Thursday, February 01, 2007

«La buona politica e la lezione di Gandhi»

L’ATTUALITÀ DEL MAHATMA Parla il politologo Ekkehart Krippendorff, studioso del pensiero non violento

di STEFANO BALDOLINI

Resistenza non violenta, certo. Ma anche flessibilità tattica e rifiuto di ogni dogmatismo. E un’aria meno global e più spirituale. È la versione di Gandhi secondo Ekkehart Krippendorff, uno dei maggiori politologi tedeschi, e autore di classici come L’arte di non essere governati o Shakespeare politico. E, se in giro, di eredi della grande anima, del Mahatma, se ne vedono ancora pochi, il clima generale sembra mutato, più aperto a soluzioni pacifiche già da qualche anno. A partire dall'esperienza della «costruzione democratica dell'Unione Europea », per dirla con il vicepremier Francesco Rutelli, alla conferenza sul Satyagraha, organizzata dal partito del Congresso.
Pochi giorni fa l’omaggio della nazione indiana, presenti i grandi del mondo. Quanto è attuale il pensiero dell’ex avvocato dell’Inner Temple?
È strano dirlo ma oggi il radicalismo di Gandhi mi fa paura, e allo stesso tempo mai è stato così necessario, in un mondo sempre più complesso e spietato. È molto emblematico cosa Gandhi ha lasciato dietro di sè: un paio di scarpe e un paio di occhiali, pur portando un mondo in se stesso. Ovviamente non possiamo vivere questo suo radicalismo, non possiamo portare il discorso fino in fondo, ma possiamo solo avvicinarci al suo pensiero. È questo scarto che mi fa paura.
L’altro aspetto decisivo, oltre al radicalismo, è la flessibilità tattica. Gandhi non è mai dogmatico. Chi non è in grado di seguire la strada, la Satyagraha, può anche fare un percorso diverso. Questo vuol dire, in un certo senso, che il concetto gandhiano non è universale. Che non è applicabile a tutti i contesti nello stesso modo. Il dogmatismo è una posizione facile. E questa è un’altra lezione da imparare: mantenere i principi senza essere dogmatici.
Poi c’è la non violenza..
Naturalmente, è la riflessione centrale. Qui il suo ragionamento ha preso i canoni di una verità scientifica. Per Gandhi la violenza non risolve nessun problema. Lo si vede ogni giorno, con i tentativi di pacificare i conflitti attraverso le armi, attraverso le cosiddette forze di pace. Attenzione, però, questo non vuol dire che lui sarebbe stato contrario all’intervento umanitario.
È invece un esempio di flessibilità, di capacità di applicare i principi del pacifismo in contesti diversi. Anche qui, bisogna ri- flettere, è facile dichiararsi pacifisti, possibile vivere da pacifi- sti, ma la cosa veramente difficile è fare del pacifismo una strategia politica. Trovare analiticamente per ogni conflitto la via d’uscita non violenta è sempre la soluzione più difficile. Il metodo non violento è però quello a lungo termine più efficace.
E anche il più economico.
Il più economico?
Sì, in senso globale. Perché nell’immediato, e nel particolare, ci sono sempre i guadagni economici di chi la guerra la fa. Solo che la società nel suo complesso paga per questo. Da qualsiasi conflitto tutti alla fine escono più poveri.
Sembrano dei principi ecologici...
In un certo senso è vero. Insomma, usando i termini di Gandhi, il pacifismo è una scienza ancora da sviluppare, che richiede un impegno mentale fuori dal comune. Che ancora desta scandalo. È una sfida alle nostre categorie politiche. Pensi a concetti come “l’autogestione di noi stessi”, che parte dal concetto di depurazione spirituale della propria anima, dalle proprie ambizioni. Pensi alla modestia di Gandhi, alla sua capacità di vivere la sfera pubblica, e provi ad applicarla a un politico tipico, alle prese con le proprie ambizioni personali. Capirà che non è semplice da mettere in pratica.
