CONSIGLIO DI SICUREZZA AFRICANO, PRIMA RIUNIONE
AFRICA 10/1/2005 9:59
PRIMA RIUNIONE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA AFRICANO
Peace/Justice, Brief
I 15 membri del Consiglio di sicurezza e pace dell'Unione Africana si riuniranno oggi per la prima volta a Libreville, capitale del Gabon per discutere delle principali crisi politico-militari in corso nel continente. Alla riunione, la cui conclusione è prevista domani, parteciperanno i capi di Stato dei quindici Paesi africani che compongono l’organo creato sul modello del Consiglio di sicurezza dell’Onu per affrontare le questioni legate ai conflitti. Al primo punto dell'agenda dei lavori si trova la crisi della Costa d'Avorio; secondo indiscrezioni verrà soprattutto analizzato il recente tentativo di mediazione del presidente sudafricano Thabo Mbeki a cui l'Ua aveva chiesto di intervenire dopo la violenta escalation del novembre scorso. Sul tavolo anche la guerra in corso in Darfur (la regione occidentale sudanese teatro da quasi due anni di scontri e di una grave crisi umanitaria) e le continue tensioni nell'est della Repubblica democratica del Congo, che rischiano di minacciare il processo di pace e le elezioni previste per il 2005. [MZ
Misna
Africa: Peacekeeping, il ruolo l’Unione Africana
L’Unione Africana s’è candidata a organizzazione regionale volta a rilanciare il ruolo dell’Africa nel mondo. Il punto di partenza però è il continente africano stesso squarciato dalle guerre: l’Unione deve pertanto dimostrare di essere una forza di pace affidabile. La crisi del Darfur si delinea come suo principale banco di prova.(Massimiliano Zanghì)
Equilibri.net (7 gennaio 2005)
Il Meccanismo di Prevenzione, Gestione e Risoluzione dei Conflitti
L’Unione Africana (UA) è una giovane organizzazione continentale lanciata nel 1999 con la cosiddetta “Dichiarazione della Sirte”, concretizzatasi tre anni dopo. I suoi obiettivi sono “liberare il continente dalle ultime vestigia della colonizzazione e dell’apartheid, promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati africani, coordinare e rafforzare la cooperazione per lo sviluppo, tutelare la sovranità e l’integrità dei Paesi Membri a promuovere la cooperazione internazionale all’interno dell’ordinamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)”.
Dal 2002, con l’istituzione della 1° Assemblea dei Capi di Stato, l’UA ha iniziato ad operare a pieno regime per la costruzione di un’Africa più forte sui mercati e sullo scenario politico della nuova realtà globale.Nell’estate dello stesso anno, durante il Vertice di Durban, gli Stati Membri sottoscrissero il protocollo relativo alla creazione del “Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana” (CPSUA; PSC nell’accezione inglese), costituito da 15 Paesi membri, di cui 5 con mandato triennale rinnovabile e 10 con mandato biennale non rinnovabile. Esso sovraintenderà al “Meccanismo di Prevenzione, Gestione e Risoluzione dei Conflitti”, previsto dal 1993 e per ora con mansioni di raccolta e analisi d’informazioni volte ad assicurare un sistema di “early warning” regionali sulle possibili crisi. In futuro sarà integrato da un “Comitato degli Stati Maggiori Africani Riuniti” ed una “Forza Permanente di Pace Africana”.
Il CPSUA è entrato nella fase operativa dallo scorso maggio. Attualmente è dotato di poteri prettamente politici: può infatti approvare risoluzioni in grado di infrangere il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati membri, ma non è ancora dotato di una vera forza d’intervento. Quest’ultima sarà costituita in un primo nucleo dal 2005, ma la sua creazione sarà completata solo nel 2010. Il progetto finale prevede cinque brigate, 5.000 uomini ciascuna, a ognuna delle quali sarebbe affidata la competenza su una delle altrettante cinque regioni in cui è stata suddiviso il continente. Per adesso i governi del G-8 sembra finanzieranno una brigata, ma è al vaglio la possibilità che sostengano l’intero corpo militare. Ad ogni modo, con il nuovo anno che l’UA dovrà affrontare il nodo della localizzazione dei quartier generali, depositi, arsenali, dell’impostazione dell’apparato d’Intelligence, della scelta delle nazioni leader e dei contributi in uomini e mezzi di ciascun esercito.
