo della gente di colore per combattere contro altra gente di colore all’estero è una manipolazione crudele dei poveri; 4) i diritti umani andrebbero misurati con lo stesso metro ovunque”. Erano i tempi della guerra in Vietnam. Rockwell ricorda anche che il quotidiano Washington Post definì “irresponsabile” quel discorso e il “New York Times”, in un editoriale intitolato “L’errore del dottor King” lo criticò per essere uscito dall’area concessa agli esponenti di colore, quella dei diritti civili. Il settimanale Time andò anche più in là definendolo una calunnia demagogica e un copione per Radio Hanoi ( e non si riferiva certo al film di molti anni dopo “Good Morning Vietnam”....). Due biografi di Martin Luther King, Stephen Oates e David Garrow hanno addirittura dedicato interi capitoli dei loro saggi al virulento attacco dei media contro “l’internazionalismo” di King. Ma tutti ripetono come pappagalli, fuori contesto, ricorda Rockwell, quattro parole di quel discorso: “ I have a dream”, ho fatto un sogno, e hanno dimenticato sia i veri contenuti sia le assurde reazioni che sollevò. In tempi di guerra in Iraq, di conflitto incomponibile in Medio Oriente, di macro e micro-mondo lacerato da tensioni e contrapposizioni spesso assurde, colpito da sciagure immani , da aumento diffuso della povertà, forse non c’è più posto nemmeno per quelle quattro parole fuori contesto. Non c’è più posto, se non formale e retorico, nè per King nè per il suo sogno nè per chiunque altro tentasse di ripetere con lui che non può esserci pace senza giustizia e che il silenzio degli onesti fa più paura della cattiveria dei malvagi. Tutto considerato, sorprende che sia stato assassinato nel 1968 e che, nel diluirne il pensiero, lo si dimentichi sempre di più e si continui in qualche modo ad assassinarlo? Eppure proprio un suo pensiero, una sua frase meno nota, può essere di ispirazione, di guida e di conforto a qualsiasi uomo di buona volontà: “Anche se sapessi che il mondo finisce domani, oggi pianterei ancora il mio alberello di mele”. (Pietro Mariano Benni)[MB]
IN MEMORIA DI MARTIN LUTHER KING E DEL SUO SOGNO, QUELLO VERO
Peace/Justice, Standard
Chi, quanti, dove e come in questi giorni si sono ricordati che Martin Luther King”, se non fosse stato barbaramente e misteriosamente ammazzato nell’aprile del 1968, sabato scorso avrebbe compiuto 76 anni? Negli Stati Uniti, la ricorrenza è una festa nazionale che, secondo tradizione, ricorre il primo lunedì successivo, cioè oggi. Ieri, in uno dei suoi numerosi discorsi tenuti nel fine-settimana in diverse località americane, il reverendo nero Jessie Jackson, che 37 anni fa vide con i suoi occhi l’attentato a King, ha detto: “La sua eredità, per ogni anno che passa, viene sempre più diluita... Facile da ammirare, King è difficile da seguire...”. Già nel 1986, Jackson aveva scritto: “ Dobbiamo opporci a questa memoria debole e anemica dei media nei confronti di un uomo grande. Credere che il dottor King fosse soltanto un sognatore significa fare ingiustizia a lui e a alla sua memoria. Perchè tanti uomini politici vogliono ricordarlo solo come un sognatore?” La voce di Paul Rockwell, già docente di filosofia alla Midwestern University, è stata tra le poche levatesi con competenza in questi giorni per commemorare King: “ Nel suo profetico discorso del 1967 alla Riverside Church , Martin Luther King sottolineò 4 punti: 1) il militarismo americano avrebbe distrutto la lotta alla povertà; 2) la superficialità americana produce violenza, disperazione e disprezzo per la legge negli stessi Stati Uniti; 3) l’utilizzo della gente di colore per combattere contro altra gente di colore all’estero è una manipolazione crudele dei poveri; 4) i diritti umani andrebbero misurati con lo stesso metro ovunque”. Erano i tempi della guerra in Vietnam. Rockwell ricorda anche che il quotidiano Washington Post definì “irresponsabile” quel discorso e il “New York Times”, in un editoriale intitolato “L’errore del dottor King” lo criticò per essere uscito dall’area concessa agli esponenti di colore, quella dei diritti civili. Il settimanale Time andò anche più in là definendolo una calunnia demagogica e un copione per Radio Hanoi ( e non si riferiva certo al film di molti anni dopo “Good Morning Vietnam”....). Due biografi di Martin Luther King, Stephen Oates e David Garrow hanno addirittura dedicato interi capitoli dei loro saggi al virulento attacco dei media contro “l’internazionalismo” di King. Ma tutti ripetono come pappagalli, fuori contesto, ricorda Rockwell, quattro parole di quel discorso: “ I have a dream”, ho fatto un sogno, e hanno dimenticato sia i veri contenuti sia le assurde reazioni che sollevò. In tempi di guerra in Iraq, di conflitto incomponibile in Medio Oriente, di macro e micro-mondo lacerato da tensioni e contrapposizioni spesso assurde, colpito da sciagure immani , da aumento diffuso della povertà, forse non c’è più posto nemmeno per quelle quattro parole fuori contesto. Non c’è più posto, se non formale e retorico, nè per King nè per il suo sogno nè per chiunque altro tentasse di ripetere con lui che non può esserci pace senza giustizia e che il silenzio degli onesti fa più paura della cattiveria dei malvagi. Tutto considerato, sorprende che sia stato assassinato nel 1968 e che, nel diluirne il pensiero, lo si dimentichi sempre di più e si continui in qualche modo ad assassinarlo? Eppure proprio un suo pensiero, una sua frase meno nota, può essere di ispirazione, di guida e di conforto a qualsiasi uomo di buona volontà: “Anche se sapessi che il mondo finisce domani, oggi pianterei ancora il mio alberello di mele”. (Pietro Mariano Benni)[MB]
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