«Se un’identità è importante, forse due identità sono ancora più importanti per capire noi stessi e il mondo che ci circonda. E per farne parte.» Con queste parole Abdoul, emigrato da Timbuctù a Parigi agli inizi degli anni ’70, quando «l’emigrazione africana verso l’Europa stava appena incominciando », lancia la sua sfida al mondo moderno segnato dal (presunto) conflitto di civiltà. Lo fa dopo aver scoperto di essere discendente di ebrei giunti in Mali nel 1300, e forse anche prima. Ma il timido Abdoul non è il solo ad essere colpito dalla notizia diramata da un’agenzia di stampa francese, nel marzo 1996. «Ebrei a Timbuctù? In mezzo al deserto, ancora oggi?», si domanda un viaggiatore europeo che lo aiuterà a superare il Sahara con il suo fuoristrada e tornerà ad incrociarne i destini davanti ad una bottega etnica parigina.
Il migrante e il viaggiatore europeo sono i personaggi reali e iconici dell’ultimo libro di Eric Salerno (Mosè a Timbuctù, manifestolibri, 2006). Un libro che è una sovrapposizione tra reportage narrativo, ricerca etno-antropologica e storiografica, in cui il misterioso mondo ebraico scoperto riemerge dalla polvere della storia. Lo fa attraverso frammenti d’identità reclamate: Ismael, l’autore dell’articolo rilanciato dall’agenzia francese, chiede invano il riconoscimento da parte d’Israele. Ma soprattutto attraverso i manoscritti che facevano il giro del Sahara verso (e da) il Medio Oriente sui dorsi dei cammelli che portavano il sale, organizzati in carovane «così grandi e così importanti per l’economia della regione»; quei libri conservati o nascosti nelle case private di Timbuctù, dove più che il contenuto risultano preziose le scritte ai margini bianchi dei fogli, utilizzati dai proprietari «per appuntare notizie e considerazioni che non necessariamente avevano a che fare con il testo stesso».
E sono proprio le storie minime, come l’abbondanza dei raccolti di un anno, i dettagli di acquisti, insieme ai racconti degli abitanti e ai miti delle diverse culture, a generare il senso del libro, esplicitato dallo stesso Abdoul: «Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che, più di ogni altra cosa, di questa vicenda mi interessa l’integrazione delle famiglie ebraiche in una società africana da una parte e musulmana dall’altra». Perché contrariamente a quanto succedeva in altri luoghi, gli ebrei di Timbuctù «risiedevano un po’ ovunque, non in ghetti o quartieri separati dagli altri». Un modello di convivenza che riflette quello adottato secoli prima dalla fascia delle oasi di Touat, «nel cuore del Sahara occidentale, a uguale distanza dall’Atlantico e dal Mediterraneo, una regione particolarmente isolata ». Una specie di Palestina pacifica, raccontata nel 1447 da viaggiatori come il genovese Antonio Malfante, dove la coesistenza islamico-ebraica finì nel 1492.
Coerentemente con la “sfida” lanciata da Abdoul, con l’idea di un mondo che proceda per stratificazione o addizione più che per sintesi o rimozione, la narrazione di Salerno procede a sbalzi, senza un’apparente continuità, in alcuni tratti sfiorando una piacevole caoticità.
Sia tra capitoli e capitoli, dove la voce dei due narratori tende a mimetizzarsi (forse un po’ troppo), sia all’interno di capitoli diversi, dove i protagonisti e le storie evocate appaiono all’improvviso, per poi sparire, sostituite da altre.
Come le dune e le vicende degli uomini nel deserto.
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