Unione Africana, forza di pace: vantaggi, analisi, lacune
L’Africa è stata a lungo alla mercé delle truppe occidentali per le operazioni di ristabilimento della pace, spesso troppo esigue o intempestive rispetto l’occorrente. Si pensi al caso del Ruanda: essere dipesi dall’incertezza del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite è costato 800.000 vittime in pochi mesi e l’instabilità cronica di tutta la regione dei Grandi Laghi. L’esperienza generale degli anni ’90 ha condotto i leaders africani a prendere in mano la responsabilità per la gestione della sicurezza del continente. Per ciò è opportuno che l’UA sviluppi la capacità di arginare rapidamente situazioni d’emergenza in attesa di una collaborazione con il CdS e dell’imponente, seppur eccessivamente macchinoso, apparato dell’ONU.
Dopotutto, i primi dieci contribuenti i truppe alle missioni di Caschi Blu sono proprio Paesi in Via di Sviluppo (PVS): è irragionevole e controproducente affidarsi a contingenti di Paesi estranei al teatro delle operazioni, talvolta oltretutto appartenenti alle impopolari ex-potenze coloniali. Si veda il caso riguardante le truppe francesi nella tormentata Costa d’Avorio all’inizio di novembre. Esempio opposto, in cui siano intervenuti Paesi con interessi diretti nel ristabilimento dell’ordine nei vicini, è la Liberia, dove truppe dei membri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO, ECOWAS in inglese), secondo i termini contenuti in un protocollo aggiuntivo, hanno aperto la strada all’ONU sia nell’agosto del 1990 che in quello di tredici anni dopo, con buoni risultati.Sebbene il dispiegamento di forze armate provenienti da Stati limitrofi rischi di essere imputato ad interessi occulti dei governi sponsorizzatori, gli eserciti di Paesi africani risultano avvantaggiati dal punto di vista della similarità culturale con le popolazioni tra le quali dovranno agire, da quello della loro flessibilità e della logistica. Inoltre, è ragionevole pensare che Stati africani siano più disposti a fornire un’adeguata potenza di fuoco rispetto quelli europei o asiatici che troppo spesso ne hanno provveduta una insufficiente, tanto da porre in questione l’utilità stessa di un contingente di pace che si basi più sulla sua presunta autorità morale piuttosto che sulla sua deterrenza sul campo.Ovviamente, il rischio da evitare è quello che alla responsabilizzazione politica dell’UA non sopravviva l’impegno finanziario della Comunità Internazionale a sostegno dei PVS. In sostanza, esiste il pericolo che ad avvantaggiarsi delle missioni di stabilizzazione siano i Paesi vicini ai centri nevralgici dell’economia mondiale a discapito della qualità di quelle nei Paesi periferici. L’esempio è già sotto gli occhi di tutti: il Kosovo è duecento volte più piccolo della Repubblica Democratica del Congo (RDC), ma tra i due è la piccola regione balcanica a usufruire del contingente più numeroso e meglio equipaggiato. Esistono tuttavia segnali di senso opposto, come quello proveniente da George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti d’America (USA), e dall’allora suo sfidante John Kerry, i quali hanno espresso l’intenzione di sostenere logisticamente gli sforzi dell’UA in Darfur.
Nel continente africano sono attualmente dislocati 55.000 Caschi Blu e funzionari civili ripartiti in otto missioni ONU, il doppio di cinque anni fa. Il trend di crescita futuro è ancora più alto: la costante espansione della domanda di truppe, anche guardando solo al caso africano, è testimoniata dai recenti appelli per un ampliamento dell’organico militare in RDC, Sudan e Costa d’Avorio. La Casa Bianca ha offerto le sue risorse e quelle dei Paesi del G-8 per l’addestramento di ben 75.000 nuovi Caschi Blu, principalmente destinati all’Africa.In tale contesto, un coinvolgimento maggiore dell’UA nel peacekeeping darebbe maggiore ossigeno al bacino di uomini a cui l’ONU è costretta rivolgersi, con relativo abbreviamento dei tempi e migliore reattività davanti nuove crisi che, se prese per tempo, potrebbero essere contenute. Inoltre, nelle spedizioni dell’UA potrebbero essere inquadrati ex-combattenti delle guerre civili africane, come mostra l’esperienza di 200 ex-guerrigliere ruandesi.Se il “Monitoring Observer Group of ECOWAS” (ECOMOG), braccio militare della CEDEAO, venisse preso ad esempio per l’intera struttura di sicurezza africana, allora si dovrebbe considerare la possibilità che i Paesi dell’UA coinvolti in operazioni di peacekeeping decidano di rivolgersi alle “Private Military and Security Companies” (PMC), ossia le società internazionali offrenti servizi di sicurezza di tipo paramilitare, rese ora famose dall’attenzione suscitata dai “mercenari” in Iraq. E’ proprio una di esse, la britannica “Sandline International”, che fu contattata dall’ECOMOG a guida nigeriana durante le sue operazioni in Sierra Leone tra il 1997 ed il 1998.
