l'indignazione e il diritto
L'indignazionee il diritto di GIUSEPPE D'AVANZO
IL COMMENTO
L'INDIGNAZIONE non serve a capire. Può infiammare l'opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano, dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell'attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell'Iraq. La decisione del giudice milanese risponde a due questioni ancora aperte, dopo l'11 settembre, dopo la creazione di norme antiterrorismo più adeguate a fronteggiare una minaccia che, rispetto al passato, è non convenzionale e caotica. Quali sono i comportamenti e le attività che ci permettono di dire che un uomo faccia parte di un'associazione terroristica? È sufficiente che raccolga del denaro o falsifichi un passaporto per poter dire quell'uomo un terrorista? E ancora: che cos'è il terrorismo? È terrorismo quello che insanguina l'Iraq? La decisione di Milano propone una risposta. Parziale. Discutibile. Da discutere comunque, e non da liquidare, soprattutto nel giorno dell'addio a Simone Cola, con lo sdegno di Fini o con il furore demagogico di un Calderoli dallo stomaco debole. Fossimo negli Stati Uniti, quei dubbi sarebbero fuffa. Come si sa, gli Stati Uniti, obiettivo primo dell'offensiva terroristica, hanno tagliato con la spada il nodo dei problemi regredendo a uno stadio pre-giuridico il concetto di pericolo. Non è più prioritario dimostrare l'inevitabilità e la concretezza del pericolo. È sufficiente che ci sia un sospetto di pericolosità per trasformare chiunque in enemy combatant. Nemico combattente. La formula soffoca il processo full and fair e quel che lo costituisce: presunzione d'innocenza, diritto al contraddittorio e al silenzio. La vera finalità delle procedure americane non è accertare i fatti e definire le responsabilità, in realtà.
I fatti non hanno più alcun rilievo o importanza. Il nemico combattente è una "risorsa", è uno "strumento informativo" utile a colmare il vuoto di "intelligenza" dei governi. "In tutta la storia della penalità moderna -sostengono gli addetti- nessun processo ha avuto meno garanzie". Ma gli americani si considerano "in guerra" e "di guerra" è la loro interpretazione della "legalità" tutta giocata nella logica dei rapporti amico-nemico.
Non siamo però negli Stati Uniti. Siamo in Italia. Anche il nostro Paese, consapevole di dover svolgere la sua parte nella guerra globale al terrorismo, ha adeguato ritoccandole alcune regole per favorire l'iniziativa poliziesco-giudiziaria contro le "cellule" di Al Qaeda impegnate in Italia -come in una retrovia- nel reclutamento, nel finanziamento, nel proselitismo e nella propaganda ideologica. Per dare più spazio e profondità alle indagini e ai processi è nato l'ambiguo reato di "associazione terroristica internazionale" (articolo 270 bis) che ancora cerca una giurisprudenza condivisa. Le interpretazione che finora ne sono state date sono divergenti.
È utile qualche esempio. Il giudice delle indagini preliminari di Milano, Renato Bricchetti, il 16 settembre 2003, ha assolto dall'accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarqawi con queste parole: "La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l'incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (...) Né la prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell'attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi". Per contestare, dunque, l'associazione terroristica internazionale non è sufficiente documentare che un passaporto è falso e lo ha falsificato l'imputato. Bisogna provare che l'imputato lo ha falsificato nella consapevolezza che sarebbe stato utilizzato dall'organizzazione del terrore. Questa interpretazione è stata capovolta due mesi dopo, da un altro giudice. 25 novembre 2003. Guido Salvini ha disposto la cattura di alcuni presunti "kamikaze" di Al Ansar argomentando così: "Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all'estero".