Come si sarebbe comportato Gandhi nella guerra al terrorismo?
Avrebbe provato a instaurare un dialogo...
...sempre che un dialogo sia possibile.
Se noi rinunciamo alla possibilità di dialogare con qualsiasi uomo, perdiamo un po’ di umanità. Noi dobbiamo lavorare sull’ipotesi che anche il nemico peggiore è raggiungibile attraverso il dialogo. Questo è un atteggiamento a cui non possiamo rinunciare. Che non vuol dire che sia vincente. Ma è un tentativo che va fatto, comunque. Io per esempio sono un grande ammiratore del musicista Daniel Barenboim, che ha creato la famosa orchestra di Weimar con arabi e israeliani. Ebbene lui ha detto: «Non pretendo che questa orchestra possa cambiare il mondo, possa portare la pace, ma molto più modestamente, che in queste due ore in cui suonano insieme, non lancino sassi».
Gandhi stesso ha scritto una lettera aperta a Hitler che non ha avuto esito. Però dire che qualcuno è un “male assoluto” è una posizione fondamentalista che non possiamo permetterci.
Non si rischia di passare per “anime belle”?
Questa è una storia vecchia. Qualsiasi tentativo di fare qualcosa di nuovo dopo tremila anni è sempre considerato da ingenui, da “anime belle”. Gandhi stesso venne considerato un “poveraccio”. O un «sedizioso fachiro», come lo definì Winston Churchill. Il mondo occidentale non era molto entusiasta di lui, come lo è oggi, che è diventato un’icona.
Il che da un lato è un bene, dall’altro rischia di sempli ficarlo. Facendone un’icona si rischia di non prenderlo realmente sul serio. Di non capire come si è evoluto il suo pensiero durante le varie esperienze. Cristallizzarlo in un’icona, in un certo senso, blocca la strada che noi stessi dovremmo percorrere.
Socialismo gandhiano: “small is beatiful”. Quali differenze con il socialismo di stato? Lui non promette il paradiso economico in Terra, e d’altra parte critica fortemente la cultura consumistica. Chiede di ripensare i veri bisogni che abbiamo. Pensiamo allo spreco delle energie.
Pensiamo al clima. Indica di ripensare il nostro modello di consumo. Questo non vuol dire che dobbiamo diventare tutti poveri, ma arrivare a pensare: quali sono i nostri veri bisogni? E questo ci porta ai valori che abbiamo.
Il suo socialismo si può definire “spirituale”, fondato sulla lettura delle vecchie scritture indù. Poi, ripeto, era lontano da ogni dogmatismo. Certo, voleva che l’India potesse diventare un “modello” anche per gli altri. Un modello non da imitare, però, ma da cui imparare qualche cosa.
Eredi?
Difficile menzionare degli individui. Naturalmente c’è Nelson Mandela, che ha compiuto un miracolo in Sudafrica attraverso le sue commissioni per la verità, scongiurando la guerra civile. Poi c’è stata l’Europa: escludendo naturalmente la parentesi jugoslava, è indubbio che la costruzione dell’Unione sia stata paci- fica. E anche il dopo guerra fredda, in fondo lo è stato, si pensi alla Cecoslovacchia. Ma anche alla rivoluzione dei garofani in Portogallo.
Ma più che singoli paesi o singoli leader mi sembra che si possa affermare che il clima generale è più aperto a soluzioni pacifiche già da qualche anno. In molti altri paesi c’è una reazione all’avventura bellica americana. Insomma, si può affermare che il principio etico si stia prendendo la rivincita sulla realtà. Dopo gli anni di Tucidide e della cosiddetta rivoluzione neocon, l’etica è diventato un argomento serio nel discorso politico.
E anche questo ci dà motivi di speranza.

Europa quotidiano, giovedì 1 febbraio 2007

qui il pdf dalla rassegna della Camera

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