A parte l’assenza di un contingente propriamente detto, cosa che non ha impedito interventi sia in Burundi che in Sudan, il CPSUA soffre di alcuni limiti impliciti nella stessa sua natura di organo simile al CdS dell’ONU. Difatti, il consiglio può disporre un intervento, ma il “veto” posto da una delle grandi nazioni africane, su cui peraltro grava il maggiore peso finanziario dell’UA stessa, può risultare insuperabile, intralciando il consiglio. E’ la tipica circostanza riguardante due o più Stati in conflitto tra loro (si pensi al caso dell’Etiopia e dell’Eritrea), quello in cui il governo indirettamente appoggi una delle fazioni in lotta sul suo territorio (è il caso del Sudan, il quale favorisce le milizie arabe Janjaweed contro i ribelli africani del Darfur) oppure quello che vede interessi conflittuali di Paesi nelle vicende interne di uno Stato terzo (come nella RDC e molti altri). Il CPSUA dovrà essere rinforzato da rilevanti strumenti di pressione per superare tali ostacoli.
Dal punto di vista militare, i vertici delle forze armate hanno comunque affermato che è più realistico prevedere l’approntamento di tre brigate piuttosto che di cinque in sei anni: ciò poiché mentre l’organizzazione dei contingenti nelle regioni orientale ed occidentale prosegue senza intoppi, lo stesso non si può dire per le altre. In aggiunta, i nascenti distaccamenti sotto il comando dell’UA sono pressoché privi di qualsiasi potenzialità aviotrasportata: solo il Sudafrica ha un esercito dotato di una qualche mobilità aerea, la quale resta però assolutamente insufficiente. Il noleggio di velivoli, invece, prevede premi assicurativi esorbitanti per gli atterraggi in aree ostili, rendendo l’opzione impraticabile per i bilanci a disposizione. Non a caso il ponte aereo che in agosto ha trasportato militari nigeriani nel Darfur è stato finanziato interamente dall’Olanda. Poiché qualsiasi intervento è inconcepibile senza una flotta aerea adeguata, la sua reperibilità è indispensabile al concetto stesso di peacekeeping africano. Per questo è auspicabile che i Paesi avanzati concedano l’utilizzo temporaneo dei propri mezzi oppure procurino ai PVS perlomeno le risorse essenziali.
La prova del fuoco: il Darfur
Da agosto a novembre, la “African Union Monitoring Mission in Sudan” (AMIS) è stata composta da circa 300 soldati, per metà nigeriani e metà ruandesi, e un centinaio di osservatori disarmati. Il loro mandato era quello di monitorare la tregua tra ribelli, milizie filogovernative Janjaweed e Khartoum. Essa, negoziata nell’aprile 2003, è stata violata più o meno regolarmente. Le mansioni dell’AMIS non prevedevano invece il compito di frapporsi tra le parti in lotta come neppure di proteggere i civili. D’altra parte non sarebbe stato proponibile, visto l’esiguo organico dispiegato sul campo, tra l’altro giunto nel Darfur a rilento a causa della cronica mancanza di finanziamenti, mezzi di trasporto e addirittura vettovagliamento: solo il supporto delle aviazioni occidentali e dei fondi dell’Unione Europea (UE) hanno reso possibile la piccola missione.