Siamo all'oggi. Il supporto logistico offerto dallo sceicco Abderrazac ad Ansar al Islam è terrorismo? Clementina Forleo, giudice delle indagini preliminari accetta l'interpretazione più "colpevolista", per dir così, di Salvini. Il giudice non ha dubbi che falsificare un passaporto, proteggere l'immigrazione clandestina dei combattenti, favorire il viaggio di un combattente verso i luoghi del conflitto definisca la partecipazione degli imputati alla lotta armata di quel gruppo. " Gli imputati - scrive Clementina Forleo - avevano come precipuo scopo il finanziamento e, più in generale, il sostegno di strutture di addestramento paramilitare in Medioriente presumibilmente nel nord dell'Iraq". Si chiede, però, il giudice: la battaglia che combatte Ansar al Islam è terrorismo o guerriglia? Che cos'è il terrorismo? Ora si può cadere dalle nuvole, in buona o cattiva fede, ma il problema c'è, è solido, ha molte contraddittorie interpretazioni. Prima dell'11 settembre la definizione universalmente accettata di terrorismo era stata messa insieme dall'Fbi e recitava: "Terrorismo è l'uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile e ogni loro segmento, nel perseguimento di obiettivi politici o sociali". Con l'attacco alle Torri, questa definizione è apparsa un arnese senza significato. È stata riscritta per creare le premesse alle azioni di contrasto. Oggi la definizione americana più attuale è: "Il terrorismo impiega l'uso calcolato della violenza e della minaccia di violenza per conseguire obiettivi generalmente politici, religiosi e ideologici attraverso l'induzione della paura, l'intimidazione o la coercizione". Si può stringere in questo confine quel che accade in Iraq? Evidentemente no, si è risposto il giudice di Milano. Che dovendo definire il fatto per decidere delle responsabilità -insomma per fare il suo mestiere- ha guardato in alto alla definizione di terrorismo offerta dalla convenzione delle Nazioni Unite. C'è chi può dire che è stata una mossa avventata? L'Onu scava un discrimine tra il terrorismo e la guerriglia a partire dalla violenza e la morte indiscriminata della popolazione civile. "Le attività violente di guerriglia in contesti bellici - conclude infatti il giudice - sono diverse da quelle di tipo terroristico, dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l'umanità". Se si combatte non contro civili inermi -come a New York l'11 settembre- ma contro truppe armate, eserciti, addirittura coalizione di eserciti e soprattutto con armi infinitamente meno potenti e distruttive, appare al giudice che quella lotta non può definirsi terrorismo, ma guerriglia. Si può credere che non tocchi a un giudice definire la qualità o il significato di quel che accade in Iraq, ma gli si deve concedere che lo ha fatto per fare il suo lavoro appellandosi alle convenzioni internazionali. Quasi una scelta obbligata. A chi doveva appellarsi, altrimenti? Al dibattito politico? Alla nozione attuale di "legalità" del Patriot Act? Può non piacere, ma non servono anatemi e scomuniche. Occorre buon senso, testa fredda, disponibilità al dialogo per affrontare quel che accadrà in Iraq e saperlo guardare, valutare, comprendere. L'ipocrisia della "missione di pace" ha fatto il suo tempo. Come prima delle ragionevoli parole di un giudice, ci ricorda il destino di Simone Cola. (25 gennaio 2005)
http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/cronaca/cellulaisl/indignedir/indignedir.html
IL COMMENTO
L'INDIGNAZIONE non serve a capire. Può infiammare l'opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano, dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell'attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell'Iraq. La decisione del giudice milanese risponde a due questioni ancora aperte, dopo l'11 settembre, dopo la creazione di norme antiterrorismo più adeguate a fronteggiare una minaccia che, rispetto al passato, è non convenzionale e caotica. Quali sono i comportamenti e le attività che ci permettono di dire che un uomo faccia parte di un'associazione terroristica? È sufficiente che raccolga del denaro o falsifichi un passaporto per poter dire quell'uomo un terrorista? E ancora: che cos'è il terrorismo? È terrorismo quello che insanguina l'Iraq? La decisione di Milano propone una risposta. Parziale. Discutibile. Da discutere comunque, e non da liquidare, soprattutto nel giorno dell'addio a Simone Cola, con lo sdegno di Fini o con il furore demagogico di un Calderoli dallo stomaco debole. Fossimo negli Stati Uniti, quei dubbi sarebbero fuffa. Come si sa, gli Stati Uniti, obiettivo primo dell'offensiva terroristica, hanno tagliato con la spada il nodo dei problemi regredendo a uno stadio pre-giuridico il concetto di pericolo. Non è più prioritario dimostrare l'inevitabilità e la concretezza del pericolo. È sufficiente che ci sia un sospetto di pericolosità per trasformare chiunque in enemy combatant. Nemico combattente. La formula soffoca il processo full and fair e quel che lo costituisce: presunzione d'innocenza, diritto al contraddittorio e al silenzio. La vera finalità delle procedure americane non è accertare i fatti e definire le responsabilità, in realtà.
I fatti non hanno più alcun rilievo o importanza. Il nemico combattente è una "risorsa", è uno "strumento informativo" utile a colmare il vuoto di "intelligenza" dei governi. "In tutta la storia della penalità moderna -sostengono gli addetti- nessun processo ha avuto meno garanzie". Ma gli americani si considerano "in guerra" e "di guerra" è la loro interpretazione della "legalità" tutta giocata nella logica dei rapporti amico-nemico.