L’UA ha più volte annunciato di voler portare l’AMIS a 3.500 unità tra poliziotti, soldati e osservatori, ma solo in ottobre è riuscita a vincere l’opposizione sudanese, la quale aveva vanificato i tentativi d’espandere la missione, ora autorizzata a proteggere i civili sotto imminente rischio di violenze.Viste le poche risorse e gli spazi sconfinati, il personale dell’UA ha potuto finora solo riportare violazioni del cessate-il-fuoco ed il risultato delle relative indagini. Inoltre, è l’esercito regolare sudanese ad essere competente al disarmo delle milizie, così l’AMIS non può sequestrare gli armamenti che potenzialmente potrebbe rinvenire.Dei 221 milioni di dollari richiesti per mantenere un anno l’AMIS in Darfur, circa la metà proverrà dalle casse dell’UE.L’ultimo distaccamento a giungere in Darfur è stato uno di 200 soldati provenienti dal Gambia, che ha portato l’AMIS a quasi un migliaio di effettivi, destinati a crescere ancora nelle prossime settimane. Si tenga conto, però, che fonti ONU hanno stimato che in Sudan sarebbero necessari circa 10.000 Caschi Blu.Intanto nel mese di dicembre le ostilità tra Khartoum ed i principali gruppi ribelli si sono riacutizzate. Ora, preso atto degli sporadici seppure intensi combattimenti in tutto il Darfur, la mossa spetta al CPSUA, che con la sua risposta rivelerà se l’organo di sicurezza sia paragonabile ad un leone dotato di denti o piuttosto solo capace di ruggire.
Conclusioni
Dalla sua stessa ideazione, dunque, l’UA ha subito assunto una forma consona alla forza stabilizzatrice e pacificatrice africana che aspira ad essere, obiettivo mancato dall’ Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), sua predecessora nata nel 1963.Per dare fondamento alla sua credibilità, essa dovrà dimostrare di possedere esperienza diplomatica e peso militare adeguato alle sue ambizioni, ma non solo: la scommessa è da vincere anche sul tavolo del cosiddetto “developmental peacekeeping”, ossia la ricostruzione dello Stato, dell’economia e della società, il cui sfacelo spesso è l’origine e non il risultato delle guerre africane.
http://www.equilibri.net/africa/africa605.htm
PRIMA RIUNIONE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA AFRICANO
Peace/Justice, Brief
I 15 membri del Consiglio di sicurezza e pace dell'Unione Africana si riuniranno oggi per la prima volta a Libreville, capitale del Gabon per discutere delle principali crisi politico-militari in corso nel continente. Alla riunione, la cui conclusione è prevista domani, parteciperanno i capi di Stato dei quindici Paesi africani che compongono l’organo creato sul modello del Consiglio di sicurezza dell’Onu per affrontare le questioni legate ai conflitti. Al primo punto dell'agenda dei lavori si trova la crisi della Costa d'Avorio; secondo indiscrezioni verrà soprattutto analizzato il recente tentativo di mediazione del presidente sudafricano Thabo Mbeki a cui l'Ua aveva chiesto di intervenire dopo la violenta escalation del novembre scorso. Sul tavolo anche la guerra in corso in Darfur (la regione occidentale sudanese teatro da quasi due anni di scontri e di una grave crisi umanitaria) e le continue tensioni nell'est della Repubblica democratica del Congo, che rischiano di minacciare il processo di pace e le elezioni previste per il 2005. [MZ
Misna
Africa: Peacekeeping, il ruolo l’Unione Africana
L’Unione Africana s’è candidata a organizzazione regionale volta a rilanciare il ruolo dell’Africa nel mondo. Il punto di partenza però è il continente africano stesso squarciato dalle guerre: l’Unione deve pertanto dimostrare di essere una forza di pace affidabile. La crisi del Darfur si delinea come suo principale banco di prova.(Massimiliano Zanghì)
Equilibri.net (7 gennaio 2005)
Il Meccanismo di Prevenzione, Gestione e Risoluzione dei Conflitti
L’Unione Africana (UA) è una giovane organizzazione continentale lanciata nel 1999 con la cosiddetta “Dichiarazione della Sirte”, concretizzatasi tre anni dopo. I suoi obiettivi sono “liberare il continente dalle ultime vestigia della colonizzazione e dell’apartheid, promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati africani, coordinare e rafforzare la cooperazione per lo sviluppo, tutelare la sovranità e l’integrità dei Paesi Membri a promuovere la cooperazione internazionale all’interno dell’ordinamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)”.
Dal 2002, con l’istituzione della 1° Assemblea dei Capi di Stato, l’UA ha iniziato ad operare a pieno regime per la costruzione di un’Africa più forte sui mercati e sullo scenario politico della nuova realtà globale.Nell’estate dello stesso anno, durante il Vertice di Durban, gli Stati Membri sottoscrissero il protocollo relativo alla creazione del “Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana” (CPSUA; PSC nell’accezione inglese), costituito da 15 Paesi membri, di cui 5 con mandato triennale rinnovabile e 10 con mandato biennale non rinnovabile. Esso sovraintenderà al “Meccanismo di Prevenzione, Gestione e Risoluzione dei Conflitti”, previsto dal 1993 e per ora con mansioni di raccolta e analisi d’informazioni volte ad assicurare un sistema di “early warning” regionali sulle possibili crisi. In futuro sarà integrato da un “Comitato degli Stati Maggiori Africani Riuniti” ed una “Forza Permanente di Pace Africana”.
Il CPSUA è entrato nella fase operativa dallo scorso maggio. Attualmente è dotato di poteri prettamente politici: può infatti approvare risoluzioni in grado di infrangere il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati membri, ma non è ancora dotato di una vera forza d’intervento. Quest’ultima sarà costituita in un primo nucleo dal 2005, ma la sua creazione sarà completata solo nel 2010. Il progetto finale prevede cinque brigate, 5.000 uomini ciascuna, a ognuna delle quali sarebbe affidata la competenza su una delle altrettante cinque regioni in cui è stata suddiviso il continente. Per adesso i governi del G-8 sembra finanzieranno una brigata, ma è al vaglio la possibilità che sostengano l’intero corpo militare. Ad ogni modo, con il nuovo anno che l’UA dovrà affrontare il nodo della localizzazione dei quartier generali, depositi, arsenali, dell’impostazione dell’apparato d’Intelligence, della scelta delle nazioni leader e dei contributi in uomini e mezzi di ciascun esercito.
Unione Africana, forza di pace: vantaggi, analisi, lacune
L’Africa è stata a lungo alla mercé delle truppe occidentali per le operazioni di ristabilimento della pace, spesso troppo esigue o intempestive rispetto l’occorrente. Si pensi al caso del Ruanda: essere dipesi dall’incertezza del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite è costato 800.000 vittime in pochi mesi e l’instabilità cronica di tutta la regione dei Grandi Laghi. L’esperienza generale degli anni ’90 ha condotto i leaders africani a prendere in mano la responsabilità per la gestione della sicurezza del continente. Per ciò è opportuno che l’UA sviluppi la capacità di arginare rapidamente situazioni d’emergenza in attesa di una collaborazione con il CdS e dell’imponente, seppur eccessivamente macchinoso, apparato dell’ONU.
Dopotutto, i primi dieci contribuenti i truppe alle missioni di Caschi Blu sono proprio Paesi in Via di Sviluppo (PVS): è irragionevole e controproducente affidarsi a contingenti di Paesi estranei al teatro delle operazioni, talvolta oltretutto appartenenti alle impopolari ex-potenze coloniali. Si veda il caso riguardante le truppe francesi nella tormentata Costa d’Avorio all’inizio di novembre. Esempio opposto, in cui siano intervenuti Paesi con interessi diretti nel ristabilimento dell’ordine nei vicini, è la Liberia, dove truppe dei membri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO, ECOWAS in inglese), secondo i termini contenuti in un protocollo aggiuntivo, hanno aperto la strada all’ONU sia nell’agosto del 1990 che in quello di tredici anni dopo, con buoni risultati.Sebbene il dispiegamento di forze armate provenienti da Stati limitrofi rischi di essere imputato ad interessi occulti dei governi sponsorizzatori, gli eserciti di Paesi africani risultano avvantaggiati dal punto di vista della similarità culturale con le popolazioni tra le quali dovranno agire, da quello della loro flessibilità e della logistica. Inoltre, è ragionevole pensare che Stati africani siano più disposti a fornire un’adeguata potenza di fuoco rispetto quelli europei o asiatici che troppo spesso ne hanno provveduta una insufficiente, tanto da porre in questione l’utilità stessa di un contingente di pace che si basi più sulla sua presunta autorità morale piuttosto che sulla sua deterrenza sul campo.Ovviamente, il rischio da evitare è quello che alla responsabilizzazione politica dell’UA non sopravviva l’impegno finanziario della Comunità Internazionale a sostegno dei PVS. In sostanza, esiste il pericolo che ad avvantaggiarsi delle missioni di stabilizzazione siano i Paesi vicini ai centri nevralgici dell’economia mondiale a discapito della qualità di quelle nei Paesi periferici. L’esempio è già sotto gli occhi di tutti: il Kosovo è duecento volte più piccolo della Repubblica Democratica del Congo (RDC), ma tra i due è la piccola regione balcanica a usufruire del contingente più numeroso e meglio equipaggiato. Esistono tuttavia segnali di senso opposto, come quello proveniente da George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti d’America (USA), e dall’allora suo sfidante John Kerry, i quali hanno espresso l’intenzione di sostenere logisticamente gli sforzi dell’UA in Darfur.