Non siamo però negli Stati Uniti. Siamo in Italia. Anche il nostro Paese, consapevole di dover svolgere la sua parte nella guerra globale al terrorismo, ha adeguato ritoccandole alcune regole per favorire l'iniziativa poliziesco-giudiziaria contro le "cellule" di Al Qaeda impegnate in Italia -come in una retrovia- nel reclutamento, nel finanziamento, nel proselitismo e nella propaganda ideologica. Per dare più spazio e profondità alle indagini e ai processi è nato l'ambiguo reato di "associazione terroristica internazionale" (articolo 270 bis) che ancora cerca una giurisprudenza condivisa. Le interpretazione che finora ne sono state date sono divergenti.
È utile qualche esempio. Il giudice delle indagini preliminari di Milano, Renato Bricchetti, il 16 settembre 2003, ha assolto dall'accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarqawi con queste parole: "La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l'incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (...) Né la prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell'attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi". Per contestare, dunque, l'associazione terroristica internazionale non è sufficiente documentare che un passaporto è falso e lo ha falsificato l'imputato. Bisogna provare che l'imputato lo ha falsificato nella consapevolezza che sarebbe stato utilizzato dall'organizzazione del terrore. Questa interpretazione è stata capovolta due mesi dopo, da un altro giudice. 25 novembre 2003. Guido Salvini ha disposto la cattura di alcuni presunti "kamikaze" di Al Ansar argomentando così: "Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all'estero".
Siamo all'oggi. Il supporto logistico offerto dallo sceicco Abderrazac ad Ansar al Islam è terrorismo? Clementina Forleo, giudice delle indagini preliminari accetta l'interpretazione più "colpevolista", per dir così, di Salvini. Il giudice non ha dubbi che falsificare un passaporto, proteggere l'immigrazione clandestina dei combattenti, favorire il viaggio di un combattente verso i luoghi del conflitto definisca la partecipazione degli imputati alla lotta armata di quel gruppo. " Gli imputati - scrive Clementina Forleo - avevano come precipuo scopo il finanziamento e, più in generale, il sostegno di strutture di addestramento paramilitare in Medioriente presumibilmente nel nord dell'Iraq". Si chiede, però, il giudice: la battaglia che combatte Ansar al Islam è terrorismo o guerriglia? Che cos'è il terrorismo? Ora si può cadere dalle nuvole, in buona o cattiva fede, ma il problema c'è, è solido, ha molte contraddittorie interpretazioni. Prima dell'11 settembre la definizione universalmente accettata di terrorismo era stata messa insieme dall'Fbi e recitava: "Terrorismo è l'uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile e ogni loro segmento, nel perseguimento di obiettivi politici o sociali". Con l'attacco alle Torri, questa definizione è apparsa un arnese senza significato. È stata riscritta per creare le premesse alle azioni di contrasto. Oggi la definizione americana più attuale è: "Il terrorismo impiega l'uso calcolato della violenza e della minaccia di violenza per conseguire obiettivi generalmente politici, religiosi e ideologici attraverso l'induzione della paura, l'intimidazione o la coercizione". Si può stringere in questo confine quel che accade in Iraq? Evidentemente no, si è risposto il giudice di Milano. Che dovendo definire il fatto per decidere delle responsabilità -insomma per fare il suo mestiere- ha guardato in alto alla definizione di terrorismo offerta dalla convenzione delle Nazioni Unite. C'è chi può dire che è stata una mossa avventata? L'Onu scava un discrimine tra il terrorismo e la guerriglia a partire dalla violenza e la morte indiscriminata della popolazione civile. "Le attività violente di guerriglia in contesti bellici - conclude infatti il giudice - sono diverse da quelle di tipo terroristico, dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l'umanità". Se si combatte non contro civili inermi -come a New York l'11 settembre- ma contro truppe armate, eserciti, addirittura coalizione di eserciti e soprattutto con armi infinitamente meno potenti e distruttive, appare al giudice che quella lotta non può definirsi terrorismo, ma guerriglia. Si può credere che non tocchi a un giudice definire la qualità o il significato di quel che accade in Iraq, ma gli si deve concedere che lo ha fatto per fare il suo lavoro appellandosi alle convenzioni internazionali. Quasi una scelta obbligata. A chi doveva appellarsi, altrimenti? Al dibattito politico? Alla nozione attuale di "legalità" del Patriot Act? Può non piacere, ma non servono anatemi e scomuniche. Occorre buon senso, testa fredda, disponibilità al dialogo per affrontare quel che accadrà in Iraq e saperlo guardare, valutare, comprendere. L'ipocrisia della "missione di pace" ha fatto il suo tempo. Come prima delle ragionevoli parole di un giudice, ci ricorda il destino di Simone Cola. (25 gennaio 2005)
http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/cronaca/cellulaisl/indignedir/indignedir.html
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