Nel continente africano sono attualmente dislocati 55.000 Caschi Blu e funzionari civili ripartiti in otto missioni ONU, il doppio di cinque anni fa. Il trend di crescita futuro è ancora più alto: la costante espansione della domanda di truppe, anche guardando solo al caso africano, è testimoniata dai recenti appelli per un ampliamento dell’organico militare in RDC, Sudan e Costa d’Avorio. La Casa Bianca ha offerto le sue risorse e quelle dei Paesi del G-8 per l’addestramento di ben 75.000 nuovi Caschi Blu, principalmente destinati all’Africa.In tale contesto, un coinvolgimento maggiore dell’UA nel peacekeeping darebbe maggiore ossigeno al bacino di uomini a cui l’ONU è costretta rivolgersi, con relativo abbreviamento dei tempi e migliore reattività davanti nuove crisi che, se prese per tempo, potrebbero essere contenute. Inoltre, nelle spedizioni dell’UA potrebbero essere inquadrati ex-combattenti delle guerre civili africane, come mostra l’esperienza di 200 ex-guerrigliere ruandesi.Se il “Monitoring Observer Group of ECOWAS” (ECOMOG), braccio militare della CEDEAO, venisse preso ad esempio per l’intera struttura di sicurezza africana, allora si dovrebbe considerare la possibilità che i Paesi dell’UA coinvolti in operazioni di peacekeeping decidano di rivolgersi alle “Private Military and Security Companies” (PMC), ossia le società internazionali offrenti servizi di sicurezza di tipo paramilitare, rese ora famose dall’attenzione suscitata dai “mercenari” in Iraq. E’ proprio una di esse, la britannica “Sandline International”, che fu contattata dall’ECOMOG a guida nigeriana durante le sue operazioni in Sierra Leone tra il 1997 ed il 1998.
A parte l’assenza di un contingente propriamente detto, cosa che non ha impedito interventi sia in Burundi che in Sudan, il CPSUA soffre di alcuni limiti impliciti nella stessa sua natura di organo simile al CdS dell’ONU. Difatti, il consiglio può disporre un intervento, ma il “veto” posto da una delle grandi nazioni africane, su cui peraltro grava il maggiore peso finanziario dell’UA stessa, può risultare insuperabile, intralciando il consiglio. E’ la tipica circostanza riguardante due o più Stati in conflitto tra loro (si pensi al caso dell’Etiopia e dell’Eritrea), quello in cui il governo indirettamente appoggi una delle fazioni in lotta sul suo territorio (è il caso del Sudan, il quale favorisce le milizie arabe Janjaweed contro i ribelli africani del Darfur) oppure quello che vede interessi conflittuali di Paesi nelle vicende interne di uno Stato terzo (come nella RDC e molti altri). Il CPSUA dovrà essere rinforzato da rilevanti strumenti di pressione per superare tali ostacoli.
Dal punto di vista militare, i vertici delle forze armate hanno comunque affermato che è più realistico prevedere l’approntamento di tre brigate piuttosto che di cinque in sei anni: ciò poiché mentre l’organizzazione dei contingenti nelle regioni orientale ed occidentale prosegue senza intoppi, lo stesso non si può dire per le altre. In aggiunta, i nascenti distaccamenti sotto il comando dell’UA sono pressoché privi di qualsiasi potenzialità aviotrasportata: solo il Sudafrica ha un esercito dotato di una qualche mobilità aerea, la quale resta però assolutamente insufficiente. Il noleggio di velivoli, invece, prevede premi assicurativi esorbitanti per gli atterraggi in aree ostili, rendendo l’opzione impraticabile per i bilanci a disposizione. Non a caso il ponte aereo che in agosto ha trasportato militari nigeriani nel Darfur è stato finanziato interamente dall’Olanda. Poiché qualsiasi intervento è inconcepibile senza una flotta aerea adeguata, la sua reperibilità è indispensabile al concetto stesso di peacekeeping africano. Per questo è auspicabile che i Paesi avanzati concedano l’utilizzo temporaneo dei propri mezzi oppure procurino ai PVS perlomeno le risorse essenziali.
La prova del fuoco: il Darfur
Da agosto a novembre, la “African Union Monitoring Mission in Sudan” (AMIS) è stata composta da circa 300 soldati, per metà nigeriani e metà ruandesi, e un centinaio di osservatori disarmati. Il loro mandato era quello di monitorare la tregua tra ribelli, milizie filogovernative Janjaweed e Khartoum. Essa, negoziata nell’aprile 2003, è stata violata più o meno regolarmente. Le mansioni dell’AMIS non prevedevano invece il compito di frapporsi tra le parti in lotta come neppure di proteggere i civili. D’altra parte non sarebbe stato proponibile, visto l’esiguo organico dispiegato sul campo, tra l’altro giunto nel Darfur a rilento a causa della cronica mancanza di finanziamenti, mezzi di trasporto e addirittura vettovagliamento: solo il supporto delle aviazioni occidentali e dei fondi dell’Unione Europea (UE) hanno reso possibile la piccola missione.
L’UA ha più volte annunciato di voler portare l’AMIS a 3.500 unità tra poliziotti, soldati e osservatori, ma solo in ottobre è riuscita a vincere l’opposizione sudanese, la quale aveva vanificato i tentativi d’espandere la missione, ora autorizzata a proteggere i civili sotto imminente rischio di violenze.Viste le poche risorse e gli spazi sconfinati, il personale dell’UA ha potuto finora solo riportare violazioni del cessate-il-fuoco ed il risultato delle relative indagini. Inoltre, è l’esercito regolare sudanese ad essere competente al disarmo delle milizie, così l’AMIS non può sequestrare gli armamenti che potenzialmente potrebbe rinvenire.Dei 221 milioni di dollari richiesti per mantenere un anno l’AMIS in Darfur, circa la metà proverrà dalle casse dell’UE.L’ultimo distaccamento a giungere in Darfur è stato uno di 200 soldati provenienti dal Gambia, che ha portato l’AMIS a quasi un migliaio di effettivi, destinati a crescere ancora nelle prossime settimane. Si tenga conto, però, che fonti ONU hanno stimato che in Sudan sarebbero necessari circa 10.000 Caschi Blu.Intanto nel mese di dicembre le ostilità tra Khartoum ed i principali gruppi ribelli si sono riacutizzate. Ora, preso atto degli sporadici seppure intensi combattimenti in tutto il Darfur, la mossa spetta al CPSUA, che con la sua risposta rivelerà se l’organo di sicurezza sia paragonabile ad un leone dotato di denti o piuttosto solo capace di ruggire.
Conclusioni
Dalla sua stessa ideazione, dunque, l’UA ha subito assunto una forma consona alla forza stabilizzatrice e pacificatrice africana che aspira ad essere, obiettivo mancato dall’ Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), sua predecessora nata nel 1963.Per dare fondamento alla sua credibilità, essa dovrà dimostrare di possedere esperienza diplomatica e peso militare adeguato alle sue ambizioni, ma non solo: la scommessa è da vincere anche sul tavolo del cosiddetto “developmental peacekeeping”, ossia la ricostruzione dello Stato, dell’economia e della società, il cui sfacelo spesso è l’origine e non il risultato delle guerre africane.
http://www.equilibri.net/africa/africa605.htm
0 Comments:
Post a Comment
<< Home